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Lungo la via Emilia finisce il mito del “piccolo è bello”, di Paolo Baroni

Le bandiere rosse della Fiom e quelle bianco-verdi della Fim issate su tutta la recinzione si notano subito lungo la provinciale che porta a Sassuolo. Davanti alla Terim di Baggiovara ogni giorno gli operai presidiano gli ingressi allo stabilimento, perché la fabbrica è ferma e vogliono evitare che stampi, brevetti e macchinari vengano portati via. «Siamo qui tutti i giorni, facciamo i turni. In pratica è come se lavorassimo, ma nessun ci paga per questo. Lo facciamo per difendere i nostri posti» raccontano gli operari.

Dal 17 febbraio, dopo 43 mesi di crisi e sei differenti «e inutili» piani industriali, le banche hanno chiuso i rubinetti e la Terim (uno dei principali produttori europei di forni da incasso e cucine per conto di Bosch, Whirlpool ed Electrolux, 400 occupati tra Modena e Rubiera, ed un centinaio di milioni di euro di fatturato) ha fermato la produzione. La proprietà ora punta al concordato preventivo, mentre all’orizzonte si profila un nuovo socio. Intanto, da dieci giorni, i 200 di Baggiovara hanno ottenuto la cassa in deroga per due mesi, mentre i 200 Rubiera sono in cigs per un altro anno. Nell’attesa, a piccoli gruppi, si alternano davanti ai cancelli. Preoccupati, ma non certo disillusi. «Siamo pronti a tutto pur di salvare questa azienda, anche noi siamo creditori. Però chiediamo un piano industriale credibile, continuità produttiva e la tutela di tutti i posti di lavoro», scandisce Francesco Santoro, uno dei tre delegati della Rsu.

Quella della Terim è solo l’ultima delle crisi esplose nel cuore dell’Emilia industriale. A Modena, dove la disoccupazione reale viaggia verso il 9%, i dati «sono pesantissimi» racconta Vanni Ficcarelli della Cgil provinciale. «Sono 160 le imprese che consideriamo a rischio, con almeno 1500 posti in bilico». Ad essere colpiti sono tutti i settori tradizionali della manifattura regionale: meccanica, chimica, ceramica e cartotecnica.

A Reggio la crisi ha già bruciato 7-8000 posti di lavoro. Ha azzoppato decine di piccole e medie imprese, ha colpito duro sulla meccanica, che qui rappresenta il 50% dell’industria, ed ha ucciso l’edilizia. I primi ad essere colpiti sono stati i piccoli artigiani, che lavoravano a partita Iva e che da tempo «sono tornati a casa loro», ovvero al Sud; ma adesso stanno soffrendo anche alcuni giganti delle coop «rosse», come Orion e Coop Muratori Reggiolo.

La «nuova» crisi di Reggio, che è anche la crisi di Modena e Bologna, ovvero di quell’Emilia un tempo patria del «piccolo è bello», è iniziata a metà 2011. «Se la prima metà dell’anno scorso aveva fatto ben sperare, da sei mesi a questa parte registriamo un brusco rallentamento, che prosegue. Il portafoglio ordini delle imprese è sempre più corto e non si riesce ad avere una visibilità della domanda nel medio-lungo periodo» racconta Gaetano Maccaferri che guida la Confindustria regionale. «C’è un rimbalzo forte – conferma dalla Camera del lavoro di Reggio Emilia, Guido Mora -. Prosegue l’impiego della cassa ordinaria e anche gli altri ammortizzatori non calano. Anzi, quest’anno ci sarà certamente un aumento». A gennaio le aziende reggiane che utilizzavano cig e contratti di solidarietà sono salite da 248 a 265, con oltre 11.500 lavoratori interessati: nell’industria c’è stato un vero e proprio boom di cassa straordinaria (360.807 ore contro le 271 mila del gennaio 2011).

Tre anni di crisi hanno portato al raddoppio della disoccupazione, passata dal 3% dei bei tempi al 6%. «E’ alle corde tutta la piccola e media impresa che esporta in Europa, in Francia e Germania in particolare. C’è un grosso rallentamento», racconta il sindaco Graziano Del Rio. Che da presidente dell’Associazione dei comuni in questi giorni ha rilanciato la battaglia contro il patto di stabilità interno («una vera follia senza pari in Europa») che lega le mani ai comuni ed impedisce loro di pagare i fornitori, strozzando ancora di più l’economia. «Solo a Reggio abbiamo 70 milioni di liquidità in cassa ma al massimo ne possiamo usare 21 – racconta -. E si può immaginare cosa sarebbe poter immettere 40-50 milioni di euro nell’economia della città in questa fase tanto difficile».

A Bologna, città chein Italia conta il maggior numero di imprese per abitanti, non va meglio. Qui soffrono soprattuttoil settore moda (ultimi casi «La Perla», 400 dipendenti in bilico, e Bruno Magli, dove rischiano in 350), la meccanica, e tutto il distretto dei motori, la mitica «motorvalley», che ha già visto la Malaguti (180 occupati) cessare l’attività, la Verlicchi (telai) fallire e venire salvata in extremis con metà degli occupati e la Minarelli (gruppo Yamaha) mandare in solidarietà i suoi 400. «Su 300 imprese toccate dalla crisi 130 hanno già chiuso bruciando 5mila posti. Quelle che restano si giocano tutto nei prossimi mesi: e sono altri 6 mila posti in pericolo», racconta Maurizio Lunghi della Camera del lavoro felsinea. Il quale teme che presto le 74 mila domande di immediata disponibilità al lavoro depositate ai centri per l’impiego della Provincia possano diventare anche 100 mila.

Negli ottanta chilometri che collegano Reggio a Bologna, a cominciare dalle tante aree artigianali nate negli anni del boom ai lati della via Emilia, i cartelli «affittasi» negli ultimi tempi sono spuntati come funghi su capannoni e piccole fabbriche. Molte imprese sono sparite nel nulla, altre – si teme – faranno la stessa fine nei prossimi mesi. «È vero che a fine 2011 la cassa integrazione è scesa rispetto al 2010, ma siamo ancora sopra ai livelli del 2009, primo anno di crisi. Il problema è che ora sta esplodendo la mobilità e questo significa che molte realtà sono alla frutta», denuncia Antonio Mattioli della segreteria regionale della Cgil. A livello regionale a fine 2011 ben 3.575 avevano ottenuto la cassa ordinaria, 3.337 la cigs, altre 483 erano invece passate alla mobilità. E per quest’anno sono già più di 400 quelle che hanno fatto domanda di ammortizzatori in deroga.

«Il futuro? Certo, non mancheranno ancora riorganizzazioni, chiusure e sofferenze nel mercato del lavoro – spiega Maccaferri –. Ma per attutire il colpo le imprese hanno cercato di utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali possibili e il “Patto contro la crisi” sottoscritto con Regione e forze sociali ha contribuito a contenere gli effetti negativi». Quanto alle prospettive, mentre settori come packaging e macchine utensili continuano ad andar bene, il presidente di Confindustria vuole essere ottimista. «Cerchiamo di cogliere i segni di miglioramento dai mercati globali, in particolare Stati Uniti, India e Brasile. Questi segnali arginano, ma non compensano, le spinte recessive che provengono dall’Europa e dal mercato interno – ammette, però -. E’ per questo che occorre uno sforzo straordinario per la crescita».

La Stampa 10.03.12

"Il vizio ad personam della prescrizione", di Attilo Bolzoni

Frequentare la mafia non è reato. Se poi la giustizia è lenta, non è neanche un problema. Ne sa qualcosa Marcello Dell´Utri, senatore della Repubblica, bibliofilo, inventore di Forza Italia e in intimità con i «meglio» boss di Palermo. Devono rifare il suo processo. Significa che non ci sarà mai una vera sentenza.
Significa che di riffa o di raffa, lui si salverà per prescrizione. Finisce così una delle più incredibili vicende del nostro Paese – giudiziarie ma non solo giudiziarie – dell´ultimo quarto di secolo, la storia di un siciliano doc che si è trascinato le sue conoscenze palermitane nella Milano dove cominciava la grande scalata al potere un signore di nome Silvio Berlusconi. Finisce come era cominciata tanto tempo fa: nella normalità italiana.
L´imputato non doveva mai diventare un imputato.
Cosa ha fatto di così grave per scivolare negli ingranaggi delle investigazioni antimafia? Aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola ma che importa, mica c´è la prova di un suo «contributo» all´associazione criminale denominata Cosa Nostra? Stare una vita al fianco di Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore, trafficante di stupefacenti, uomo d´onore della famiglia di Porta Nuova, non è illecito. Invitare il sicario Gaetano Grado o il capo della decina di Santa Maria del Gesù Mimmo Teresi su in Lombardia, non è un delitto.
Vincoli innocenti. Mangiate. Bevute. Flirt.
È per questo che devono iniziare un´altra volta il processo al senatore, che in una vita ha navigato nel brodo bollente siciliano e che nell´altra vita ha trasferito il suo «patrimonio» di rapporti e di amicizie lassù, quando era al servizio di re Silvio.
Concorso esterno. Non c´è. «Non ci crede più nessuno, spetta a voi il compito di smentirmi», incalza il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello in una requisitoria che a qualcuno è sembrata un´arringa difensiva. Perché «non si fanno così i processi», ha aggiunto il pg.
Allora diciamo che bisogna ricominciare tutto daccapo. Anche per ricostruire la vita e le gesta di Marcello Dell´Utri, ex anonimo impiegato di una cassa rurale di Belmonte Mezzagno nato nel 1941 e poi trasformatosi nel più misterioso personaggio di collegamento fra la Sicilia e la Milano degli affari, costruzioni e politica, soldi e laboratorio ideologico, voti e intrighi.
E «tradizione». Quella c´è tutta nella biografia di Marcello. Complicità non occasionali ma lunghe venticinque anni. Da Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino» a Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. Da una generazione all´altra di mafia, dall´aristocrazia dei boss di Palermo alla follia di Totò Riina e dei suoi Corleonesi terroristi. È rimasto sempre incollato a loro, Marcello Dell´Utri. Non è reato. Però è andata così.
Anche se non conta più niente per gli eccellentissimi giudici della Suprema Corte della Cassazione.
È tutto annacquato ormai. Un esempio: un´agenzia di ieri sera, ore 19.54. Testuale: «Vittorio Mangano considerato vicino alla mafia…». Non si sa più quello che si dice e quello che si scrive anche sulle più autorevoli agenzie di stampa. Vittorio Mangano non era uno «considerato vicino alla mafia»: era un mafioso. Se partiamo da questa – come dire, piccola imprecisione – possiamo scrivere un´altra storia di Marcello Dell´Utri. Ma a noi piace raccontare quella vera.
Quella della Palermo mafiosa dove Marcello Dell´Utri era infilato, magari non protagonista ma sicuramente consapevole, sempre in contatto con gli amici degli amici dei Bontate, dei Calderone, dei Cancemi, dei Cinà. Non abbiamo mai avuto prove delle rivelazioni bislacche, sospette e a puntate di Massimo Ciancimino sul ruolo di Dell´Utri e della sua trattativa fra Stato e mafia, ma nessuno ha mai avuto dubbi – nemmeno il procuratore generale della Cassazione – sulla vicinanza fra il senatore e quella gente là.
Un concorso esterno che non esiste più e un processo lungo 11 anni hanno fatto il resto.
Il passato di contiguità mafiosa di Marcello Dell´Utri (che nessun giudice e nessuna Corte potrà mai cancellare con una sentenza di rinvio o con sofisticate acrobazie giuridiche) è lì e lì resterà per sempre. Che poi non ci sarà condanna, è altro discorso.
Anche se non valgono niente le dichiarazioni di una ventina di pentiti di Cosa Nostra. Anche se è ormai carta straccia quello che ha dichiarato nemmeno tre anni fa il killer Gaspare Spatuzza sul «paesano» Dell´Utri e il suo amico Berlusconi sulle stragi in Continente organizzate dai Graviano di Brancaccio.
Tutto destinato all´archivio. Tutto inghiottito dalla scienza del diritto. Per i potenti, in Italia, funziona sempre così. Per tutti gli altri no.

La Repubblica 10.03.12

“Il vizio ad personam della prescrizione”, di Attilo Bolzoni

Frequentare la mafia non è reato. Se poi la giustizia è lenta, non è neanche un problema. Ne sa qualcosa Marcello Dell´Utri, senatore della Repubblica, bibliofilo, inventore di Forza Italia e in intimità con i «meglio» boss di Palermo. Devono rifare il suo processo. Significa che non ci sarà mai una vera sentenza.
Significa che di riffa o di raffa, lui si salverà per prescrizione. Finisce così una delle più incredibili vicende del nostro Paese – giudiziarie ma non solo giudiziarie – dell´ultimo quarto di secolo, la storia di un siciliano doc che si è trascinato le sue conoscenze palermitane nella Milano dove cominciava la grande scalata al potere un signore di nome Silvio Berlusconi. Finisce come era cominciata tanto tempo fa: nella normalità italiana.
L´imputato non doveva mai diventare un imputato.
Cosa ha fatto di così grave per scivolare negli ingranaggi delle investigazioni antimafia? Aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola ma che importa, mica c´è la prova di un suo «contributo» all´associazione criminale denominata Cosa Nostra? Stare una vita al fianco di Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore, trafficante di stupefacenti, uomo d´onore della famiglia di Porta Nuova, non è illecito. Invitare il sicario Gaetano Grado o il capo della decina di Santa Maria del Gesù Mimmo Teresi su in Lombardia, non è un delitto.
Vincoli innocenti. Mangiate. Bevute. Flirt.
È per questo che devono iniziare un´altra volta il processo al senatore, che in una vita ha navigato nel brodo bollente siciliano e che nell´altra vita ha trasferito il suo «patrimonio» di rapporti e di amicizie lassù, quando era al servizio di re Silvio.
Concorso esterno. Non c´è. «Non ci crede più nessuno, spetta a voi il compito di smentirmi», incalza il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello in una requisitoria che a qualcuno è sembrata un´arringa difensiva. Perché «non si fanno così i processi», ha aggiunto il pg.
Allora diciamo che bisogna ricominciare tutto daccapo. Anche per ricostruire la vita e le gesta di Marcello Dell´Utri, ex anonimo impiegato di una cassa rurale di Belmonte Mezzagno nato nel 1941 e poi trasformatosi nel più misterioso personaggio di collegamento fra la Sicilia e la Milano degli affari, costruzioni e politica, soldi e laboratorio ideologico, voti e intrighi.
E «tradizione». Quella c´è tutta nella biografia di Marcello. Complicità non occasionali ma lunghe venticinque anni. Da Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino» a Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. Da una generazione all´altra di mafia, dall´aristocrazia dei boss di Palermo alla follia di Totò Riina e dei suoi Corleonesi terroristi. È rimasto sempre incollato a loro, Marcello Dell´Utri. Non è reato. Però è andata così.
Anche se non conta più niente per gli eccellentissimi giudici della Suprema Corte della Cassazione.
È tutto annacquato ormai. Un esempio: un´agenzia di ieri sera, ore 19.54. Testuale: «Vittorio Mangano considerato vicino alla mafia…». Non si sa più quello che si dice e quello che si scrive anche sulle più autorevoli agenzie di stampa. Vittorio Mangano non era uno «considerato vicino alla mafia»: era un mafioso. Se partiamo da questa – come dire, piccola imprecisione – possiamo scrivere un´altra storia di Marcello Dell´Utri. Ma a noi piace raccontare quella vera.
Quella della Palermo mafiosa dove Marcello Dell´Utri era infilato, magari non protagonista ma sicuramente consapevole, sempre in contatto con gli amici degli amici dei Bontate, dei Calderone, dei Cancemi, dei Cinà. Non abbiamo mai avuto prove delle rivelazioni bislacche, sospette e a puntate di Massimo Ciancimino sul ruolo di Dell´Utri e della sua trattativa fra Stato e mafia, ma nessuno ha mai avuto dubbi – nemmeno il procuratore generale della Cassazione – sulla vicinanza fra il senatore e quella gente là.
Un concorso esterno che non esiste più e un processo lungo 11 anni hanno fatto il resto.
Il passato di contiguità mafiosa di Marcello Dell´Utri (che nessun giudice e nessuna Corte potrà mai cancellare con una sentenza di rinvio o con sofisticate acrobazie giuridiche) è lì e lì resterà per sempre. Che poi non ci sarà condanna, è altro discorso.
Anche se non valgono niente le dichiarazioni di una ventina di pentiti di Cosa Nostra. Anche se è ormai carta straccia quello che ha dichiarato nemmeno tre anni fa il killer Gaspare Spatuzza sul «paesano» Dell´Utri e il suo amico Berlusconi sulle stragi in Continente organizzate dai Graviano di Brancaccio.
Tutto destinato all´archivio. Tutto inghiottito dalla scienza del diritto. Per i potenti, in Italia, funziona sempre così. Per tutti gli altri no.

La Repubblica 10.03.12

"Dell'Utri, la verità giudiziaria e quella della storia", di Francesco La Licata

E adesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.

Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto – anche lui – per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri – a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice – ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.

E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.

Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose.

Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.

La Stampa 10.03.12

“Dell’Utri, la verità giudiziaria e quella della storia”, di Francesco La Licata

E adesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.

Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto – anche lui – per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri – a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice – ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.

E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.

Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose.

Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.

La Stampa 10.03.12

"Quando i professori non sanno comunicare", di Giovanni Valentini

Avevamo apprezzato tutti, agli esordi del governo guidato da Mario Monti, il rigore e la compostezza del Professore. Il cambio di passo e di stile, rispetto all´happening quotidiano a cui ci aveva sottoposto il suo predecessore, con un bombardamento continuo di polemiche, insulti, smentite e controsmentite. E proprio in questa rubrica, a metà gennaio l´avevamo definito “il buongoverno dei castigamatti”, auspicando tuttavia che il presidente del Consiglio e i suoi ministri “tecnici” non cedessero alla cattiva abitudine di colpevolizzare la libera stampa per le eventuali critiche né alla suggestione mediatica dei talk-show televisivi.
Ma ora, a quattro mesi dall´insediamento del nuovo governo, sono diventati troppi gli incidenti di percorso a cui Repubblica Tv ha dedicato ieri un efficace servizio di Laura Pertici. Dalla prima “gaffe” del ministro Clini a favore del nucleare a quella del ministro Fornero sull´articolo 18; dalla sortita del ministro Cancellieri sul posto fisso a quella del vice-ministro Martone sugli studenti universitari “sfigati”, fino all´ultimo caso del ministro Riccardi che confida fuori onda alla collega Severino: “Sono schifato dalla politica”.
Non vogliamo discutere qui sul merito di questa affermazione. La politica può piacere o non piacere, fare schifo o meno. E francamente, in questo momento non dà il meglio di sé. Ma è certo comunque che un ministro della Repubblica, legittimato dal voto e dalla fiducia del Parlamento, non può esprimersi in questi termini come fosse Beppe Grillo. Tant´è che lui stesso ha sentito opportunamente la necessità di scusarsi.
Altrimenti, si fa terra bruciata, rischiando di alimentare l´antipolitica o addirittura il qualunquismo. E quando il presidente Monti parla dello spread fra i partiti che sostengono la maggioranza, dovrebbe usare l´accortezza di distinguere tra partito e partito, in base alle rispettive responsabilità. In fondo, avendo accettato il laticlavio di senatore a vita, lui stesso ormai fa parte integrante del Parlamento e quindi della politica.
Quando i tecnici comunicano male, dunque, non giovano evidentemente al Paese. Ma la domanda ulteriore è un´altra: perché comunicano male? Ovvero, perché non sanno comunicare? Il fatto sarebbe già grave per qualsiasi professore, maestro o docente di università, che – oltre alla conoscenza della materia che insegna – dovrebbe possedere anche la capacità didattica di comunicare e trasmettere il suo sapere ai propri allievi. Ma ovviamente è tanto più grave quando i professori vanno al governo, e per ciò stesso diventano politici, perché sono chiamati a comunicare con una platea ancora più ampia, con i cittadini più o meno istruiti, con tutta la società, con la gente comune.
Nel caso del governo in carica, non c´è però solo un orientamento pedagogico che in questa situazione sarebbe più che lecito e naturale. C´è anche l´atteggiamento punitivo dei “castigamatti”, appunto. E al fondo, si coglie perfino un vago disprezzo per l´intero ceto politico che – oggettivamente – fa di tutto per meritarselo.
Il metodo maieutico dell´esecutivo tecnico non corrisponde insomma alla ricerca del maggior consenso possibile, attraverso il confronto, la persuasione e – diciamo pure – la mediazione. Non si vuole tanto convincere, quanto imporre le scelte. Una tecnocrazia italo-europea che a volte rischia di sfiorare l´autoritarismo, magari in modo inconsapevole, tranne quando si tratta delle banche o delle liberalizzazioni, quelle vere; della Rai o delle frequenze televisive.
Prendiamo come paradigma il caso della Tav in Val di Susa. Non basta dire che si deve fare perché si deve fare. O perché i governi italiani hanno già assunto tutti gli impegni, perché la Francia ha costruito i suoi tunnel, perché bla-bla-bla. Bisogna coltivare, da parte del governo, la volontà, la capacità e la pazienza di spiegare, di chiarire, di motivare.
È pur vero che il dialogo c´è stato e s´è già discusso ampiamente. Che alcune delle richieste sono state recepite, tant´è che il progetto originario è stato modificato con costi supplementari per il tratto della ferrovia “in trincea”, cioè interrata. Ma si può pensare davvero di realizzare un´opera del genere attraverso la militarizzazione permanente del territorio? E quanto costerebbe presidiare i cantieri con le forze dell´ordine, 24 ore su 24, per i prossimi dieci o quindici anni?
Forse il governo dei professori non farebbe male a nominare uno “speaker”, un portavoce ufficiale, un responsabile delle Relazioni esterne, al quale affidare il compito di comunicare con i giornalisti e quindi con l´opinione pubblica. Ma comunque per tutti loro sarebbe opportuna una minore esposizione sul piano mediatico, una maggiore discrezione e riservatezza. La riconoscenza per il terribile impegno che Monti e i suoi ministri si sono assunti, a vantaggio del Paese e quindi di tutti noi, non impedisce di esprimere qualche cauta e rispettosa riserva nei confronti di certi comportamenti.
Piaccia o non piaccia ai tecnici del governo, anche loro al momento sono rappresentanti del popolo: nel senso letterale che rappresentano gli interessi legittimi, le aspettative e le speranze dei cittadini. Non si può stare al governo come si sta nel consiglio di amministrazione di un´azienda o nel “board” di una multinazionale. Più che un esercizio di potere, la politica – compresa quella “pro tempore” – è o dovrebbe essere innanzitutto un servizio alla collettività.

La Repubblica 10.03.12

“Quando i professori non sanno comunicare”, di Giovanni Valentini

Avevamo apprezzato tutti, agli esordi del governo guidato da Mario Monti, il rigore e la compostezza del Professore. Il cambio di passo e di stile, rispetto all´happening quotidiano a cui ci aveva sottoposto il suo predecessore, con un bombardamento continuo di polemiche, insulti, smentite e controsmentite. E proprio in questa rubrica, a metà gennaio l´avevamo definito “il buongoverno dei castigamatti”, auspicando tuttavia che il presidente del Consiglio e i suoi ministri “tecnici” non cedessero alla cattiva abitudine di colpevolizzare la libera stampa per le eventuali critiche né alla suggestione mediatica dei talk-show televisivi.
Ma ora, a quattro mesi dall´insediamento del nuovo governo, sono diventati troppi gli incidenti di percorso a cui Repubblica Tv ha dedicato ieri un efficace servizio di Laura Pertici. Dalla prima “gaffe” del ministro Clini a favore del nucleare a quella del ministro Fornero sull´articolo 18; dalla sortita del ministro Cancellieri sul posto fisso a quella del vice-ministro Martone sugli studenti universitari “sfigati”, fino all´ultimo caso del ministro Riccardi che confida fuori onda alla collega Severino: “Sono schifato dalla politica”.
Non vogliamo discutere qui sul merito di questa affermazione. La politica può piacere o non piacere, fare schifo o meno. E francamente, in questo momento non dà il meglio di sé. Ma è certo comunque che un ministro della Repubblica, legittimato dal voto e dalla fiducia del Parlamento, non può esprimersi in questi termini come fosse Beppe Grillo. Tant´è che lui stesso ha sentito opportunamente la necessità di scusarsi.
Altrimenti, si fa terra bruciata, rischiando di alimentare l´antipolitica o addirittura il qualunquismo. E quando il presidente Monti parla dello spread fra i partiti che sostengono la maggioranza, dovrebbe usare l´accortezza di distinguere tra partito e partito, in base alle rispettive responsabilità. In fondo, avendo accettato il laticlavio di senatore a vita, lui stesso ormai fa parte integrante del Parlamento e quindi della politica.
Quando i tecnici comunicano male, dunque, non giovano evidentemente al Paese. Ma la domanda ulteriore è un´altra: perché comunicano male? Ovvero, perché non sanno comunicare? Il fatto sarebbe già grave per qualsiasi professore, maestro o docente di università, che – oltre alla conoscenza della materia che insegna – dovrebbe possedere anche la capacità didattica di comunicare e trasmettere il suo sapere ai propri allievi. Ma ovviamente è tanto più grave quando i professori vanno al governo, e per ciò stesso diventano politici, perché sono chiamati a comunicare con una platea ancora più ampia, con i cittadini più o meno istruiti, con tutta la società, con la gente comune.
Nel caso del governo in carica, non c´è però solo un orientamento pedagogico che in questa situazione sarebbe più che lecito e naturale. C´è anche l´atteggiamento punitivo dei “castigamatti”, appunto. E al fondo, si coglie perfino un vago disprezzo per l´intero ceto politico che – oggettivamente – fa di tutto per meritarselo.
Il metodo maieutico dell´esecutivo tecnico non corrisponde insomma alla ricerca del maggior consenso possibile, attraverso il confronto, la persuasione e – diciamo pure – la mediazione. Non si vuole tanto convincere, quanto imporre le scelte. Una tecnocrazia italo-europea che a volte rischia di sfiorare l´autoritarismo, magari in modo inconsapevole, tranne quando si tratta delle banche o delle liberalizzazioni, quelle vere; della Rai o delle frequenze televisive.
Prendiamo come paradigma il caso della Tav in Val di Susa. Non basta dire che si deve fare perché si deve fare. O perché i governi italiani hanno già assunto tutti gli impegni, perché la Francia ha costruito i suoi tunnel, perché bla-bla-bla. Bisogna coltivare, da parte del governo, la volontà, la capacità e la pazienza di spiegare, di chiarire, di motivare.
È pur vero che il dialogo c´è stato e s´è già discusso ampiamente. Che alcune delle richieste sono state recepite, tant´è che il progetto originario è stato modificato con costi supplementari per il tratto della ferrovia “in trincea”, cioè interrata. Ma si può pensare davvero di realizzare un´opera del genere attraverso la militarizzazione permanente del territorio? E quanto costerebbe presidiare i cantieri con le forze dell´ordine, 24 ore su 24, per i prossimi dieci o quindici anni?
Forse il governo dei professori non farebbe male a nominare uno “speaker”, un portavoce ufficiale, un responsabile delle Relazioni esterne, al quale affidare il compito di comunicare con i giornalisti e quindi con l´opinione pubblica. Ma comunque per tutti loro sarebbe opportuna una minore esposizione sul piano mediatico, una maggiore discrezione e riservatezza. La riconoscenza per il terribile impegno che Monti e i suoi ministri si sono assunti, a vantaggio del Paese e quindi di tutti noi, non impedisce di esprimere qualche cauta e rispettosa riserva nei confronti di certi comportamenti.
Piaccia o non piaccia ai tecnici del governo, anche loro al momento sono rappresentanti del popolo: nel senso letterale che rappresentano gli interessi legittimi, le aspettative e le speranze dei cittadini. Non si può stare al governo come si sta nel consiglio di amministrazione di un´azienda o nel “board” di una multinazionale. Più che un esercizio di potere, la politica – compresa quella “pro tempore” – è o dovrebbe essere innanzitutto un servizio alla collettività.

La Repubblica 10.03.12