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“Delitto d’onore ai tempi di Facebook” di Antonio Gangemi

Fine Anni Sessanta. Piana di Gioia Tauro. Gino avrebbe piazzato sul tavolo delle scommesse la sua vita tanto era sicuro della compostezza e serietà della moglie. Invece era cornuto. Quando anime caritatevoli si premurarono di svelarglielo, gli crollò il mondo addosso. E da allora visse nel disonore, perché, pur sapendo, non riparava. Gli rimase la sola difesa di far finta di non capire se qualcuno alludeva, ridacchiava disprezzo. Carlo portava invece le corna con disinvoltura, non badandoci, tenendosi superiore.

Forse era talmente aperto di mente che riusciva a precedere di molti passi i tempi. Forse, semplicemente, non sapeva. Anche con Carlo ci fu chi non tollerò che lui tollerasse e lo informò, mutandogli in vergogna la finta ignoranza dietro cui si riparava. E fu delitto d’onore, le vite dei due amanti spezzate, e pagate al prezzo da saldo di due anni di galera per ciascuna. Il cornuto fu poi rispettato e riverito per il resto dei suoi lunghi giorni, vissuti con soddisfazione. Due storie con epiloghi diversi. Due storie di un’altra epoca, che la civiltà pareva avesse spazzato via per sempre. Due storie che pensavamo irripetibili, trascinate al mare dall’acqua tumultuosa delle fiumare dopo giorni di pioggia. Invece sono tornate, mentre progredisce spedito il terzo millennio.

Fabrizio è scomparso – dicono lupara bianca, il corpo non s’è trovato, ma gli arresti ci sono stati, per omicidio e occultamento di cadavere – e quando ho chiesto a un giovanotto, faccia brutta e butterata che si industriava a rendere più cattiva di quanto non fosse, per farci la sua bella figura di duro, «si tratta d’onore» mi ha risposto burbero, giustificando, approvando anzi. Per poi girarsi di culo e piantarmi lì, senza nemmeno un cenno di saluto. Lo ho catalogato uno del vivaio della ‘ndrangheta, a cui presto o tardi essa attingerà per farlo debuttare in prima squadra, un’arma in mano e via ad azzannare la pace. Mi sussurrano che Fabrizio aveva conosciuto la ragazza attraverso la chat di Facebook, che tra loro era scoccata la scintilla, che lui forse non sapeva che lei fosse sposa e madre. Ecco allora che entra in campo l’onore. E si prende la scena.

Ecco allora che per onore si consuma il delitto. Induce a una tristezza infinita constatare l’atrocità scaturita dall’impatto tra la modernità dei rapporti che sa costruire un social network – i due giovani lì scoprono affinità – e la brutalità sanguinaria di padre e fratello che avrebbero inteso punire il peccato per conto terzi, da bestie feroci come sanno essere solo gli uomini, gli unici che s’accaniscono contro la stessa specie. A pensarci bene, se Fabrizio è davvero morto, è stato un delitto d’onore. Però di un onore tolto, agli assassini per causa del loro stesso gesto, a questa terra, a tutti noi che qui continuiamo a vivere, se, per lavare una situazione che altrove risolve il perdono, o lo sdegno, o la civile separazione, si è arrivati a uccidere.

Un sussurro dell’ultima ora, dopo che ieri sera a centinaia hanno sfilato per Fabrizio: pare che la ragazza abbia deciso di collaborare con la Giustizia e che sia già sotto protezione. Almeno questo… È fresca di giornata un’altra storia inquietante, che a sua volta sa d’onore, anch’essa nel senso che ne toglie un po’, che fa vergognare. Si celebra il processo per le lunghe violenze a cui fu sottoposta, dai tredici anni in su, Anna Maria Scarfò, di San Martino di Taurianova, ora ventiseienne. Da ragazzina, subì il branco. Da adulta, dopo che trovò il coraggio di denunciare e ci furono gli arresti, subisce il linciaggio morale, le ingiurie, le offese, le minacce, la scomunica. Insomma, si è ritrovata lei, la vittima, giudicata e condannata, per la colpa d’essere stata violentata quando viveva l’innocenza dei tredici anni, per la colpa di aver contravvenuto all’omertà.

In entrambe le vicende dov’è l’onore di cui tanto ci si riempie la bocca da queste parti? Gli ‘ndranghetisti specialmente, gente cioè che uccide con la stessa tranquillità con cui beve una birra, che vessa con ogni forma di prepotenza, che porta morte con il traffico di droga, di armi, di scorie radioattive. Beh, non lo vogliamo, questo tipo d’onore. E non vogliamo loro, gli ‘ndranghetisti, che ci marchiano di disonore piuttosto.

La Stampa, 3 Marzo 2012