Latest Posts

"L'utopia della lotta agli sprechi", di Luca Ricolfi

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per affrontare il problema dei tagli alla spesa pubblica. Vedremo che cosa ne verrà fuori. E speriamo che il risultato non siano solo annunci, ulteriori «fasi di studio», impegni futuri, «tavoli tecnici» e approfondimenti vari. Perché una cosa va detta: di «enti inutili», «spending review», sprechi della Pubblica Amministrazione, si parla da decenni, almeno dai tempi di Ugo La Malfa, e di studi settoriali sull’efficienza della macchina amministrativa pubblica se ne contano ormai a bizzeffe.

E il quadro generale è piuttosto chiaro. La spesa pubblica totale, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, ammonta a circa 500 miliardi di euro.

Il tasso di spreco medio è nell’ordine del 20-25%, il che significa che, se si adottassero le pratiche delle amministrazioni più efficienti (ma sarebbe più esatto dire: meno inefficienti), si potrebbero risparmiare almeno 100 miliardi l’anno. Una cifra con cui, giusto per fare un esempio, si potrebbe portare la pressione fiscale sui produttori a livelli irlandesi, attirare investimenti esteri e creare milioni di posti di lavoro.

Ma perché, se il quadro è chiaro, nulla o quasi nulla mai avviene, né con governi di sinistra, né con governi di destra, né con governi tecnici?

Le ragioni per cui nulla di importante mai avviene, a mio parere, sono almeno tre. La prima, ovvia, è che è politicamente più facile aumentare le tasse che ridurre la spesa. L’aumento delle tasse si traduce in decine di piccole vessazioni nessuna delle quali è abbastanza concentrata su una singola categoria da suscitare una rivolta dei contribuenti. I tagli alla spesa invece toccano categorie molto specifiche, e così creano una saldatura fra corporazioni, sindacati e ceto politico (specie locale), una sorta di patto nascosto o implicito che blocca qualsiasi decisione presa dal governo centrale.

La seconda ragione che blocca i tagli è che, colpevolmente, in questi anni il ceto politico non ha mai commissionato studi analitici. Di un comparto come la sanità, o come la giustizia, o come la burocrazia comunale, si sa con discreta precisione quanto spreca, a vari livelli: a livello nazionale, a livello regionale, spesso anche a livello provinciale. Ma non si sa dove esattamente gli sprechi si annidino, perché per saperlo occorrerebbe effettuare centinaia di studi locali e dettagliati – «studi analitici» appunto – che di norma richiedono un tempo (da 1 a 3 anni) che va al di là del miope orizzonte dei nostri partiti politici. Questo spiega perché, arrivati al dunque, i tagli sono sempre lineari e piccoli. Si dice a tutti: risparmia il 2% subito, mentre si dovrebbe dire: avete tempo 5 anni, ma tu – amministrazione abbastanza virtuosa – devi risparmiare il 4% in 5 anni, mentre tu – amministrazione cicala – devi risparmiare il 40%.

E qui veniamo alla vera, profonda e a mio parere insuperabile ragione per cui non si riesce e – temo – non si riuscirà mai a eliminare gli sprechi: le amministrazioni virtuose sono territorialmente concentrate in alcune, ben note, regioni del Centro-Nord, quelle viziose in alcune, ben note, regioni del CentroSud. Una politica di risparmi di spesa seria dovrebbe avere il coraggio di dire: caro Lombardo-Veneto, cara Emilia Romagna, avete già fatto molto per razionalizzare la spesa, quindi a voi chiediamo solo una ulteriore limatura del 5% (cifra indicativa, ma non lontana dalla realtà). Caro Piemonte, cara Liguria, cara Umbria, voi siete state meno brave, a voi dobbiamo chiedere di tagliare il 15%. E poi dovrebbe farsi forza e dire: care Sicilia, Calabria e Campania, voi buttate via i soldi, vi diamo 5 anni di tempo ma voi la spesa la dovete ridurre del 40%. Mentre voi, Puglia, Abruzzo, Sardegna, di soldi ne buttate via un po’ di meno, e quindi a voi chiediamo risparmi minori, diciamo del 25% in 5 anni.

Naturalmente le regioni e le cifre precedenti sono solo indicative. La graduatoria degli sprechi, all’ingrosso e a grandissime linee, è effettivamente quella che ho appena indicato ma non è la medesima in tutti i campi: un territorio può essere inefficiente nella sanità ma abbastanza efficiente nella giustizia; una regione sprecona può contenere isole di efficienza, così come una regione virtuosa può contenere sacche di inefficienza. E’ proprio per questo che, se non ci si vuole affidare ai tagli lineari, gli studi devono essere il più analitici possibile e un governo centrale può fissare solo gli obiettivi aggregati di medio periodo. Un governo che volesse fare sul serio dovrebbe fissare un orizzonte temporale ragionevole (3, 4, 5 anni), quantificare i risparmi possibili in ognuno dei grandi comparti della Pubblica amministrazione, e fissare precisi obiettivi territoriali per ogni comparto. Questo, se lo si volesse, si potrebbe fare anche subito, perché di studi ce ne sono già abbastanza, a partire da quelli della (colpevolmente) disciolta «Commissione Muraro» sulla spesa pubblica, che già anni fa aveva cominciato a delineare un quadro delle inefficienze. Fatto questo, toccherebbe poi alle varie amministrazioni pubbliche, centrali (ministeri) e locali (Regioni, Province, Comuni), ripartire il carico dei risparmi Asl per Asl, reparto per reparto, Comune per Comune, servizio per servizio. Un’operazione che richiederebbe una miriade di studi analitici, una serie di autorità esterne di controllo e valutazione, nonché un processo di contrattazione fra gli enti coinvolti.

Un’utopia? Sì, penso di sì. E appunto per questo, perché quel che si dovrebbe fare appare utopistico con questo ceto politico, con questa opinione pubblica, con queste forze sociali, penso che non se ne farà nulla. Di «spending review» si parlerà ancora un po’, saremo inondati di intenzioni e annunci, e alla fine la spesa verrà limata in maniera molto modesta. I risultati non saranno usati né per costruire asili nido (di cui c’è un enorme bisogno) né per ridurre le tasse a lavoratori e imprese, ma per coprire i buchi di bilancio che – puntualmente – si scopriranno all’avvicinarsi della scadenza del 2013. Il governo, quale che esso sia, si accorgerà fra qualche tempo che l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 è a rischio, e lì farà confluire i proventi di tutti i nostri sacrifici, fatti di maggiori tasse e minori servizi. So che a molti apparirò troppo pessimista, o prevenuto nei confronti di ogni governo della Repubblica presente, passato e futuro, ma questo è quello che – sulla base dell’esperienza – penso si possa realisticamente prevedere.

da www.lastampa.it

"Cresce la mobilitazione contro il femminicidio «Ora una nuova legge»", di Maria Zanchi

Continuano ad arrivare firme all’appello lanciato dal movimento “Se non ora quando”. L’ex ministro Pollastrini: «Subito un piano del governo». Di Pietro: «La politica fermi questa barbarie». Ieri l’ultimo caso a Roma

Per un puro caso, o forse per disperazione, ieri un’altra donna non ha allungato la lunga lista delle vittime per mano di un uomo, spesso quello che si sceglie come marito o compagno. Il caso è molto simile a tanti altri. Una lite familiare. La città è Roma ma potrebbe essere ovunque visto che il femminicidio è la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni. Un marito, ubriaco, che si sfoga sulla propria moglie la colpisce ripetutamente fino a farla crollare a terra. Come aveva fatto altre volte, sostengono chi li conosceva. Solo che questa volta il finale è diverso. Per caso, ma più per disperazione, si diceva, il padre della ragazza, malato, ha cercato di intervenire per calmare gli animi e far terminare la violenta lite. Poi ha afferrato il coltello e ha colpito l’uomo, un 49enne peruviano, al petto provocandogli un’emorragia fatale.
L’epilogo diverso ma storia molto troppo simile a tante altre. E proprio contro questa mattanza che il movimento di «Se non ora quando» hanno lanciato un appello, che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia e le firme aumentano di ora in ora. Dalla leader Cgil Susanna Camusso, a Roberto Saviano, al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter ha scritto: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie».
«È giusto gridare insieme basta. È salutare che si uniscano gli uomini di buona volontà e dicano» ha detto ieri l’ex ministra per le Pari opportunità Barbara Pollastrini, che ha aderito all’appello di Snoq. «Ma poi? Sono anni che riempiamo strade, piazze e convegni contro la violenza», prosegue l’esponente del Pd. «Chiediamo quindi subito al governo e alle ministre di presentare il piano d’azione contro molestie e violenza. Alle donne, sulle pensioni, è stato chiesto molto: l’esecutivo restituisca qualcosa almeno in termini di sicurezza e diritti umani. Servono risorse da stanziare per la prevenzione, per centri e case di accoglienza, per la tutela delle vittime. È indispensabile la celerità dei processi e la certezza della pena. E, certo, cultura, civismo e educazione al rispetto sono antidoti fondamentali».
«Aderisco all’appello di Se non ora quando per una mobilitazione che metta sotto gli occhi anche di chi non vuol vedere, la silenziosa strage di donne uccise da quelli che consideravano i loro uomini» ha fatto sapere Rosa Villecco Calipari, vicepresidente dei deputati Pd. « Credo che ognuna e ognuno per la nostra parte, oltre alla mobilitazione, possiamo fare qualcosa in più. Dal rendere noti i dati di femminicidi e violenze con rilevazioni oggettive, dal finanziare i centri che sostengono le donne, dal raccontare ogni giorno su tutti i media quel che succede tra le mura domestiche, dal legiferare perchè questi crimini siano puniti senza attenuanti di sorta».
«Dall’inizio dell’anno ha spiegato il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in una nota 54 donne sono state uccise dai loro compagni, mariti o ex conviventi. Una vergogna nazionale, una mattanza inaccettabile. La violenza sulle donne è un atto criminale, indegno di qualsiasi Paese civile. Per questo, aderisco con convinzione all’appello Mai più complici: è tempo che la politica si impegni seriamente per fermare questa barbarie».
Serve una nuova legge e serve subito. Intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi.

da l’Unità 30.4.12

******

Non chiamatelo più un «femminicidio» di Isabella Bossi Fedrigotti

Sono sempre più frequenti gli assassini dentro la famiglia le cui vittime sono mogli, fidanzate, compagne, uccise dai partner. Delitti che si sentono definire, per una certa ansia di precisione, «femminicidi»: parola che rischia di ottenere un effetto opposto a quello che si propone, che finisce per farli intendere come chiusi in una categoria, meno gravi dei normali omicidi.
Ci piace essere chiamate femmine? Non tanto. Probabilmente, perché, magari erroneamente, abbiamo l’impressione di sentire in quel termine una vaga intenzione di svilimento, se non di disprezzo. Del resto — sebbene la parola alle nostre orecchie italiane suoni inevitabilmente un po’ più nobile — è facile pensare che neppure gli uomini siano molto contenti di sentirsi definire maschi, sorta di timbro per distinguere un capo di bestiame.
Di conseguenza piace poco il termine «femminicidio» che si sta diffondendo, impiegato sempre più di frequente perché sempre più frequenti sono gli atti che vuole definire: gli assassini nella famiglia, cioè, le cui vittime sono mogli, fidanzate, compagne, sia ex che ancora in essere, ammazzate dai partner per gelosia, per vendetta o anche per quello che qualcuno immancabilmente si affretta a definire «troppo amore». Delitti in preoccupante crescita, un anno dopo l’altro. Difficoltà economiche, disoccupazione o dequalificazione professionale non possono che essere benzina sul fuoco di un carattere tendenzialmente aggressivo o, anche, soltanto difficile, diffidente, insicuro. Affamato di possesso.
Delitti che da qualche tempo si sentono definire, per una certa ansia di precisione, femminicidi. Questo rischia di farli subito intendere come minori, meno gravi dei normali omicidi. Uxoricidi si chiamano nel codice, ma uxor è la moglie, non la fidanzata, l’ex fidanzata, la convivente o la ex convivente, categorie che, quanto a rischi mortali, non hanno nulla da invidiare a quelli delle legittime consorti: per loro, dunque, è stato inventato il nuovo termine. Ma le parole contano, ed è pericoloso usarle con leggerezza perché possono modificare la percezione.
Felice la lingua tedesca, si vorrebbe dire, che per uomini, donne e anche bambini possiede il termine Mensch che, pur contenendo il resto di una radice maschile, indica la profondissima essenza umana.

da il Corriere della sera 30.4.12

******

“Quelle donne bruciate per emulazione in Argentina”, di Concita De Gregorio

Wanda e le altre, arse vive dai mariti così l´uxoricidio scatena l´emulazione. La follia di una rockstar e i delitti che sconvolgono l´Argentina. Due anni fa il batterista della band maledetta Callejeros dà fuoco alla moglie. Da allora a Buenos Aires si contano almeno quindici casi simili. Il gruppo di Vazquez era stato già protagonista di una tragedia: un incendio prima di un concerto aveva provocato la morte di 194 persone

SI IMITANO. Si esaltano, si sentono dannati e onnipotenti. Dispongono della vita e della morte, accendono il fuoco e appiccano il rogo: bruciano le donne. Ragazzine, adolescenti incinte, giovani madri. Fanno come ha fatto il loro eroe, il cantante maledetto del gruppo rock di successo. Anche loro, come lui. Ti do fuoco, ti guardo bruciare. Succede a Buenos Aires, e nessuno ne parla perché non fanno notizia storie così. Delitti domestici, roba ordinaria. Questa è una storia lontana, una storia argentina. Ma è una storia esemplare. Perché mentre di nuovo, in Italia, come un fiume carsico riemerge l´allarme per quello che si chiama femminicidio ed è il frutto del malamore, la trappola assurda e mortale a cui le donne si sottomettono scambiando la violenza e il senso del possesso per amore, laggiù lontano oltre l´oceano una sequenza di roghi ci dice qualcos´altro. Che si può uccidere per somigliare a un eroe della musica dannata, che se nessuno ferma la spirale e la chiama per nome, la nomina per quello che è, diventa quasi un gioco. Un videogame, una sfida. Sono almeno quindici, forse di più, le donne bruciate a Buenos Aires. «Sì è vero. Da noi le donne le bruciano», conferma Fernando Iglesias, deputato e scrittore. «È diventata una moda. Da quando il batterista dei Callejeros, quel gruppo rock famosissimo anche per la tragedia dell´incendio in discoteca, insomma da quando Eduardo Vazquez ha bruciato la sua donna, un paio d´anni fa, è scattata l´emulazione».
Hanno cominciato subito dopo di lui, i ragazzini, a dar fuoco alle fidanzate. Non hanno più smesso. Le bruciano in cucina, di solito». Come in cucina, ma che dici? «In cucina, sì. E di mattina. È appena uscita una statistica: più spesso di mercoledì, più spesso di mattina dopo le 11. In casa, in città, qui a Buenos Aires. In prevalenza ragazze fra i 15 e i 25 anni. Però non ne parla nessuno, lì da voi nel Primo Mondo: seguo le rassegne ma non ho visto niente. Eppure è un contagio spaventoso. Il fuoco, poi: primordiale. Troppi casi analoghi, stesse modalità, torce umane, l´ultimo delitto un paio di mesi fa. Il processo è in corso adesso. Danno la colpa a lei, alla morta». La colpa di cosa? «Di essersi bruciata da sola. Ci puoi credere?».
No, non ci posso credere. Non ci posso credere e le voglio ascoltare con le mie orecchie, vedere coi miei occhi le testimonianze di chi, al processo, dice che Maria Aldana Torchielli, 17 anni – diciassette, un´adolescente pallida – il 15 febbraio di quest´anno, durante una lite, si è cosparsa da sola di alcol. Quello per disinfettare le ferite e per pulire i pavimenti, l´alcol rosa nei bottiglioni di plastica. Che se lo è rovesciato sui genitali, in testa, sui piedi e sul seno e che – da sola, da sola – ha annunciato al suo irascibile ragazzo, Juan Gabriel Franco, 23 anni: mi do fuoco. Che lo ha fatto perché era «instabile e gelosa», testimoniano in aula i conoscenti per la soddisfazione della famiglia di lui. Troppo gelosa. Lui ha cercato di salvarla, aggiungono, infatti ha le mani e le braccia ustionate. Ma lei voleva morire: è stata lei ad uccidersi. Anche i due poliziotti che sono intervenuti per primi nell´appartamento, due misere stanze, hanno detto sotto giuramento che prima di perdere conoscenza Aldana ha sussurrato loro: sono stata io. Sono gli unici due testimoni, i poliziotti. A parte Juan Gabriel, naturalmente, che però è anche accusato dell´omicidio per cui diciamo che è di parte. Aldana è arrivata in ospedale in coma, non ha mai ripreso conoscenza. Aveva ferite gravissime al volto, al collo, al torace, all´addome, i genitali erano carbonizzati, le mani e i piedi disciolti. La famiglia del ragazzo è presente in aula. Lei lo provocava, dicono, era gelosissima. Lo minacciava. Però lui è qui, lei è morta, risponde Myriam la madre di Aldana: era mia figlia, ripete come un´ossessione. Era mia figlia. Lui è qui e lei è morta. «La famiglia di quell´uomo mi ride in faccia, mi guarda negli occhi e ride. Ma io non mi arrendo, non mi lascio intimidire. Io so che l´ha ammazzata, lei aveva paura. Devo essere forte perché Aldana ha molte sorelle. Wanda Taddei è con me».
Ecco, Wanda Taddei. La giovane donna uccisa dal batterista dei Callejeros, Eduardo Vazquez. Un idolo, lui: amato dai giovani e circondato da un´aura di dannazione. Adorato perché dannato. Una storia che ricorda da vicino quella di Bertrand Cantat, il leader dei Noir Desir assassino di Marie Trintignant, figlia del grande attore. Questa però, la storia di Eduardo Vazquez, non è solo una storia di violenza: è una storia nera di fuoco. Il fuoco omicida e purificatore, dicono i siti deliranti a cui gli adolescenti si ispirano per bruciare le loro ragazzine. Conviene riassumerla nella sua tragica insensatezza.
I Callejeros sono il gruppo rock sulla cresta dell´onda che deve esibirsi il 30 dicembre 2004 nella grande discoteca Cromagnon, in calle Bartolomeo Mitre, Buenos Aires. Arrivano a migliaia. Poco prima del concerto qualcuno lancia un petardo. Prende fuoco un telone, poi un altro, poi tutto. Le porte sono chiuse dall´esterno. Nel rogo, in pieno centro città, muoiono 194 persone. Sono quasi tutti ragazzi fra 17 e 23 anni. 1432 sono i feriti gravi e gravissimi. Alla vigilia di Capodanno sparisce una generazione. La tragedia di Cromagnon dà via a un processo infinito, nessuno sembra responsabile. La strada, calle Mitre, viene chiusa e diventa un mausoleo a cielo aperto. I Callejeros – alcuni di loro hanno perso nell´incendio i genitori e gli amici – sono considerati i responsabili per così dire morali. Diventano il simbolo della distruzione e della morte nel fuoco. Ci sarà un referendum popolare, anni dopo, per decidere se possano tornare ad esibirsi. Non accadrà. Non suoneranno, da quel giorno, mai più. Nessuno li vuole. I componenti della band si disperdono, si perdono. Nascono siti e gruppi che ne adorano l´assenza e la maledizione. Sei anni dopo il batterista ritrova la sua fiamma di gioventù, Wanda Taddei, e la porta a vivere con sé. La ragazza aveva 15 anni quando si erano incontrati la prima volta, ma la famiglia di lei li aveva divisi: lui è un violento, ubriaco, drogato. Non fa per te, te lo vieto: le disse allora il padre. Questa volta però lei è una donna. Ha un matrimonio alle spalle e due figli maschi. Vuole Eduardo, il suo amato aguzzino: va a vivere con lui. Il 10 febbraio 2010 lui la brucia, durante una lite: la cosparge di alcol e le dà fuoco. I bambini, Juan Manuel e Facundo, sono rintanati in uno sgabuzzino. «Ci sentivamo sempre più sicuri nello sgabuzzino», dirà Facundo al processo. «Eduardo picchiava sempre la mamma». Siamo a febbraio, da allora è un rosario di delitti.
Il primo – identico – sei mesi dopo. Fatima Guadalupe Catan, 24 anni, incinta, bruciata viva in casa dal fidanzato. Poi Dora Coronel, 26 anni. A dicembre Alejandra Rodriguez. Madre di una bimba di 4 anni, bruciata in cucina con l´alcol. Subito dopo Norma Rivas, 22 anni, tre figli: con la nafta, questa volta. A gennaio del 2011 Ivana Correa, 23 anni. A marzo muore Mayra Ascona, 30, incinta. Bruciata in casa dal marito. Tutti casi isolati, nessun allarme, nessuno che metta in fila la sequenza. Fino a febbraio di quest´anno, quando la madre di Aldana, la diciassettenne morta dopo dieci giorni di coma, va in tv e dice nello strazio: sarò forte per le sue sorelle, le sorelle di Aldana mia figlia e di Wanda Taddei.
C´è una superstite, si chiama Corina Fernandez. Dice: «Cadi in una rete di paura e non ce la fai ad andartene. Quando dici me ne vado è allora che ti ammazzano». Il femminicidio col fuoco è oggi in Argentina al quarto posto nelle classifiche di morte, che dicono così: 1) proiettili. 2) pugnale e coltello. 3) botte. 4) fuoco. Una ragazza su dieci muore bruciata. Seguono: strangolata, sgozzata, asfissiata, uccisa col martello, bastonata, affogata. Di solito per mano del convivente o dell´ex. Di solito in casa. Elena Highton de Nolasco, giudice della Corte Suprema, afferma avvilita che «non possiamo mettere un poliziotto accanto ad ogni donna che denuncia». Corina, che si è salvata per caso, aveva denunciato il compagno 80 volte. Ottanta. «Ora lo hanno condannato a sei anni, e io ho i giorni contati. Quando esce di sicuro mi ammazza». Mi brucia, dicono ormai le donne argentine. È diventato sinonimo. Quando esce mi brucia.

da La Repubblica 30.4.12

"Sei italiani su 10 contrari alle elezioni subito", di Renato Mannheimer

Poca fiducia nel rinnovamento dei partiti: il 75% non crede alla «rivoluzione» Pdl

C’è chi, negli ultimi giorni, ha accennato alla possibilità, peraltro subito smentita, di anticipare le elezioni politiche (previste alla naturale scadenza della legislatura nella primavera del 2013) al prossimo ottobre. L’elettorato è in maggioranza (60%) contrario. Anche se ben un cittadino su tre (35%), insoddisfatto del governo Monti, si dichiara invece favorevole a tenere le consultazioni già in autunno. Questa posizione è particolarmente diffusa nell’elettorato del Popolo della libertà, ove supera la metà (51%), data proprio la crescente ostilità nei confronti dell’esecutivo dei votanti per questo partito.
Benché sia comunque probabile che il governo di Mario Monti duri fino alla primavera del 2013, i partiti hanno iniziato a prepararsi in vista della scadenza elettorale, qualunque essa sia. Non a caso, nelle ultime settimane si sono evidenziati mutamenti significativi nell’offerta e nella proposta di diverse forze politiche. In questo quadro, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi hanno annunciato, subito dopo le amministrative, quella che essi stessi hanno definito «la più grande rivoluzione nell’offerta dei partiti da molti anni a questa parte». Al tempo stesso, Pier Ferdinando Casini ha azzerato i vertici dell’Udc, in vista della formazione di una nuova, più ampia, forza politica che inglobi anche le altre componenti del centro e, se possibile, segmenti di elettorato dei due partiti maggiori. Nel centrosinistra, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha (finalmente) dichiarato di volere rinunciare alla metà del finanziamento pubblico, attenuando così l’impressione di una chiusura a mutamenti in questo senso, che sembrava emergere da alcune sue dichiarazioni precedenti.
I motivi di questa più incisiva (e, non a caso, contemporanea) iniziativa dei partiti nel tentare un miglioramento della loro immagine sono prevalentemente due:
— da un lato, il noto diffondersi dei sentimenti e degli atteggiamenti antipartitici (che non corrispondono necessariamente all’antipolitica), accentuatisi ancora negli ultimi giorni. Tanto che per i partiti tradizionali l’imperativo è ormai quello di rinnovarsi o di andare incontro ad un severo calo di consensi.
— dall’altro, l’inversione di tendenza nel sostegno popolare al governo Monti che ha visto, secondo tutti i sondaggi, una contrazione dei giudizi favorevoli. Dovuta probabilmente all’intensificarsi del peso della pressione fiscale e, al tempo stesso, al riaccendersi dello spread e alla percezione di una ancora insufficiente iniziativa sui tagli alla spesa pubblica e sui provvedimenti per lo sviluppo.
L’insieme di questi fenomeni ha notevolmente allargato lo spazio potenziale per forze politiche «nuove» (o, secondo alcuni, più semplicemente «rinnovate») che volessero presentarsi nell’arena elettorale. Tanto che oggi la percentuale di chi dichiara di essere «sul mercato», non sapendo che partito votare o essendo tentato dall’astensione, costituisce la maggioranza assoluta (57%).
Dalle prime analisi emerge però che nessuna delle iniziative annunciate ha riscontrato particolare successo e/o credibilità tra gli elettori. La proposta di Casini — alla quale, comunque, i sondaggi attribuiscono un vasto mercato potenziale, pari al 21% — suscita, nella maggioranza (63%) dell’elettorato, «indifferenza». Anche se poco più di un cittadino su cinque (20%) plaude alla decisione del Segretario dell’Udc e se, naturalmente, questo atteggiamento di consenso è condiviso dalla larghissima maggioranza (87%) dell’elettorato del suo stesso partito. In misura ancora maggiore, l’annuncio di Alfano e Berlusconi si scontra per ora con l’opinione di tre elettori su quattro (75%) che dichiarano di non credere a quanto comunicato dai due leader, mentre il restante 25% lo ritiene invece possibile. Anche in questo caso, naturalmente, il parere degli elettori del Pdl è diverso: costoro mostrano, nella loro maggioranza (70%), di avere fiducia in quanto enunciato. Ma anche qui il restante 30% si dimostra incredulo sulla possibilità di un effettivo rinnovamento del partito.
Insomma, i primi tentativi di rinnovamento dell’offerta politica si scontrano per ora con la perplessità diffusa dell’elettorato. Che forse si aspetta (ne ha parlato anche Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore, cui ha subito replicato Casini) non solo e non tanto un mero ridisegno del marketing o un mutamento delle sigle. Ma un più radicale e profondo ripensamento dei programmi e dei modi di agire delle forze politiche attuali.

da Il Corriere della Sera

"Con il pendolarismo tra lavori saltuari a rischio le tutele sociali", di Carlo Buttaroni

La mancanza di occupazione stabile riduce le entrate necessarie a pagare i servizi essenziali. E le donne rinunciano sempre di più a cercare un lavoro. Dopo la cura del rigore la politica dovrà dire che società vuole costruire

C’era una volta il lavoro stabile. Riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita degli italiani e paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria, ma anche la sfera personale, il tempo libero, le relazioni sociali, lo spazio dedicato alla famiglia.
Un sistema che corrispondeva a un modello di società fondata sul lavoro incastonato nella nostra Costituzione che formava un cittadino corrispondente a quel modello di organizzazione, integrando le imprese, i lavoratori, i partiti, i sindacati in un processo collettivo di governance sociale.
Oggi non è più così. Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno progressivamente trascinato nella crisi anche quel modello. E con esso il sistema generale di garanzie e di protezione che su quell’organizzazione avevano preso forma: il sistema formativo, la sanità pubblica che si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti da malattie, le pensioni di anzianità, garanzia di sicurezza economica dopo che si era smesso di lavorare.
Oggi le cose stanno drasticamente cambiando. E quest’anno il primo maggio segna, anche simbolicamente, lo spartiacque tra la «società del lavoro», centrata sulla stabilità, e la nuova «società dei lavori» che rispecchia l’instabilità economica, politica e sociale.
Le trasformazioni che hanno investito il mercato del lavoro hanno finito per coinvolgerne la qualità stessa. I contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi, le conoscenze richieste in genere polivalenti e le prospettive di carriera più discontinue. A livello macro la lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, anche se non c’è stata un’ascesa della professionalità media quanto, piuttosto, una gamma più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra domande vecchie e nuove. E nel complesso mentre la natura della prestazione è cambiata in meglio, perché è diventata soggetta a minori vincoli e ha dato maggiore discrezionalità al lavoratore, i termini della prestazione sono cambiati in peggio, anche perché le forme di tutela tradizionale non sono riuscite a coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui.
Rapporti di lavoro meno subordinati e più autonomi, perfino nel mondo del lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi nell’ambito contrattuale, progressivamente diventato più circoscritto e assai più articolato. Situazione che ha visto il crescere di una forma di pendolarismo tra lavori saltuari, visti come una formazione dal basso, per molti versi funzionali alla discontinuità del lavoro.
Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso, perfino concitato, poco importa se si è dipendenti o autonomi. E mentre nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà.
Un lavoro che cambia, cresce ed evolve in fretta, ma senza riferimenti precisi. E che contiene molti aspetti ambigui: basta pensare al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano. E sotto questo punto di vista nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo: il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene.
Nel complesso la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro dal dopoguerra alla fine del Novecento era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori del nuovo millennio è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. Persino quote consistenti di assunzioni, oggi, passano attraverso reti informali attivate dai lavoratori stessi, dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. E ciò rende più forti quei sistemi di relazione che Mark Granovetter ha definito «legami deboli», e più deboli quei sistemi che un tempo erano forti.
Modificandosi la composizione tecnica del mondo del lavoro, le tutele che dovevano preservare il lavoro stesso si sono ristrette al solo mondo del salariato tradizionale, tenendo fuori da qualsiasi concreta rete protettiva le nuove e variegate forme di lavoro autonomo subordinato e quelle dell’occupazione marginale e sommersa.
Anche il ruolo sociale della famiglia è entrato in crisi con il venire meno della centralità del lavoro stabile, perché non rappresenta più un soggetto di riferimento dell’intervento protettivo dello stato sociale. Una rottura i cui effetti si sono propagati nei territori socialmente prossimi. A cominciare dalla scuola, oggi non più considerata come un percorso propedeutico alla ricerca di un lavoro e come un investimento per aumentare le possibilità future di reddito.
La crisi del modello economico e sociale, fondato sulla centralità del lavoro stabile, si è alimentato dei caratteri specifici della società contemporanea, come la crescita della curva demografica in termini di età media, l’aumento della spesa sanitaria legata anch’essa all’invecchiamento della popolazione e alla cronicizzazione delle malattie, l’aumento dei fabbisogni sociali e dei relativi costi in termini di erogazione dei servizi.
E mentre crescono le esigenze, decresce la massa di lavoratori su cui esercitare la leva fiscale per finanziare i servizi, con una pressione ormai insostenibile che si concentra quasi esclusivamente sulla quota, in costante calo, dei lavoratori a tempo indeterminato e sui pensionati.
Fattori d’ordine strettamente finanziario si sommano, poi, a quelli di natura sociale. D’altra parte gli strumenti di protezione costituiscono gli aggregati più ampi delle voci di bilancio statale, racchiuse nel capitolo della «spesa pubblica», che sono state il principale strumento politico con cui i governi hanno tentato di bilanciare le storture prodotte dal funzionamento del mercato. La spesa pubblica, il cui obiettivo principale è stato quello di garantire l’equilibrio economico e sociale, ora non sembra più capace di rispondere ai crescenti bisogni sociali, alle crisi finanziarie e al divaricarsi della forbice tra spese ed entrate dello Stato.
Le tensioni che si aprono sui settori classici del welfare, a cominciare da quello del lavoro e da quello pensionistico, rappresentano il quadro di crisi. E l’urgenza di riforme che imprimano una direzione che permetta di uscire dal guado.
Il Premier Monti pochi giorni fa, ha detto che non è possibile pensare alla riproposizione di politiche keinesiane, orientate cioè alla spesa pubblica, per far ripartire il Paese. Un’affermazione che corrisponde a un’idea di società coerente con la riforma del mercato del lavoro presentata dal Governo. Una scelta che impone alle forze politiche di chiarire se il sistema di riforme di cui si discute esula da questioni di contingenza economica e vuole affermare un modello di società rispetto a un altro. I partiti devono dire con chiarezza da che parte stanno, perché i cittadini hanno il diritto di capire e di scegliere.
Sul tavolo non c’è solo una questione tecnica, ma una scelta che più politica non potrebbe essere, perché porta con sé la responsabilità di disegnare il futuro modello sociale. Ed è quindi ora che la politica torni in campo.

da L’Unità

"Il Paese dei penultimi", di Ilvo Diamanti

Il primo maggio, quest´anno, rischia di essere una festa triste per i protagonisti. I lavoratori. Ma anche il lavoro. Come fonte di reddito. Come riferimento dell´identità e come risorsa di promozione sociale. Il lavoro. Principio della Repubblica, sancito dalla Costituzione. Oggi è divenuto incerto. Insieme alla struttura sociale, di cui è base e fondamento. L´Osservatorio su Capitale Sociale di Demos-Coop, infatti, rileva come oltre metà degli italiani (il 53%) percepisca la posizione sociale della propria famiglia “bassa” o “medio-bassa”. Il che significa: oltre 11 punti in più rispetto a un anno fa. E soprattutto: quasi il doppio rispetto al 2006. Detto in altri termini, in pochi anni, l´Italia è divenuto un Paese di “ultimi”. O, al massimo, di “penultimi”. Dove il 37% delle persone insiste a considerarsi parte della “classe operaia” (e il 15% delle “classi popolari”). Anche se pare che gli operai non esistano più.
La fine del berlusconismo ha, dunque, decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po´ di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il “sogno italiano”, interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono “ceto medio” sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il “mito dell´imprenditore” appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%.
Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l´impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell´anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell´ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato “regolarmente tutti i mesi”. O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro.
Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l´ottimismo. Fino a un anno fa, era l´ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo “nazionale”. Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po´) comunisti.
Nel 2003, circa il 40% degli italiani si diceva soddisfatto della condizione economica personale e di quella del Paese. Oggi quelli che esprimono la medesima convinzione sono poco più del 10%. In confronto all´anno scorso: la metà.
D´altronde, nell´ultimo anno, il 45% degli italiani afferma di aver tirato avanti a fatica, con il proprio reddito, senza riuscire a metter da parte nulla. Oltre il 40% dichiara, anzi, di aver dovuto attingere ai propri risparmi oppure di aver fatto ricorso a prestiti. Insomma: di essersi impoverito. Non a caso, negli ultimi due anni, il 62% delle persone (intervistate da Demos-Coop) ritiene che la propria condizione economica sia “peggiorata”.
Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di “perdenti”. Gli “ultimi”, coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai “penultimi”, quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno.
Rispetto a qualche anno fa, il ritratto tracciato dall´Osservatorio di Demos-Coop descrive un altro Paese. Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il “prossimo” si è eclissato e gli “altri” ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri.
Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri – e ancor più ieri l´altro – credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L´arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l´avremmo fatta, comunque. Noi, che quando il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora illeciti. Attraverso l´economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale e quello nero. La pressione e l´evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non garantiscono più le stesse “prestazioni” di una volta. L´arte di arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che, comunque, “ce la faremo” da soli. Con o senza lo Stato. La stessa riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. Non a caso quasi 6 italiani su 10 considerano l´evasione fiscale un comportamento deprecabile. D´altronde, i controlli a sorpresa condotti dalla Guardia di Finanza in alcuni contesti particolarmente visibili, con finalità esemplari e spettacolari, hanno registrato largo consenso, nella popolazione.
Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L´incapacità di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta.
Così rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.

da La Repubblica

******

“L’esercito degli “ultimi” senza più certezze”, di Luigi Ceccarini
L’analisi La crisi si è abbattuta sulla parte più debole della società italiana, che ora diffida della politica e detesta il governo Monti

E’DIFFUSA, tra gli italiani, la sensazione di essere scivolati verso il basso della scala sociale. Ma c’è un aspetto ancor più drammatico che emerge quando approfondiamo i dati della 33sima rilevazione dell’Osservatorio Demos-Coop, dedicato al lavoro e all’economia, in tempi difficili. A soffrire in misura maggiore di questa perdita di posizione sono coloro che già si percepivano ai margini della scala sociale. Si tratta degli “ultimi”, persone già in affanno, che sono scivolati ulteriormente.

E’ una componente considerevole della società italiana: il 40% circa della popolazione. Ritengono che la loro famiglia appartenga ad una classe sociale bassa o medio-bassae dichiarano che la situazione economica personale è peggiorata negli ultimi due anni. Tra di loro, afferma di vivere una situazione peggiore l’81%: quasi tutti. In prevalenza donne; persone di età centrale (45-64 anni), con bassa scolarizzazione; residenti nel Sud, operai e lavoratori autonomi, oltre a categorie fuori dal mercato del lavoro (casalinghe, disoccupati e pensionati). Hanno recentemente vissuto in famiglia esperienze difficili in rapporto al lavoro e all’economia, e si caratterizzano per avere opinioni un po’ diverse dalla media degli italiani. Nelle loro famiglie, infatti, più che nelle altre, nel corso dell’ultimo anno vi sono persone che hanno perso il lavoro, sono finite in mobilità, in cassa integrazione. Oppure, è stato loro ridotto l’orario lavorativo (quindi lo stipendio). Più frequentemente della media hanno cercato un’occupazione, senza trovarla.

Per tirare avanti hanno eroso i risparmi e/o chiesto prestiti, nel 57% dei casi, contro il 42% del dato generale. Gli “ultimi”, attualmente occupati, hanno lavorato meno regolarmente degli altri cittadini e sono più stressati dall’idea di avere un posto a rischio; lo ritengono sicuro solo nel 48% dei casi. Per questo nella loro personale agenda politica spicca come priorità il problema disoccupazione. Fanno registrare una maggiore aspirazione ad un lavoro pubblico, che tradisce una diffusa domanda di sicurezza.

E sono più disposti a fare un lavoro che non piace, purché dia loro garanzie (62% contro il 55%).

Dunque, gli “ultimi” sono fortemente angosciati da un sentimento di incertezza nel futuro, personale e delle loro famiglie. Tanto che non sono disposti a fare progetti di vita impegnativi, perché considerati troppoa rischio (69% contro il 59%). Questo sentimento di incertezza si riflette sugli orientamenti di tipo sociale e politico. Mina la fiducia interpersonale: sono più diffidenti verso gli altri (77% contro il 73%). E meno integrati politicamente: i livelli di interesse per la politica sono più bassi. Fanno poi registrare una maggiore difficoltà ad identificarsi in un partito o nelle posizioni ideologiche di sinistra, centro o destra. Inoltre, il grado di insoddisfazione verso il premier Monti è più elevato della media: segna il 70% degli “ultimi”.

da La Repubblica

L'ultima di Beppe Grillo: «La Mafia non strangola vittime»

L’ultima di Beppe Grillo: «La Mafia non strangola vittime». Comizio in Sicilia per l’ex comico. Parallelo-choc tra la mafia e i partiti: «La mafia non ha mai strangolato i suoi clienti, si limita a prendere il pizzo.

Beppe Grillo sul ring della politica sferra colpi a raffica. E oggi nel suo tour elettorale palermitano non ha fatto eccezione e, forse ispirato dal luogo, ha azzardato un parallelo-choc tra la mafia e i partiti: «La mafia non ha mai strangolato i suoi clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la sua vittima». «Vogliamo nomi e cognomi di chi sta portando al macello il Paese», ha poi detto il comico genovese ipotizzando una sorta di lista di proscrizione. E infatti, ha aggiunto: «Facciamo un processo con una giuria popolare e poi mandiamoli a fare i lavoratori socialmente utili».

Sempre sui politici, nel corso dell’incontro con la stampa, Grillo ha detto: «Lasciateli sfogare, son ragazzi… Non appena rimarranno senza televisioni, senza giornali e senza i poliziotti che sono ormai stanchi di far da scorta a quelli che fanno il burlesque, e si iscrivono al Movimento 5 Stelle di nascosto allora saranno costretti a confrontarsi con i cittadini». La sortita di Grillo su partiti e mafia ha fatto insorgere il Pd che con Nico Stumpo gli ha dato del «ciarlatano». «C’è in Grillo – ha aggiunto – una povertà culturale che gli italiani non meritano».

« Grillo – gli ha fatto eco Claudio Fava di Sel – parla come un mafioso senza essere nemmeno originale. Gli stessi argomenti prima di lui li hanno gia utilizzati Vito Ciancimino e Tano Badalamenti. E come l’ultimo dei mafiosi non ha nemmeno il coraggio di confrontarsi pubblicamente sulle sue patetiche provocazioni». Ma il leader del Movimento 5 Stelle prosegue imperterrito nella sua personale campagna elettorale: ha punzecchiato anche oggi il colle: «Napolitano non ce l’ha con me – ha detto – ma deve fare il Presidente della Repubblica. Noi siamo un movimento eletto dal popolo, lui non è eletto dai cittadini». Ne ha avute anche per il presidente della Camera che nei giorni scorsi aveva dichiarato di non conoscere Grillo: ai cronisti che gli chiedevano un commento sulla uscita di Fini, Grillo ha ribattuto tranchant: «Mi domandate di morti».

da www.unta.it

"Non un privilegio, ma un diritto", di Manuela Ghizzoni

Ieri ho partecipato alla bellissima manifestazione del Comitato Quota 96.
Al ritorno ho riordinato gli appunti per del mio intervento e ora lo pubblico in calce, come nuova tappa del nostro percorso insieme. Grazie per la vostra partecipazione e per il vostro impegno.

Credo sia giusto accogliere le richieste di alcuni di voi per trasferire in questo nuovo post la nostra discussione.
A questo proposito ricordo le “puntate precedenti”:
“Pd, importanti passi avanti su scuola e università”
“Quota 96”
“Quota 96. Dibattito sulle questioni aperte del comparto scuola”
e il link del sito Comitato civico Quota 96.

«E’ bello poterci ritrovare qui, insieme e dare un volto agli amici e alle amiche incontrare sulle pagine del mio sito.
E’ per questo che voglio ringraziare il Comitato Civico Quota 96 che da solo, e nella diffidenza di alcuni, è riuscito a dare sbocco politico ad una protesta spontanea e a trascinarvi in piazza a manifestare per i propri diritti e per dare la massima visibilità alle vostre/nostre rivendicazioni.
Il mio ringraziamento è collettivo, perché gli apporti dei singoli sono stati tanti e tali che non mi perdonerei di dimenticarne anche uno solo.
Ma permettetemi anche di rivolgere, in questa bella piazza, un ringraziamento particolare a Giuseppe, Antonio, Marcella, Susanna, Carlo e Raoul, con i quali ho trattenuto rapporti epistolari frequenti nei mesi scorsi e sono stati per me non solo interlocutori attenti e stimolanti, ma un sostegno nei momenti più difficili della nostra comune vicenda. Grazie.
Fatemela ripercorrere, questa nostra comune avventura.
Tutto è iniziato a metà gennaio, durante la discussione del decreto Milleproroghe. Avevo postato sul mio sito un commento nel quale rivendicavo l’accoglimento di tre importanti emendamenti del PD per il settore scuola e per l’università durante la discussione del decreto nelle commissioni referenti (Bilancio e affari costituzionali), ma restava ancora in discussione quello che disponeva di slittare al 31 agosto 2012 il termine per la maturazione dei requisiti per accedere alla pensione con la normativa previgente alla riforma Fornero.
Il primo commento data 19 gennaio: era di Donato Cucco, che ricordo con simpatia perché poi mi mandò molte mail, facendomi entrare nel vissuto delle sua famiglia.
A quello di Donato seguirono 2785 commenti.
Tanto che, lo ricorderete, fummo costretti ad aprire un secondo post, che intitolammo “Quota 96” dopo una democratica e partecipata discussione. Quel post vide la nascita del Comitato Civico Quota 96 e raccolse ben 3185 commenti.
Fu così necessario approdare ad un terzo, quello attuale, che potremmo definire della maturità del movimento: esso, ad esempio, si è affiancato alle pratiche per il ricorso legale che avete promosso e al sito ufficiale del Comitato. Ad oggi ha raggiunto 1963 commenti.
L’intensità dei commenti è inevitabilmente calata ma non lo è l’attenzione mia personale, di Mariangela Bastico, dei gruppi parlamentari democratici e del Partito Democratico per raggiungere l’obiettivo che già ci prefiggemmo a gennaio: fare rispettare la specificità della scuola anche in ambito previdenziale all’interno della riforma Fornero, perché l’organizzazione della scuola non è scandita dall’anno solare. Nella vita della scuola la data più significativa non è il 31 dicembre, ma il 1 settembre, giorno in cui prende avvio l’anno scolastico. Come ha scritto giustamente Marcella, “l’anno scolastico è indivisibile”, mentre la riforma previdenziale ha spezzato in due tronconi l’anno scolastico in corso, facendo così parti disuguali tra uguali, attribuendo più diritti ad alcuni e meno ad altri.
Quanto è stato scritto nei commenti a quei post rappresenta per me una delle esperienze più appaganti del mandato parlamentare. Confrontarmi con voi, giorno dopo giorno, è stata una palestra politica e di vita.
Ammetto che non è sempre stato facile accogliere le critiche, a volte anche dure, che non avete lesinato alla scelta del Partito Democratico di approvare la rigidissima manovra Salva Italia, assunta per senso di responsabilità nei confronti del Paese: eppure, oltre ad avermi permesso di argomentare quella scelta, mi avete concesso anche quel bagno di umiltà che troppo spesso la politica si dimentica di fare.
Vedete, Mariangela ed io veniamo da quella scuola di pensiero politico che ci ha abituate al rapporto costante e diretto con il territorio e con i suoi cittadini, siano o meno nostri elettori, nonostante la pessima legge elettorale: eppure, quelle migliaia di commenti sono stati qualcosa di diverso dai molti incontri che facciamo nei circoli del Pd in giro per l’Italia e dalle molte risposte alle mail che riceviamo dai nostri interlocutori.
Quei commenti sono stati un prezioso momento di partecipazione politica – che ha dato risultati importanti come dimostra anche il successo di questa manifestazione – per dialogare non solo nel merito delle pensioni, ma per confrontarci sulla difficoltà del Paese e per ragionare sulle responsabilità di chi ha creato le condizioni drammatiche in cui ci troviamo; per discutere dell’equità, il cui tratto è certamente troppo debole nella manovra Monti; per mettere a nudo la durezza della riforma previdenziale che ha calpestato, non lo abbiamo mai taciuto, i diritti acquisiti di migliaia di lavoratori; per confrontarci su cosa bisogna fare per salvare l’Italia e la sua democrazia, a partire dalla riforma dei partiti e del Parlamento.
Sono consapevole che le mie risposte non sono state accolte con la stessa disponibilità da ciascuno di voi, così come io non sempre ho condiviso quanto emergeva dal blog. Ma questo è il sale della democrazia.
Eppure sono convinta che tra di noi sia stata l’onestà intellettuale a prevalere, grazie anche al fatto che nessuno si è mai sottratto al confronto, mettendoci la propria faccia e le proprie idee.
Quello che abbiamo fatto insieme è a mio avviso la migliore risposta alla cosiddetta antipolitica: confrontarsi, discutere, mettersi a servizio degli altri e del bene comune, rivendicare i propri diritti nelle forme democratiche.
Ed è anche una lezione per tutti.
Per noi politici: per quelli che sono con voi oggi e hanno dichiarato la propria solidarietà e soprattutto per chi ancora indugia a riconoscere la specificità della scuola.
Ma mi permetto di dire che si tratta di una lezione anche per voi, per i lavoratori del comparto scuola.
Il nostro Giuseppe Grasso, all’indomani della nascita del Comitato scriveva: “Migliaia di lavoratori della conoscenza – auspice la blindatissima riforma delle pensioni targata Fornero – si sono trovati di nuovo uniti, in questi ultimi mesi, e hanno riscoperto la passione di impegnarsi oltre alla volontà di passare alla controffensiva.”
Ecco: è la “riscoperta” di cui parla Giuseppe che voglio sottolineare brevemente per invocare anch’io la necessità di un impegno personale di ciascuno di NOI per rivendicare i propri diritti ma soprattutto per “difendere” la scuola pubblica e i suoi lavoratori.
Lo dico dopo avere contrastato per tre interminabili anni il progetto di destrutturazione messo in piedi dal ministro Gelmini e non aver potuto constatare tra i lavoratori del comparto, soprattutto tra quello di ruolo, la consapevolezza che quel piano, anche passando attraverso il discredito di insegnanti e ATA (attuato con il taglio agli organici, il blocco degli stipendi e della progressione di carriera), avrebbe minato la struttura che più di ogni altra garantisce la democrazia nel nostro Paese e traduce materialmente il dettato dell’articolo 3 della Costituzione: la scuola.
Ora che avete compiuto questa riscoperta, vi prego di non abbandonare l’impegno ritrovato perché non siano calpestati i vostri diritti e quelli dei vostri ragazzi.
Venite davanti a Montecitorio, incalzate la politica, organizzate presidi davanti alle scuole, scrivete articoli: noi saremo con voi in ogni azione per non abbassate la guardia!
E’ un’esortazione a mantenere vivo l’impegno e l’entusiasmo di oggi, soprattutto se la soluzione della vicenda richiederà tempo.
Probabilmente un aiuto arriverà per via giudiziaria, ce lo auguriamo tutti, ma il PD continuerà a lavorare per una soluzione di carattere politico.
Insisto su questo punto, a scanso di equivoci: è la politica, se vuole assolvere alla sua missione e tornare ad essere capace di rispondere alle istanze dei cittadini, che deve ristabilire equità e diritto.
L’ho scritto più volte e voglio ribadirlo in questa piazza: così come è stato per il Milleproroghe, nel primo provvedimento utile attinente alla materia previdenziale ripresenteremo l’emendamento già bocciato al Senato per disporre la possibilità per il personale della scuola di andare in pensione con il previgente regime maturando i requisiti entro il 31 agosto 2012.
Ecco perché è importante che il Governo accolga la richiesta di riaprire la vicenda degli esodati e dei mobilitati: perché sarà la prima occasione in cui il Parlamento ridiscuterà la materia previdenziale dopo la finestra aperta dal decreto Milleproroghe e in quella sede potremo presentare un emendamento sul comparto scuola.
È del tutto evidente che la vostra situazione è bene diversa da quella degli esodati; ma dobbiamo cogliere l’occasione che potrebbe derivare da un eventuale decreto per gli esodati.
Come ho avuto modo di dire al viceministro Martone, l’odg del PD accolto dal Governo in gennaio vincola l’Esecutivo ad un impegno ben preciso, quello di dare attuazione al contenuto del nostro emendamento e non abbiamo alcuna intenzione di farci mettere i piedi in testa! Gli impegni assunti vanno onorati, soprattutto se si è Tecnici alla guida del Paese.
Eravamo convinti della bontà e dell’equità del nostro emendamento quando lo presentammo la prima volta e lo siamo ancor più oggi, a fronte di due elementi emersi più recentemente.
Il primo è che, in modo abbastanza schizofrenico, la circolare applicativa della riforma Fornero al comparto scuola da una parte impedisce di andare in pensione a chi, come voi, avrebbe maturato i requisiti (come è sempre stato) entro l’anno scolastico in corso e, dall’altra, si affretta a mandare in quiescenza coloro i quali invece vorrebbero restare ancora qualche anno ma hanno raggiunto i limiti d’età e di monte contributivo.
Il secondo elemento, ed è di questi giorni, sta nel fatto che al ministero sono state inoltrate 27.700 domande, circa 5 mila in meno rispetto a quelle che il MIUR attendeva. Si tratta di un evidente risparmio per lo Stato e allora perché non concedere il pensionamento a chi, come voi, avrebbe maturato i requisiti entro il 31 agosto 2012 e che somma ad un contingente di circa 4000 persone? In questo modo, peraltro, si lascerebbero disponibili posti in organico per il personale più giovane, mosso da una forte motivazione e da una carica innovativa nei confronti della propria professione.
Ecco perché non dobbiamo abbandonare la nostra iniziativa: perché è una iniziativa giusta (e, meglio tardi che mai, più forze politiche se ne sono rese conto) e perché non stiamo rivendicando un privilegio ma un diritto!»