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“Quando le donne non fanno notizia”, di Giovanni Valentini

Nella centrifuga della comunicazione di massa, le donne in genere fanno notizia quando sono vittime di abusi o violenze oppure quando sono protagoniste di situazioni o vicende a sfondo sessuale. Non fanno notizia, invece, nella dimensione più quotidiana, familiare, domestica. Né tantomeno quando subiscono discriminazioni o ingiustizie sul lavoro. Ma non fanno notizia, almeno nel nostro circuito televisivo e in particolare nel nostro servizio pubblico, soprattutto nel senso che – tranne qualche rara eccezione – normalmente non dirigono, non governano, non controllano il flusso quotidiano dell´informazione.
Per documentare e denunciare questa disparità, l´Usigrai – il sindacato interno dei giornalisti Rai – presenterà giovedì 8 marzo, nella sede della Federazione della Stampa a Roma, il primo sondaggio sulla condizione dei suoi iscritti realizzato nella storia aziendale, insieme a un monitoraggio sulla visibilità delle donne e degli uomini in 15 telegiornali europei di Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Il confronto fra le due ricerche consentirà così di mettere in rapporto l´immagine femminile con il ruolo del servizio pubblico, in vista dell´ormai prossimo ricambio al vertice dell´azienda. E auguriamoci fin d´ora che se ne tenga conto nelle nomine del Consiglio di amministrazione e poi in quelle successive.
A fare notizia nei tg europei, dunque, sono soprattutto gli uomini. Le donne costituiscono meno di un terzo delle persone intervistate o di cui comunque si parla: nel nostro caso, il 24% contro una media del 29%. E compaiono ancor meno nell´informazione politica (appena l´11% in Italia e in Inghilterra). Ma, a parte questi e gli altri numeri che verranno forniti pubblicamente dalla Commissione Pari Opportunità dell´Usigrai, è indicativa soprattutto la “qualità” delle presenze: in quasi tutte le testate giornalistiche delle tv europee, le donne rappresentano ruoli “comuni” e gli uomini invece quelli più “autorevoli”.
L´unico dato favorevole alle giornaliste televisive, anche questo a suo modo discriminatorio, è che sono loro nel 54% dei casi a condurre i tg, mentre l´Italia si colloca al di sopra della media (58%). Ma, in rapporto agli incarichi e alle responsabilità di direzione, sembra francamente più una scelta d´immagine che di merito.
Prendiamo il caso della Rai. Su un totale di 1.656 giornalisti (al 31 dicembre 2010), gli uomini risultano 1.097 e le donne 559, cioè poco più di un terzo. Ma fra i dirigenti la presenza femminile scende drasticamente, appena 67 donne pari al 4%, con due soli direttori: Bianca Berlinguer (Tg 3) e Barbara Scaramucci (Rai Teche). E mentre l´organico giornalistico tende complessivamente a invecchiare, tant´è che più dell´80% è compreso fra 40 e 65 anni, risulta particolarmente alta la percentuale di quelli che non hanno figli (43%).
Un altro dato sensibile, emerso dal sondaggio interno, riguarda gli episodi di “discriminazione”: tra chi risponde “sì”, “spesso” e “qualche volta”, si arriva al 61% del campione. Ma, in questo caso, solo una piccola percentuale (3%) si sente discriminato a causa del proprio orientamento sessuale.
Sotto la guida – francamente deludente – della prima donna assurta alla direzione generale della Rai, quella che viene ancora considerata “la più grande azienda culturale del Paese” resta ferma quindi a un´organizzazione e a una gerarchia fondamentalmente maschilista. Non si tratta qui di compiacere le colleghe del servizio pubblico né di coltivare un neofemminismo di maniera. “Le donne – avverte l´autrice del saggio citato all´inizio di questa rubrica – competono fra loro quanto gli uomini, a maggior ragione in ambienti in cui la competitività è un valore”. E nel giornalismo, scritto o televisivo, lo è senz´altro.
Al di là della retorica e delle stesse “quote rosa”, si tratta piuttosto di rinnovare la cultura aziendale proprio a cominciare dalla presenza femminile nell´informazione: cioè dalla sensibilità, dai bisogni, dagli interessi e dalle aspettative delle donne nella società in cui viviamo. E tutto ciò, beninteso, al servizio delle telespettatrici e dei telespettatori che legittimamente pretendono dalla tv pubblica “di tutto, di più”.
Mentre La7 assegna l´approfondimento serale quotidiano a un´ex “firma” della Rai come Lilli Gruber, recupera Daria Bignardi e Serena Dandini, lancia un´interprete della satira garbata e intelligente come Geppi Cucciari; mentre Sky affida la direzione del suo Tg 24 a Sarah Varetto, la conduzione di prima serata a Federica De Santis, le corrispondenze più impegnative dall´estero a Liliana Faccioli Pintozzi da New York e a Giovanna Pancheri da Bruxelles; il “carrozzone” di viale Mazzini rimane impantanato nelle secche di un palinsesto ripetitivo e obsoleto, propinandoci perfino sui nuovi canali digitali vecchie serie e miniserie tv.
No, la Rai non è la Bbc, come cantava una volta Renzo Arbore. Ma, di questo passo, certamente non lo diventerà mai.

La Repubblica 03.03.12

"L'analisi oltre il lamento, le banche diano una mano al Paese" di Rinaldo Gianola

Non c’è dubbio che Mario Monti abbia registrato un formidabile
balzo di popolarità l’altro ieri, quando il Senato ha votato il
decreto liberalizzazioni colpendo duramente le banche con l’azzeramento delle commissioni sugli affidamenti e gli sconfinamenti. Un colpo così forte e inatteso che i vertici
dell’Abi hanno annunciato le dimissioni contro la decisione
giudicata «inaccettabile». Forse il governo e il Parlamento
rimedieranno nei prossimi giorni a questo «errore» e le banche
potranno tornare a imporre le loro commissioni sulle linee di
credito. Tuttavia questa vicenda suscita qualche considerazione
sull’azione del governo e sul ruolo e il grado di popolarità
delle banche nel Paese.
Per Monti, sospettato da alcuni di guidare «il governo delle
banche e dei poteri forti», il voto del Senato contro le commissioni
bancarie è stato un regalo fantastico, una medaglia da
appendersi al petto che vale più di mille spot. E se il ministro
dello Sviluppo economico Corrado Passera, già amministratore delegato di Intesa SanPaolo, esprime comprensione per il disagio dei
suoi ex colleghi, il presidente del Consiglio si gode un quarto d’ora aggiuntivo di gloria allontanando l’accusa di alcuni di essere
«debole con i forti e forte con i deboli».
Che si tratti di incidente o di errore quello sulle commissioni
bancarie è un caso che, viste le reazioni dei vertici dell’Abi e
dell’opinione pubblica, dovrebbe far riflettere i responsabili del
sistema bancario. Le banche e i banchieri dovrebbero pensare ai
motivi che spingono tanti cittadini, associazioni, sindacati,
interessi diversi a contestare la loro azione e a gioire quando il
Parlamento colpisce il portafoglio degli istituti di credito. Colpire la banca è uno sport assai popolare, come la caccia alla casta. Ci sarà qualche ragione? Forse c’entrano
certe retribuzioni, certe liquidazioni milionarie? Oppure
il senso di ingiustizia che a volte i clienti delle banche vivono allo sportello? O ancora l’ansia delle tante imprese che cercano credito e non sempre lo trovano? L’Avvenire, il quotidiano della
Cei, chiede alle banche di occuparsi più delle famiglie. Il
cardinale Giuseppe Betori dice che «la crisi riguarda tutti e le
banche non possono tirarsi indietro». Il segretario della Cisl
Raffaele Bonanni invoca una legge che fissi «la funzione
sociale» degli istituti di credito. I consumatori plaudono al voto del Senato, Susanna Camusso invita le banche a usare la stessa
determinazione nella difesa dei propri interessi anche «nel
sostegno di famiglie e imprese».
Il sistema creditizio è chiamato a svolgere un ruolo decisivo per
la ripresa dell’economia, ma anche in questa occasione del voto sulle liberalizzazioni c’è la sensazione di un distacco delle
banche dai bisogni del Paese. C’è subito il ricorso alla minaccia di
scaricare sui clienti i costi delle commissioni azzerate, di gravare
ulteriormente i tassi di interesse, di immaginare ristrutturazioni e
tagli occupazionali. Sono reazioni comprensibili ma eccessive che si aggiungono all’azione, almeno discutibile, condotta dalle banche in questi anni di crisi finanziaria e di recessione economica. Non si tratta di usare gli argomenti e i toni della più retriva propaganda anti-bancaria, ma di fare i conti con le richieste e a volte il dramma delle imprese, con i bisogni delle famiglie, con i
richiami espliciti della Banca d’Italia. Il Governatore Ignazio
Visco, un paio di settimane fa a Parma, ha denunciato il crollo
record dei prestiti in dicembre e ha invitato le banche a evitare
l’asfissia del credito. In dicembre i finanziamenti alle imprese sono crollati di 20 miliardi di euro e un’altra sensibile contrazione sarebbe stata registrata anche in gennaio.
A fronte di questo fenomeno il sistema bancario italiano ha
rastrellato miliardi di euro grazie alle operazioni di
rifinanziamento a lungo termine effettuate dalla Bce. Ci sono state
due maxi operazioni: la prima in dicembre, la seconda questa
settimana. Nei giorni scorsi la Bce di Mario Draghi ha concesso 530
miliardi alle banche europee e gli istituti italiani hanno fatto la
parte del leone raccogliendo 139 miliardi di euro rimborsabili in
tre anni, al tasso dell’uno per cento, assai conveniente come
tutti possono comprendere. I due maggiori gruppi creditizi nazionali Intesa San Paolo e Unicredit hanno riempito le casse. Intesa San Paolo ha raccolto 36 miliardi di euro (12 in dicembre, 24 questasettimana), Unicredit 23,5 miliardi (rispettivamente 13,5 e
10).
C’è da sperare che queste nuove munizioni possano essere presto impiegate non solo per comprare i titoli del debito pubblico, ma soprattutto per sostenere l’economia reale, l’industria, il commercio, le famiglie che certo non possono sognare di accendere un mutuo o un prestito all’uno per cento.

L’Unita, 3 Marzo 2012

“L’analisi oltre il lamento, le banche diano una mano al Paese” di Rinaldo Gianola

Non c’è dubbio che Mario Monti abbia registrato un formidabile
balzo di popolarità l’altro ieri, quando il Senato ha votato il
decreto liberalizzazioni colpendo duramente le banche con l’azzeramento delle commissioni sugli affidamenti e gli sconfinamenti. Un colpo così forte e inatteso che i vertici
dell’Abi hanno annunciato le dimissioni contro la decisione
giudicata «inaccettabile». Forse il governo e il Parlamento
rimedieranno nei prossimi giorni a questo «errore» e le banche
potranno tornare a imporre le loro commissioni sulle linee di
credito. Tuttavia questa vicenda suscita qualche considerazione
sull’azione del governo e sul ruolo e il grado di popolarità
delle banche nel Paese.
Per Monti, sospettato da alcuni di guidare «il governo delle
banche e dei poteri forti», il voto del Senato contro le commissioni
bancarie è stato un regalo fantastico, una medaglia da
appendersi al petto che vale più di mille spot. E se il ministro
dello Sviluppo economico Corrado Passera, già amministratore delegato di Intesa SanPaolo, esprime comprensione per il disagio dei
suoi ex colleghi, il presidente del Consiglio si gode un quarto d’ora aggiuntivo di gloria allontanando l’accusa di alcuni di essere
«debole con i forti e forte con i deboli».
Che si tratti di incidente o di errore quello sulle commissioni
bancarie è un caso che, viste le reazioni dei vertici dell’Abi e
dell’opinione pubblica, dovrebbe far riflettere i responsabili del
sistema bancario. Le banche e i banchieri dovrebbero pensare ai
motivi che spingono tanti cittadini, associazioni, sindacati,
interessi diversi a contestare la loro azione e a gioire quando il
Parlamento colpisce il portafoglio degli istituti di credito. Colpire la banca è uno sport assai popolare, come la caccia alla casta. Ci sarà qualche ragione? Forse c’entrano
certe retribuzioni, certe liquidazioni milionarie? Oppure
il senso di ingiustizia che a volte i clienti delle banche vivono allo sportello? O ancora l’ansia delle tante imprese che cercano credito e non sempre lo trovano? L’Avvenire, il quotidiano della
Cei, chiede alle banche di occuparsi più delle famiglie. Il
cardinale Giuseppe Betori dice che «la crisi riguarda tutti e le
banche non possono tirarsi indietro». Il segretario della Cisl
Raffaele Bonanni invoca una legge che fissi «la funzione
sociale» degli istituti di credito. I consumatori plaudono al voto del Senato, Susanna Camusso invita le banche a usare la stessa
determinazione nella difesa dei propri interessi anche «nel
sostegno di famiglie e imprese».
Il sistema creditizio è chiamato a svolgere un ruolo decisivo per
la ripresa dell’economia, ma anche in questa occasione del voto sulle liberalizzazioni c’è la sensazione di un distacco delle
banche dai bisogni del Paese. C’è subito il ricorso alla minaccia di
scaricare sui clienti i costi delle commissioni azzerate, di gravare
ulteriormente i tassi di interesse, di immaginare ristrutturazioni e
tagli occupazionali. Sono reazioni comprensibili ma eccessive che si aggiungono all’azione, almeno discutibile, condotta dalle banche in questi anni di crisi finanziaria e di recessione economica. Non si tratta di usare gli argomenti e i toni della più retriva propaganda anti-bancaria, ma di fare i conti con le richieste e a volte il dramma delle imprese, con i bisogni delle famiglie, con i
richiami espliciti della Banca d’Italia. Il Governatore Ignazio
Visco, un paio di settimane fa a Parma, ha denunciato il crollo
record dei prestiti in dicembre e ha invitato le banche a evitare
l’asfissia del credito. In dicembre i finanziamenti alle imprese sono crollati di 20 miliardi di euro e un’altra sensibile contrazione sarebbe stata registrata anche in gennaio.
A fronte di questo fenomeno il sistema bancario italiano ha
rastrellato miliardi di euro grazie alle operazioni di
rifinanziamento a lungo termine effettuate dalla Bce. Ci sono state
due maxi operazioni: la prima in dicembre, la seconda questa
settimana. Nei giorni scorsi la Bce di Mario Draghi ha concesso 530
miliardi alle banche europee e gli istituti italiani hanno fatto la
parte del leone raccogliendo 139 miliardi di euro rimborsabili in
tre anni, al tasso dell’uno per cento, assai conveniente come
tutti possono comprendere. I due maggiori gruppi creditizi nazionali Intesa San Paolo e Unicredit hanno riempito le casse. Intesa San Paolo ha raccolto 36 miliardi di euro (12 in dicembre, 24 questasettimana), Unicredit 23,5 miliardi (rispettivamente 13,5 e
10).
C’è da sperare che queste nuove munizioni possano essere presto impiegate non solo per comprare i titoli del debito pubblico, ma soprattutto per sostenere l’economia reale, l’industria, il commercio, le famiglie che certo non possono sognare di accendere un mutuo o un prestito all’uno per cento.

L’Unita, 3 Marzo 2012

"La rinascita della politica" di Nadia Urbinati

La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza. Il governo Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l´impotenza della deliberazione collettiva di decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli stati democratici, la politica è stata messa all´angolo. Il fatto poi che l´Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall´angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un´intervista rilasciata in questi giorni a Repubblica, Gustavo Zagrebelsky ha con chiarezza richiamato l´attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l´urgenza di “riportare in onore la politica,” affinché le forze politiche non siano più ridotte “al mugugno o al mugolio” ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l´oggi soltanto, e senza prostrazione a un´idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neo-liberalismo. Nato insieme allo stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo preso diverse conformazioni a seconda del tipo di stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell´emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno e mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese. Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta in questa domanda: “Come rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica?”.
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Le interconnesioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L´Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l´esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: “È possibile un´unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela?”. Il problema è serissimo poiché vediamo che gli stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l´Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un´unione tra diseguali non è un´unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire a trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome da “Occupy Wall Street”. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita nessuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c´è un´intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vanno oltre i singoli stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza di che la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza di che ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un´indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall´esperienza di questi mesi di governo di emergenza. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l´Europa del Secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l´assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita.

La Repubblica, 3 Marzo 2012

“La rinascita della politica” di Nadia Urbinati

La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza. Il governo Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l´impotenza della deliberazione collettiva di decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli stati democratici, la politica è stata messa all´angolo. Il fatto poi che l´Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall´angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un´intervista rilasciata in questi giorni a Repubblica, Gustavo Zagrebelsky ha con chiarezza richiamato l´attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l´urgenza di “riportare in onore la politica,” affinché le forze politiche non siano più ridotte “al mugugno o al mugolio” ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l´oggi soltanto, e senza prostrazione a un´idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neo-liberalismo. Nato insieme allo stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo preso diverse conformazioni a seconda del tipo di stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell´emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno e mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese. Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta in questa domanda: “Come rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica?”.
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Le interconnesioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L´Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l´esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: “È possibile un´unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela?”. Il problema è serissimo poiché vediamo che gli stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l´Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un´unione tra diseguali non è un´unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire a trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome da “Occupy Wall Street”. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita nessuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c´è un´intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vanno oltre i singoli stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza di che la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza di che ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un´indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall´esperienza di questi mesi di governo di emergenza. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l´Europa del Secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l´assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita.

La Repubblica, 3 Marzo 2012

"Delitto d'onore ai tempi di Facebook" di Antonio Gangemi

Fine Anni Sessanta. Piana di Gioia Tauro. Gino avrebbe piazzato sul tavolo delle scommesse la sua vita tanto era sicuro della compostezza e serietà della moglie. Invece era cornuto. Quando anime caritatevoli si premurarono di svelarglielo, gli crollò il mondo addosso. E da allora visse nel disonore, perché, pur sapendo, non riparava. Gli rimase la sola difesa di far finta di non capire se qualcuno alludeva, ridacchiava disprezzo. Carlo portava invece le corna con disinvoltura, non badandoci, tenendosi superiore.

Forse era talmente aperto di mente che riusciva a precedere di molti passi i tempi. Forse, semplicemente, non sapeva. Anche con Carlo ci fu chi non tollerò che lui tollerasse e lo informò, mutandogli in vergogna la finta ignoranza dietro cui si riparava. E fu delitto d’onore, le vite dei due amanti spezzate, e pagate al prezzo da saldo di due anni di galera per ciascuna. Il cornuto fu poi rispettato e riverito per il resto dei suoi lunghi giorni, vissuti con soddisfazione. Due storie con epiloghi diversi. Due storie di un’altra epoca, che la civiltà pareva avesse spazzato via per sempre. Due storie che pensavamo irripetibili, trascinate al mare dall’acqua tumultuosa delle fiumare dopo giorni di pioggia. Invece sono tornate, mentre progredisce spedito il terzo millennio.

Fabrizio è scomparso – dicono lupara bianca, il corpo non s’è trovato, ma gli arresti ci sono stati, per omicidio e occultamento di cadavere – e quando ho chiesto a un giovanotto, faccia brutta e butterata che si industriava a rendere più cattiva di quanto non fosse, per farci la sua bella figura di duro, «si tratta d’onore» mi ha risposto burbero, giustificando, approvando anzi. Per poi girarsi di culo e piantarmi lì, senza nemmeno un cenno di saluto. Lo ho catalogato uno del vivaio della ‘ndrangheta, a cui presto o tardi essa attingerà per farlo debuttare in prima squadra, un’arma in mano e via ad azzannare la pace. Mi sussurrano che Fabrizio aveva conosciuto la ragazza attraverso la chat di Facebook, che tra loro era scoccata la scintilla, che lui forse non sapeva che lei fosse sposa e madre. Ecco allora che entra in campo l’onore. E si prende la scena.

Ecco allora che per onore si consuma il delitto. Induce a una tristezza infinita constatare l’atrocità scaturita dall’impatto tra la modernità dei rapporti che sa costruire un social network – i due giovani lì scoprono affinità – e la brutalità sanguinaria di padre e fratello che avrebbero inteso punire il peccato per conto terzi, da bestie feroci come sanno essere solo gli uomini, gli unici che s’accaniscono contro la stessa specie. A pensarci bene, se Fabrizio è davvero morto, è stato un delitto d’onore. Però di un onore tolto, agli assassini per causa del loro stesso gesto, a questa terra, a tutti noi che qui continuiamo a vivere, se, per lavare una situazione che altrove risolve il perdono, o lo sdegno, o la civile separazione, si è arrivati a uccidere.

Un sussurro dell’ultima ora, dopo che ieri sera a centinaia hanno sfilato per Fabrizio: pare che la ragazza abbia deciso di collaborare con la Giustizia e che sia già sotto protezione. Almeno questo… È fresca di giornata un’altra storia inquietante, che a sua volta sa d’onore, anch’essa nel senso che ne toglie un po’, che fa vergognare. Si celebra il processo per le lunghe violenze a cui fu sottoposta, dai tredici anni in su, Anna Maria Scarfò, di San Martino di Taurianova, ora ventiseienne. Da ragazzina, subì il branco. Da adulta, dopo che trovò il coraggio di denunciare e ci furono gli arresti, subisce il linciaggio morale, le ingiurie, le offese, le minacce, la scomunica. Insomma, si è ritrovata lei, la vittima, giudicata e condannata, per la colpa d’essere stata violentata quando viveva l’innocenza dei tredici anni, per la colpa di aver contravvenuto all’omertà.

In entrambe le vicende dov’è l’onore di cui tanto ci si riempie la bocca da queste parti? Gli ‘ndranghetisti specialmente, gente cioè che uccide con la stessa tranquillità con cui beve una birra, che vessa con ogni forma di prepotenza, che porta morte con il traffico di droga, di armi, di scorie radioattive. Beh, non lo vogliamo, questo tipo d’onore. E non vogliamo loro, gli ‘ndranghetisti, che ci marchiano di disonore piuttosto.

La Stampa, 3 Marzo 2012

“Delitto d’onore ai tempi di Facebook” di Antonio Gangemi

Fine Anni Sessanta. Piana di Gioia Tauro. Gino avrebbe piazzato sul tavolo delle scommesse la sua vita tanto era sicuro della compostezza e serietà della moglie. Invece era cornuto. Quando anime caritatevoli si premurarono di svelarglielo, gli crollò il mondo addosso. E da allora visse nel disonore, perché, pur sapendo, non riparava. Gli rimase la sola difesa di far finta di non capire se qualcuno alludeva, ridacchiava disprezzo. Carlo portava invece le corna con disinvoltura, non badandoci, tenendosi superiore.

Forse era talmente aperto di mente che riusciva a precedere di molti passi i tempi. Forse, semplicemente, non sapeva. Anche con Carlo ci fu chi non tollerò che lui tollerasse e lo informò, mutandogli in vergogna la finta ignoranza dietro cui si riparava. E fu delitto d’onore, le vite dei due amanti spezzate, e pagate al prezzo da saldo di due anni di galera per ciascuna. Il cornuto fu poi rispettato e riverito per il resto dei suoi lunghi giorni, vissuti con soddisfazione. Due storie con epiloghi diversi. Due storie di un’altra epoca, che la civiltà pareva avesse spazzato via per sempre. Due storie che pensavamo irripetibili, trascinate al mare dall’acqua tumultuosa delle fiumare dopo giorni di pioggia. Invece sono tornate, mentre progredisce spedito il terzo millennio.

Fabrizio è scomparso – dicono lupara bianca, il corpo non s’è trovato, ma gli arresti ci sono stati, per omicidio e occultamento di cadavere – e quando ho chiesto a un giovanotto, faccia brutta e butterata che si industriava a rendere più cattiva di quanto non fosse, per farci la sua bella figura di duro, «si tratta d’onore» mi ha risposto burbero, giustificando, approvando anzi. Per poi girarsi di culo e piantarmi lì, senza nemmeno un cenno di saluto. Lo ho catalogato uno del vivaio della ‘ndrangheta, a cui presto o tardi essa attingerà per farlo debuttare in prima squadra, un’arma in mano e via ad azzannare la pace. Mi sussurrano che Fabrizio aveva conosciuto la ragazza attraverso la chat di Facebook, che tra loro era scoccata la scintilla, che lui forse non sapeva che lei fosse sposa e madre. Ecco allora che entra in campo l’onore. E si prende la scena.

Ecco allora che per onore si consuma il delitto. Induce a una tristezza infinita constatare l’atrocità scaturita dall’impatto tra la modernità dei rapporti che sa costruire un social network – i due giovani lì scoprono affinità – e la brutalità sanguinaria di padre e fratello che avrebbero inteso punire il peccato per conto terzi, da bestie feroci come sanno essere solo gli uomini, gli unici che s’accaniscono contro la stessa specie. A pensarci bene, se Fabrizio è davvero morto, è stato un delitto d’onore. Però di un onore tolto, agli assassini per causa del loro stesso gesto, a questa terra, a tutti noi che qui continuiamo a vivere, se, per lavare una situazione che altrove risolve il perdono, o lo sdegno, o la civile separazione, si è arrivati a uccidere.

Un sussurro dell’ultima ora, dopo che ieri sera a centinaia hanno sfilato per Fabrizio: pare che la ragazza abbia deciso di collaborare con la Giustizia e che sia già sotto protezione. Almeno questo… È fresca di giornata un’altra storia inquietante, che a sua volta sa d’onore, anch’essa nel senso che ne toglie un po’, che fa vergognare. Si celebra il processo per le lunghe violenze a cui fu sottoposta, dai tredici anni in su, Anna Maria Scarfò, di San Martino di Taurianova, ora ventiseienne. Da ragazzina, subì il branco. Da adulta, dopo che trovò il coraggio di denunciare e ci furono gli arresti, subisce il linciaggio morale, le ingiurie, le offese, le minacce, la scomunica. Insomma, si è ritrovata lei, la vittima, giudicata e condannata, per la colpa d’essere stata violentata quando viveva l’innocenza dei tredici anni, per la colpa di aver contravvenuto all’omertà.

In entrambe le vicende dov’è l’onore di cui tanto ci si riempie la bocca da queste parti? Gli ‘ndranghetisti specialmente, gente cioè che uccide con la stessa tranquillità con cui beve una birra, che vessa con ogni forma di prepotenza, che porta morte con il traffico di droga, di armi, di scorie radioattive. Beh, non lo vogliamo, questo tipo d’onore. E non vogliamo loro, gli ‘ndranghetisti, che ci marchiano di disonore piuttosto.

La Stampa, 3 Marzo 2012