attualità, cultura

“Quando le donne non fanno notizia”, di Giovanni Valentini

Nella centrifuga della comunicazione di massa, le donne in genere fanno notizia quando sono vittime di abusi o violenze oppure quando sono protagoniste di situazioni o vicende a sfondo sessuale. Non fanno notizia, invece, nella dimensione più quotidiana, familiare, domestica. Né tantomeno quando subiscono discriminazioni o ingiustizie sul lavoro. Ma non fanno notizia, almeno nel nostro circuito televisivo e in particolare nel nostro servizio pubblico, soprattutto nel senso che – tranne qualche rara eccezione – normalmente non dirigono, non governano, non controllano il flusso quotidiano dell´informazione.
Per documentare e denunciare questa disparità, l´Usigrai – il sindacato interno dei giornalisti Rai – presenterà giovedì 8 marzo, nella sede della Federazione della Stampa a Roma, il primo sondaggio sulla condizione dei suoi iscritti realizzato nella storia aziendale, insieme a un monitoraggio sulla visibilità delle donne e degli uomini in 15 telegiornali europei di Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Il confronto fra le due ricerche consentirà così di mettere in rapporto l´immagine femminile con il ruolo del servizio pubblico, in vista dell´ormai prossimo ricambio al vertice dell´azienda. E auguriamoci fin d´ora che se ne tenga conto nelle nomine del Consiglio di amministrazione e poi in quelle successive.
A fare notizia nei tg europei, dunque, sono soprattutto gli uomini. Le donne costituiscono meno di un terzo delle persone intervistate o di cui comunque si parla: nel nostro caso, il 24% contro una media del 29%. E compaiono ancor meno nell´informazione politica (appena l´11% in Italia e in Inghilterra). Ma, a parte questi e gli altri numeri che verranno forniti pubblicamente dalla Commissione Pari Opportunità dell´Usigrai, è indicativa soprattutto la “qualità” delle presenze: in quasi tutte le testate giornalistiche delle tv europee, le donne rappresentano ruoli “comuni” e gli uomini invece quelli più “autorevoli”.
L´unico dato favorevole alle giornaliste televisive, anche questo a suo modo discriminatorio, è che sono loro nel 54% dei casi a condurre i tg, mentre l´Italia si colloca al di sopra della media (58%). Ma, in rapporto agli incarichi e alle responsabilità di direzione, sembra francamente più una scelta d´immagine che di merito.
Prendiamo il caso della Rai. Su un totale di 1.656 giornalisti (al 31 dicembre 2010), gli uomini risultano 1.097 e le donne 559, cioè poco più di un terzo. Ma fra i dirigenti la presenza femminile scende drasticamente, appena 67 donne pari al 4%, con due soli direttori: Bianca Berlinguer (Tg 3) e Barbara Scaramucci (Rai Teche). E mentre l´organico giornalistico tende complessivamente a invecchiare, tant´è che più dell´80% è compreso fra 40 e 65 anni, risulta particolarmente alta la percentuale di quelli che non hanno figli (43%).
Un altro dato sensibile, emerso dal sondaggio interno, riguarda gli episodi di “discriminazione”: tra chi risponde “sì”, “spesso” e “qualche volta”, si arriva al 61% del campione. Ma, in questo caso, solo una piccola percentuale (3%) si sente discriminato a causa del proprio orientamento sessuale.
Sotto la guida – francamente deludente – della prima donna assurta alla direzione generale della Rai, quella che viene ancora considerata “la più grande azienda culturale del Paese” resta ferma quindi a un´organizzazione e a una gerarchia fondamentalmente maschilista. Non si tratta qui di compiacere le colleghe del servizio pubblico né di coltivare un neofemminismo di maniera. “Le donne – avverte l´autrice del saggio citato all´inizio di questa rubrica – competono fra loro quanto gli uomini, a maggior ragione in ambienti in cui la competitività è un valore”. E nel giornalismo, scritto o televisivo, lo è senz´altro.
Al di là della retorica e delle stesse “quote rosa”, si tratta piuttosto di rinnovare la cultura aziendale proprio a cominciare dalla presenza femminile nell´informazione: cioè dalla sensibilità, dai bisogni, dagli interessi e dalle aspettative delle donne nella società in cui viviamo. E tutto ciò, beninteso, al servizio delle telespettatrici e dei telespettatori che legittimamente pretendono dalla tv pubblica “di tutto, di più”.
Mentre La7 assegna l´approfondimento serale quotidiano a un´ex “firma” della Rai come Lilli Gruber, recupera Daria Bignardi e Serena Dandini, lancia un´interprete della satira garbata e intelligente come Geppi Cucciari; mentre Sky affida la direzione del suo Tg 24 a Sarah Varetto, la conduzione di prima serata a Federica De Santis, le corrispondenze più impegnative dall´estero a Liliana Faccioli Pintozzi da New York e a Giovanna Pancheri da Bruxelles; il “carrozzone” di viale Mazzini rimane impantanato nelle secche di un palinsesto ripetitivo e obsoleto, propinandoci perfino sui nuovi canali digitali vecchie serie e miniserie tv.
No, la Rai non è la Bbc, come cantava una volta Renzo Arbore. Ma, di questo passo, certamente non lo diventerà mai.

La Repubblica 03.03.12