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Università, Pd: da Governo soluzioni solo parziali per assunzioni vincitori e idonei

Oggi, in commissione Cultura alla Camera, il deputato democratico Eugenio Mazzarella ha interrogato il Governo sulla ‘necessità di provvedere a risolvere la questione dei vincitori di concorso a ricercatore e degli idonei in procedure di valutazione di I e II fascia impossibilitati ad essere inquadrati in servizio o ad essere chiamati presso gli atenei che nelle more tra l’indizione dei concorsi e delle procedure si siano trovati a sfiorare il limite del 90% del Ffo per le spese del personale. Non soddisfa però la risposta del Governo che ha previsto soluzioni solo parziali in prospettiva ad una situazione che lede legittime aspettative maturare dagli aventi titolo, come l’esponente del Pd ha ribadito in sede di replica al governo, sollecitando una complessiva e solutiva riconsiderazione del problema”.

Roma, 15 febbraio 2012, Ufficio stampa gruppo Pd Camera

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Resoconto della VII Commissione permanente
(Cultura, scienza e istruzione)
VII Commissione
SOMMARIO
Mercoledì 15 febbraio 2012

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA:

Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata su questioni riguardanti il finanziamento delle università …

5-06156 Ghizzoni ed altri: Sull’assunzione in servizio dei vincitori di alcune procedure concorsuali.

Eugenio MAZZARELLA (PD) illustra l’interrogazione 5-06156 presentata da GHIZZONI, MAZZARELLA, TOCCI, LOLLI, NICOLAIS e ZACCARIA. –
Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
– Per sapere – premesso che:
a fronte dell’anzianità del personale docente e dei ricercatori universitari, nonché di quello tecnico-amministrativo, è facile ipotizzare che i futuri massicci pensionamenti, in assenza di un adeguato turn over, avranno effetti negativi sull’offerta didattica e sulla attività di ricerca, oltre a procurare detrimento alla ordinaria prassi amministrativa;
in molti atenei, nonostante siano stati banditi appositi concorsi, non si procede con l’assunzione in servizio dei vincitori, per il combinato disposto del comma 4 dell’articolo 51 della legge n. 447 del 1997 – secondo il quale «Le spese fisse e obbligatorie per il personale di ruolo delle università statali non possono eccedere il 90 per cento dei trasferimenti statali sul fondo per il finanziamento ordinario» – e del comma 1 dell’articolo 1 dalla legge n. 1 del 2009 che ha disposto che le università in cui il predetto rapporto superi il 90 per cento non possano né bandire concorsi né procedere ad alcuna assunzione di personale di ruolo;
se molti atenei superano la soglia del 90 per cento è anche a causa della costante e repentina diminuzione delle risorse assegnate dallo Stato al Fondo di finanziamento ordinario;
se il superamento della soglia del 90 per cento nel rapporto tra spese di personale e risorse del fondo di finanziamento ordinario impedisce l’assunzione dei vincitori, è tuttavia da ricordare che il suddetto limite non era stato oltrepassato nel momento in cui le università hanno avviato le procedure concorsuali e pertanto, la disposizione della citata legge n. 447 del 1997, novellata dall’articolo 1, comma 1, del citato decreto-legge n. 180 del 2008, non dovrebbe ritenersi applicabile;
così pure, in analogia, dovrebbe essere sottratta alla applicazione della citata previsione di legge la chiamata di idonei di prima e seconda fascia presso gli atenei che abbiano bandito procedure di valutazione compartiva per assunzione in ruolo di associati e ordinari che si siano concluse;
la mozione approvata dal Consiglio universitario nazionale nell’adunanza del 21 aprile 2011 chiede al Ministro «di autorizzare le università a concludere con l’assunzione, le procedure concorsuali bandite nei casi in cui il rapporto tra spese fisse e il fondo di finanziamento ordinario avesse rispettato i limiti di legge al momento dell’emanazione del bando. Peraltro, tali assunzioni vanno a configurarsi come provvedimento finale (atto dovuto, ai sensi della legge n. 241 del 1990 e successive modificazioni e integrazioni) del procedimento di assunzione avviato con l’emanazione del bando». Nella stessa mozione, il Consiglio universitario nazionale ha molto opportunamente ricordato che «l’entità del fondo di finanziamento ordinario annuale per ciascuna università è stato soggetto a notevoli variazioni ed incertezze, a causa sia della diminuzione dello stanziamento complessivo di bilancio sia delle modifiche delle regole di ripartizione, tanto che la determinazione definitiva del fondo 2010 è stata comunicata alle università solo negli ultimi giorni dell’anno 2010». In quella sede si è inoltre considerato che «anche a causa delle modifiche legislative intervenute nel frattempo, molti concorsi a posti di professore o di ricercatore, banditi sin dal 2008, si sono conclusi solo alla fine del 2010 o si stanno tuttora concludendo; sussiste molta incertezza sui tempi e sulle modalità di applicazione del divieto di assunzione nel caso di superamento del tetto previsto per il rapporto tra spese fisse e fondo di finanziamento ordinario; tale tetto può essere ora superato in modo del tutto indipendente dalle scelte delle università, o per diminuzione del fondo di finanziamento ordinario o per nuove procedure di calcolo, situazioni comunque imprevedibili quando il concorso era stato bandito»;
il blocco delle assunzioni di personale universitario prolungherà il periodo di precariato per i vincitori di concorso a ricercatore e produrrà il rischio di decadenza dell’idoneità per gli idonei nelle procedure di valutazione comparativa di I e II fascia, oltre a procurare comunque un grave danno per la didattica e la ricerca dell’intero sistema -:
quali iniziative, anche normative, intenda assumere per dare soluzione alla situazione ricordata in premessa, così da consentire la chiamata in servizio degli aventi titolo (vincitori o idonei) presso gli atenei che abbiano bandito concorsi di ricercatore o procedure di valutazione di I e II fascia, ancorché nelle more tra il bando e la conclusione della procedura detti atenei abbiano superato, anche a causa della costante diminuzione delle risorse trasferite dallo Stato al Fondo di finanziamento ordinario, il limite del 90 per cento previsto dal comma 4 dell’articolo 51 della legge n. 447 del 1997.
(5-06156)

Il sottosegretario Marco ROSSI DORIA, rispondendo all’onorevole interrogante, osserva che la legislazione vigente – l’articolo 1 del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, convertito dalla legge 9 gennaio 2009, n. 1 – prevede un espresso divieto di assunzione, oltre che di indizione di nuove procedure concorsuali, per le università che hanno superato i limiti di spesa previsti dalla disposizione di cui all’articolo 51, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449. Ricorda, inoltre, che il divieto trova applicazione se tale circostanza viene riscontrata al momento in cui l’assunzione deve essere formalizzata, a prescindere dal fatto che la stessa sussistesse o meno anche al momento dell’indizione della procedura concorsuale. Rileva, dunque, che, a legislazione vigente, non è prospettabile alcun intervento che consenta le assunzioni per quelle università la cui situazione di bilancio ricada nelle suddette limitazioni. Sottolinea che la questione potrà comunque essere riconsiderata alla luce di quanto previsto nello schema di decreto legislativo recante la disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei, predisposto in attuazione della delega di cui all’articolo 5, comma 1, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, attualmente all’esame delle competenti Commissioni parlamentari.
Evidenzia che tale provvedimento – diretto, tra l’altro, a monitorare la sostenibilità economica e l’equilibrio strutturale delle politiche di bilancio degli atenei, con particolare attenzione alle politiche di programmazione e reclutamento del personale – individua un limite massimo per le spese di personale e disciplina le misure di contenimento che le università sono tenute ad adottare quando il suddetto valore – calcolato attraverso alcuni indicatori anch’essi definiti nel provvedimento – raggiunge determinate soglie di attenzione, mettendo a rischio la sostenibilità e l’equilibrio del bilancio. Ricorda che lo schema individua una determinata combinazione dei livelli di spesa di personale a carico del bilancio dell’ateneo al fine di quantificare l’utilizzo delle risorse liberate dal turn-over . Tale combinazione è definita con dettagliata gradualità, così permettendo di agire in modo differenziato su situazioni eterogenee, secondo un principio di equità che fa scattare regimi di assunzione diversificati in relazione al livello e alla combinazione degli indicatori relativi all’incidenza delle spese di personale. Precisa, infine, che nel testo attuale è prevista la possibilità di assunzioni di personale anche per gli atenei che superano i nuovi limiti, nel limite del 10 per cento della minor spesa relativa al personale cessato dal servizio nell’anno precedente.

Eugenio MAZZARELLA (PD), replicando, si dichiara parzialmente soddisfatto della risposta del sottosegretario, che, essendo limitata ad una parte dell’interrogazione, risulta essere anch’essa parziale ed incompleta. Considera, infatti, che, proprio in nome del principio di equità evocato dal sottosegretario, in virtù del quale l’adozione di regimi diversificati dipende dagli indicatori relativi all’incidenza delle spese per il personale, il Governo pro tempore debba attivarsi al fine di consolidare le situazioni giuridiche derivanti da diritti ormai acquisiti, nel caso dei ricercatori, ovvero di legittime aspettative, nel caso degli idonei che hanno superato i concorsi per professore di seconda fascia. Auspica, al riguardo, che il Governo possa sanare al più presto tali situazioni di evidente e incostituzionale disparità di trattamento tra soggetti che vantano lo stesso titolo giuridico, ma che si vedono negati diritti e aspettative legittime soltanto in virtù della diversa sede universitaria. Ritiene che sia assolutamente necessario, in definitiva, che il Governo ponga in atto urgentemente quelle misure di buona conduzione delle politiche del personale che, nella specie, richiedono di definire le attuali situazioni pendenti, prima di dare avvio alle previste nuove procedure concorsuali di assunzione di ulteriore personale docente.

Italia in recessione, Pil -07% a fine 2011

I dati Istat: calo congiunturale per il secondo trimestre consecutivo. Banca d’Italia: debito pubblico a 1.897,9 miliardi. Il prodotto interno lordo dell’Italia nel quarto trimestre 2011 è calato dello 0,7% sul trimestre precedente e dello 0,5% su base annua. Lo rileva l’Istat nella stima preliminare. Il Pil è in calo per il secondo trimestre consecutivo: si può dunque parlare di «recessione tecnica».

IL DEBITO NEL 2011 – Intanto la Banca d’Italia ha comunicato che a dicembre 2011 il debito pubblico italiano si è attestato a 1.897,9 miliardi, in aumento di 55,1 miliardi sui 1.842,9 miliardi di fine 2010 e in calo dai 1.904 miliardi del mese di novembre.

SETTORI E CONFRONTI – Il risultato congiunturale complessivo è la sintesi di dinamiche settoriali del valore aggiunto positive per l’agricoltura, negative per l’industria, sostanzialmente stazionarie per i servizi. Nello stesso periodo, tuttavia, l’Istat ricorda come il Pil sia aumentato in termini congiunturali dello 0,7% negli Stati Uniti contro un calo dello 0,2% nel Regno Unito e dello 0,6% in Giappone. In termini tendenziali, il Pil è aumentato dell’1,6% negli Stati Uniti e dello 0,8% nel Regno Unito ed è diminuito dell’1,0% in Giappone.

IL PRIMO CALO DAL 2009 -Il 2011 chiude con un Pil in aumento dello 0,4%, secondo la stima preliminare dell’Istat che precisa che il dato è corretto per gli effetti di calendario. La crescita risulta così in forte frenata, nel 2010 era stata pari all’1,4% (dato corretto effetti calendario). Il calo dello 0,5% su base annua è il primo dal 2009 .
RISCHIO NUOVA FRENATA – La crescita acquisita per il 2012, quella cioè che si verificherebbe per il puro effetto trascinamento del 2011 se in tutti e quattro i trimestri dell’anno si registrasse crescita zero è negativa, pari a -0,6%.

da corriere.it

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Istat: crollo del Pil (-0,7%). L’Italia torna in recessione

L’Istituto di statistica certifica ciò che tutti gli osservatori si aspettavano: negli ultimi tre mesi del 2011 l’economia italiana si è contratta per il secondo trimestre consecutivo ed è entrata tecnicamente in una fase recessiva. Debito pubblico in calo rispetto a novembre, ma in crescita del 3% rispetto al 2010.

Il prodotto interno lordo dell’Italia nel quarto trimestre 2011 è diminuito dello 0,7% sul trimestre precedente e dello 0,5% su base annua. Lo rileva l’Istat nella stima preliminare, precisando che il periodo in esame ha avuto tre giornate lavorative in meno rispetto al trimestre precedente e due giornate lavorative in meno rispetto al quarto trimestre 2010. L’Italia è dunque in recessione tecnica (il Pil è in calo per il secondo trimestre consecutivo dopo che nel terzo quarto dell’anno l’Istat aveva registrato un ribasso dello 0,2%). Il ritorno in recessione avviene dopo poco più di due anni: l’ultimo periodo di recessione era terminato dopo il secondo trimestre del 2009. ll ribasso dello 0,5% registrato dal Pil, su base annua, nel quarto trimestre 2011 rappresenta il primo calo tendenziale dal quarto trimestre del 2009. “Quanto registra l’Istat sull’Italia in recessione tecnica – spiega il ministro per le Politiche agricole Mario Catania – è una situazione che già conoscevamo. Siamo al punto più basso della curva ed è un dato che ci aspettavamo. Speriamo però di risalire già nel prossimo trimestre”.

I Pil dell’area euro (Ue-17) e della Ue-27 sono scesi dello 0,3% nel quarto trimestre 2011 rispetto al trimestre precedente: è quanto emerge dalla stima flash pubblicata oggi da Eurostat. Nel terzo trimestre la Ue-17 aveva registrato una crescita dello 0,1% e la Ue-27 dello 0,3%. Rispetto al quarto trimestre 2010, il Pil di Eurolandia è aumentato dello 0,7% e quello della Ue-27 dello 0,9%.

La crescita dell’Italia nel 2011 (+0,4%) ha subìto una netta battuta d’arresto a confronto con quanto totalizzato nel 2010 (+1,4%). La differenza è così pari a un punto percentuale. E’ quanto emerge dalle stime preliminari dell’Istat (dati corretti per effetti di calendario). Ma era andata ancora peggio nel 2009, quando la contrazione registrata fu pari al -5,1%. Le stime del governo avevano previsto per il 2011 una crescita dello 0,6% (dato grezzo). La crescita acquisita per il 2012, quella che si verificherebbe per il puro effetto trascinamento del 2011 se in tutti e quattro i trimestri dell’anno si registrasse crescita zero, è negativa, pari a -0,6%. Il calo congiunturale complessivo registrato dal Pil è la sintesi di dinamiche settoriali del valore aggiunto positive per l’agricoltura, negative per l’industria, sostanzialmente stazionarie per i servizi. I prossimi dati sul prodotto interno loro verranno rilasciati a marzo.

Intanto il debito pubblico italiano a dicembre 2011 è sceso dai 1.904,8 miliardi di novembre e si è attestato a quota 1.897,946 miliardi di euro, mentre è cresciuto di 55 miliardi rispetto alla fine del 2010. L’incremento è del 2,98%. Le entrate tributarie nel 2011 sono aumentate dell’1,6% e si sono attestate a quota 403,110 miliardi di euro. E’ quanto risulta dal Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia dedicato alla finanza pubblica.

da repubblica.it

«Basta caravanserragli incapaci di governare», intervista a Luciano Violante di Simone Collini

Parla il responsabile riforme del Pd: «La legge elettorale non deve produrre coalizioni forzose. Ragioniamo su un proporzionale corretto». La lezione del passato «Il sistema bipolare e maggioritario non ha funzionato. Non dobbiamo ripetere l’errore del ’94». Le prossime elezioni non decideranno soltanto chi sarà maggioranza e chi opposizione. Diranno se ha ancora legittimità un sistema democratico fondato sui partiti o se prevarrà la prospettiva di affidarci alla pura tecnica o a qualche “condottiero straniero” ». Per questo, dice Luciano Violante, quella sulla legge elettorale «non è una discussione che si fa in salotto»: «La posta in gioco è molto alta». Il responsabile del Pd per le riforme sta incontrando, con l’onorevole Bressa e il senatore Zanda, esponenti di tutte le altre forze politiche (ieri è stata la volta di Casini, oggi toccherà alla Lega) per trovare un’intesa che permetta di superare il Porcellum ma anche di disegnare un diverso assetto istituzionale. «Il sistema bipolare e maggioritario ha consentito di vincere ma non ha consentito di governare».
Per questo oggi ci si affida a un governo tecnico?
«La tecnica entra in campo se la politica non sa risolvere i problemi». Problemi economici.
«La crisi istituzionale è grave quanto quella finanziaria. La nostra democrazia fondata sui partiti politici perderebbe la sua stessa ragion d’essere se non fosse in grado di portare a compimento il compito di risolvere quella crisi».
Il rischio?
«Pensiamo a quanto accaduto nel ’94, quando non ci siamo accorti che in crisi non erano solo Dc e Psi, ma l’intero sistema politico. Abbiamo pensato che le elezioni servissero solo a stabilire il vincitore e invece sono servite a cambiare radicalmente il sistema politico. Ora siamo consapevoli dei rischi. La riforma elettorale e quella costituzionale si collocano dentro questo orizzonte. Devono guidare il cambiamento». Le è sembrato che le altre forze politiche ne siano consapevoli?
«A nessuno sfugge che stiamo parlando di una condizione che ora siamo in grado di affrontare, tra un anno rischiamo di non esserlo già più».
L’intesa è più facile sulla legge elettorale o sulle riforme istituzionali?
«C’è un rapporto stretto tra le due. La legge elettorale ha bisogno di un adeguato supporto costituzionale».
I cui cardini sarebbero?
«Riduzione del numero dei parlamentari e sfiducia costruttiva. Inoltre il presidente del Consiglio deve poter nominare e revocare i ministri e chiedere il voto a data fissa dei provvedimenti del governo. Potrà chiedere al Quirinale lo scioglimento delle Camere, anche se potrà non ottenerlo. Si sta ragionando sul superamento del bicameralismo paritario. Sono strumenti che servono per governare».
E una nuova legge elettorale come si dovrebbe inserire in questo quadro istituzionale?
«Rovesciando il ragionamento dominante fin dal ’93. L’obbligo di coalizzarsi, previsto sia dalla legge Mattarella che dalla legge Calderoli ha avuto esiti disastrosi. Si sono messi insieme non quanti avevano lo stesso programma di governo ma quanti avevano lo stesso avversario. Poi però chi ha vinto le elezioni non è stato in grado di governare. Berlusconi è caduto dopo tre anni. Noi, prima, dopo due. E oggi il Paese non può più permettersi coalizioni caravanserraglio create per vincere le elezioni ma poi incapaci di governare».
Qual è la proposta su cui è possibile l’intesa con le altre forze?
«Innanzitutto restituire agli italiani il diritto di scegliere i parlamentari. Stiamo ragionando su un sistema proporzionale con sbarramento al 4 o 5% che favorisca il bipolarismo senza imporlo. Poi saranno gli italiani a decidere, dando a una singola forza politica un consenso sufficiente per governare da sola o a stabilire se quella forza per governare debba allearsi con altri. In ogni caso decideranno i gruppi parlamentari. Questa sarebbe un’alleanza per governare, non solo per vincere le elezioni».
Si tratta però di una proposta che non salvaguarderebbe il bipolarismo.
«Il bipolarismo va letto e interpretato nella vicenda storica italiana. Il meccanismo maggioritario amico-nemico fa sì che il Parlamento diventi una protesi del governo e il luogo nel quale si esasperano i conflitti, non quello in cui i conflitti si prevengono e compongono. Il bipolarismo può essere favorito, non imposto».
Non è che il Pd sta accettando il proporzionale perché punta a un’intesa col Terzo polo?
«Noi non vogliamo intese privilegiate con nessuno. Abbiamo incontrato esponenti dell’Idv, di Sel, dei Verdi, del Pdl, del Terzo polo e incontreremo Lega, Federazione della sinistra, Socialisti. Abbiamo anche visto quanto è costato avere forze politiche rappresentative fuori dal Parlamento e per questo sarebbe possibile un diritto di tribuna per chi non supera lo sbarramento».
Parisi, intervistato dall’Unità, ha contestato il fatto che accettando il proporzionale non rispettate le decisioni assunte dall’Assemblea nazionale Pd, che aveva votato per il maggioritario con doppio turno.
«È vero. Abbiamo lasciato quel testo, come il Pdl ha lasciato il suo. Quando vai a un incontro con altri, devi decidere se lo fai per esigenze di bandiera o per costruire davvero una situazione nuova. Noi abbiamo rinunciato al secondo turno, il Pdl al premio di maggioranza. Quando si negozia non si può pretendere di imporre il proprio progetto».
Tonini, sempre su questo giornale, ha chiesto un “compromesso più equo” del correttivo disproporzionale di 142 seggi.
«Ha ragione. Va tenuto conto di questa obiezione. Comunque quella riflessione era precedente all’orientamento favorevole alla riduzione del numero dei parlamentari».
E l’obiezione che non indicando prima del voto le alleanze non ci sarebbe la chiarezza che c’è stata finora?
«La chiarezza era apparente. Si fingeva di fare un programma, che era una somma disomogenea di proposte nel loro insieme irrealizzabili. In realtà si voleva solo sconfiggere l’avversario. Con la nuova legge elettorale, se riusciremo nell’intento, si sarà giudicati non per la compagnia con cui si va ma per gli obbiettivi che ti proponi per il Paese».

L’Unità 15.02.12

Regioni, Province, Comuni, riordino a tutti i livelli per ammodernare il Paese

La chiara definizione delle funzioni delle Province come enti di secondo livello, la determinazione del campo di intervento delle Regioni, l’individuazione delle “aree vaste” con le dimensioni dei nuovi distretti, l’impegno per forti investimenti finanziari atti a garantire servizi associati, il riconoscimento in Costituzione del nuovo ente. Sono alcuni punti fermi definiti nel corso di un seminario che si è svolto nella sede nazionale del Partito democratico, dedicato alla riforma delle provincie. All’incontro hanno partecipato amministratori, parlamentari ed esponenti degli enti locali.

“Ripensare l’apparato amministrativo della Repubblica, sia a livello centrale sia locale, per abbattere quei caratteri di inefficienza e di incapacità decisionale che ne hanno minato, nel tempo, la credibilità e la funzione democratica. Questo è il compito di un partito riformista”. E’ quanto ha dichiarato al termine Davide Zoggia, Responsabile degli Enti Locali che ha presieduto l’incontro a cui ha partecipato anche il Segretario Pier Luigi Bersani.

Secondo Bersani “lo Stato deve riorganizzare il proprio apparato riducendo un sistema di sedi e organi eccessivi, ma allo stesso temo – ha aggiunto Bersani – senza concedere nulla al populismo e avendo come obiettivo la ricostruzione di un rapporto della politica con i cittadini, rinnovato e fondato sulla fiducia e la credibilità”.

Nel corso del dibattito è emersa la necessità che la riforma si inserisca in un contesto di riordino tanto a livello centrale quanto negli Enti Locali della presenza dello Stato, alleggerendone il peso e producendo risparmi. Per questo le proposte che il Pd metterà in campo, dalla riforma della Legge Elettorale alla rimodulazione dell’elezione e delle funzioni delle Province, avranno come obiettivo quello di riavvicinare la politica ai cittadini, rendendola sempre meno un corpo estraneo rispetto ai sacrifici che investono le fasce più deboli della società. Insomma ci si propone una posizione avanzata e non difensiva che possa contribuire in maniera determinata all’ammodernamento dello Stato e del sistema delle autonomie.

La riforma delle Province, in particolare, richiede oggi decisioni urgenti per evitare il caos amministrativo che può nascere nella fase di transizione dopo l’approvazione del decreto Salva Italia che disegna il nuovo profilo.

Leggi il documento del PD sulla riforma degli Enti Locali

www.partitodemocratico.it

"La coerenza di un "no" responsabile", di Luigi La Spina

Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo. Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.

Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia.

Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.

Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.

Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.

E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.

Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.

La Stampa 15.02.12

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“RESISTERE ALLE SIRENE”, di TITO BOERI
La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l´ingresso nell´unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito. Quei giochi olimpici sono costati 12 miliardi di euro, il 6 per cento del Prodotto interno lordo greco. Hanno sì riportato, dopo 108 anni, la fiamma olimpica e i cinque anelli su sfondo bianco nel loro luogo d´origine, ma poi hanno lasciato sul campo i round di negoziati con la troika per evitare un nuovo default dopo quello di 80 anni prima, il quinto della storia greca, con sullo sfondo le fiamme degli incidenti di piazza Sintagma.
Ieri il governo Monti ha voluto tenere conto di questa lezione bloccando la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Come in Grecia quindici anni fa, questa candidatura trovava supporto in studi che predicono forti incrementi del Prodotto interno lordo a seguito dei giochi e che sostengono che non ci sarà alcun deterioramento nei saldi di bilancio. Nel dossier del comitato Roma 2020, come d´incanto, gli 8,2 miliardi di spesa aggiuntiva per l´organizzazione dei giochi e l´allestimento delle infrastrutture dovrebbero essere esattamente coperti dai ricavi legati all´evento e dalle maggiori entrate associate alla crescita del Pil. Dovrebbe, in altre parole, essere un´operazione a saldo zero per le casse dello Stato e a saldo positivo per il Paese, che si ritroverebbe con circa 18 miliardi di reddito e 20.000 posti di lavoro in più. Non pochi in tempi, come questi, di vacche magre.
Peccato che i tempi di progettazione e di appalto delle opere siano da noi lunghi quanto quelli richiesti dall´esecuzione dei lavori. Sono proprio questi ritardi iniziali a fare a loro volta lievitare ulteriormente i costi. È un vero e proprio circolo vizioso quello che si mette in moto: il verificarsi di costi oltre le previsioni rallenta la costruzione e i ritardi di progettazione e costruzione fanno aumentare i costi. Peccato che stime come quelle presentate dal comitato Roma 2020 ignorino il fatto che nella congiuntura attuale ogni aumento del deficit pubblico, pur di breve durata, può far aumentare i costi su tutte le nuove emissioni di titoli di Stato perché rende meno credibile il piano di rientro del debito. Peccato che questi studi ignorino il fatto che anche che il settore privato, dopo Lehman Brothers, è molto più restio a finanziare progetti di questo tipo, come hanno imparato a loro spese i contribuenti inglesi, chiamati a pagare di tasca loro spese per i giochi olimpici e paraolimpici di questa estate, che inizialmente dovevano comportare il “Private Sector Involvement”. Questo “PSI” non c´era stato neanche in Grecia: le infrastrutture e i centri sportivi che dovevano essere venduti al settore privato sono rimaste in mano allo Stato ellenico, che oggi si trova costretto a venderli a un prezzo stracciato, nettamente inferiore a quello di costruzione. Peccato che la Relazione di accompagnamento si limiti a guardare al valore aggiunto legato alle opere in questione senza tenere conto che le stesse risorse potevano essere utilizzate in tanti altri modi alternativi, incluso ridurre le tasse e lasciare quei soldi nelle tasche dei cittadini all´inizio di una recessione.
I precedenti di grandi opere legati ad eventi sportivi in Italia sono tutt´altro che rassicuranti. La competizione c´è soprattutto nello spendere di più. I mondiali del 1990 sono costati quasi sei volte quanto inizialmente preventivato. Anche la storia dell´America´s Cup a Trapani nel 2005, dei Mondiali di sci in Valtellina nello stesso anno, delle Olimpiadi invernali a Torino del 2006 e, infine, dei Mondiali di Ciclismo a Varese nel 2008 è una storia di ritardi, di sovracosti e, in non pochi casi, di corruzione.
In un momento in cui il nostro Paese sta faticosamente cercando di ricostruire la propria credibilità, sapere resistere ai richiami delle sirene dei testimonial popolari e dei politici della capitale e alle pressioni della lobby dei costruttori è un grande segno di serietà. Verrà molto apprezzato da chi decide se comprare i nostri titoli di Stato. In quanto alla mancata crescita, anche se prendessimo per buone le stime del comitato Roma 2020, non illudiamoci che per far ripartire l´economia italiana bastino le fiammate, le spinte, i big push. Noi, come la Grecia, abbiamo un problema strutturale. Non basta trovare qualcosa, un evento, che ci dia una spinta mentre il governo tiene la marcia inserita, come quando si deve far partire un´autovettura che ha la batteria scarica.
Il nostro problema è molto più serio. Dobbiamo cambiare il motore, a partire dalla macchina dello Stato. Questa non sa spendere neanche le risorse che sono già a nostra disposizione, nella programmazione dei fondi strutturali. La grande riforma di questa legislatura doveva essere quella della pubblica amministrazione. Chi l´ha vista? Sono arrivati solo gli annunci, la propaganda, che hanno avuto l´unico risultato di ulteriormente peggiorare l´immagine (e la morale) del dipendente pubblico al cospetto degli italiani. La riforma Brunetta si è dissolta nel nulla anche perché era mal congegnata. Finiva per premiare tutte le amministrazioni, anche quelle inefficienti, e, all´interno di queste, creava comunque divisioni anziché sostenere lo sforzo di gruppo per ottenere risultati migliori. Bisogna cambiare radicalmente l´impianto di quella riforma: premiare solo le amministrazioni efficienti e finire, a pioggia, per premiare anche i singoli che le fanno funzionare. Sarebbe bello se, assieme all´annuncio che Roma non si candiderà per le Olimpiadi 2020, arrivasse nei prossimi giorni anche quello che il governo vuole permetterci di costruire una macchina nuova. Ma dal titolare della Funzione Pubblica sin qui non è arrivato alcun segnale, se non quelli di continuità con la gestione fallimentare del governo precedente.

La Repubblica 15.02.12

“La coerenza di un “no” responsabile”, di Luigi La Spina

Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo. Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.

Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia.

Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.

Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.

Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.

E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.

Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.

La Stampa 15.02.12

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“RESISTERE ALLE SIRENE”, di TITO BOERI
La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l´ingresso nell´unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito. Quei giochi olimpici sono costati 12 miliardi di euro, il 6 per cento del Prodotto interno lordo greco. Hanno sì riportato, dopo 108 anni, la fiamma olimpica e i cinque anelli su sfondo bianco nel loro luogo d´origine, ma poi hanno lasciato sul campo i round di negoziati con la troika per evitare un nuovo default dopo quello di 80 anni prima, il quinto della storia greca, con sullo sfondo le fiamme degli incidenti di piazza Sintagma.
Ieri il governo Monti ha voluto tenere conto di questa lezione bloccando la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Come in Grecia quindici anni fa, questa candidatura trovava supporto in studi che predicono forti incrementi del Prodotto interno lordo a seguito dei giochi e che sostengono che non ci sarà alcun deterioramento nei saldi di bilancio. Nel dossier del comitato Roma 2020, come d´incanto, gli 8,2 miliardi di spesa aggiuntiva per l´organizzazione dei giochi e l´allestimento delle infrastrutture dovrebbero essere esattamente coperti dai ricavi legati all´evento e dalle maggiori entrate associate alla crescita del Pil. Dovrebbe, in altre parole, essere un´operazione a saldo zero per le casse dello Stato e a saldo positivo per il Paese, che si ritroverebbe con circa 18 miliardi di reddito e 20.000 posti di lavoro in più. Non pochi in tempi, come questi, di vacche magre.
Peccato che i tempi di progettazione e di appalto delle opere siano da noi lunghi quanto quelli richiesti dall´esecuzione dei lavori. Sono proprio questi ritardi iniziali a fare a loro volta lievitare ulteriormente i costi. È un vero e proprio circolo vizioso quello che si mette in moto: il verificarsi di costi oltre le previsioni rallenta la costruzione e i ritardi di progettazione e costruzione fanno aumentare i costi. Peccato che stime come quelle presentate dal comitato Roma 2020 ignorino il fatto che nella congiuntura attuale ogni aumento del deficit pubblico, pur di breve durata, può far aumentare i costi su tutte le nuove emissioni di titoli di Stato perché rende meno credibile il piano di rientro del debito. Peccato che questi studi ignorino il fatto che anche che il settore privato, dopo Lehman Brothers, è molto più restio a finanziare progetti di questo tipo, come hanno imparato a loro spese i contribuenti inglesi, chiamati a pagare di tasca loro spese per i giochi olimpici e paraolimpici di questa estate, che inizialmente dovevano comportare il “Private Sector Involvement”. Questo “PSI” non c´era stato neanche in Grecia: le infrastrutture e i centri sportivi che dovevano essere venduti al settore privato sono rimaste in mano allo Stato ellenico, che oggi si trova costretto a venderli a un prezzo stracciato, nettamente inferiore a quello di costruzione. Peccato che la Relazione di accompagnamento si limiti a guardare al valore aggiunto legato alle opere in questione senza tenere conto che le stesse risorse potevano essere utilizzate in tanti altri modi alternativi, incluso ridurre le tasse e lasciare quei soldi nelle tasche dei cittadini all´inizio di una recessione.
I precedenti di grandi opere legati ad eventi sportivi in Italia sono tutt´altro che rassicuranti. La competizione c´è soprattutto nello spendere di più. I mondiali del 1990 sono costati quasi sei volte quanto inizialmente preventivato. Anche la storia dell´America´s Cup a Trapani nel 2005, dei Mondiali di sci in Valtellina nello stesso anno, delle Olimpiadi invernali a Torino del 2006 e, infine, dei Mondiali di Ciclismo a Varese nel 2008 è una storia di ritardi, di sovracosti e, in non pochi casi, di corruzione.
In un momento in cui il nostro Paese sta faticosamente cercando di ricostruire la propria credibilità, sapere resistere ai richiami delle sirene dei testimonial popolari e dei politici della capitale e alle pressioni della lobby dei costruttori è un grande segno di serietà. Verrà molto apprezzato da chi decide se comprare i nostri titoli di Stato. In quanto alla mancata crescita, anche se prendessimo per buone le stime del comitato Roma 2020, non illudiamoci che per far ripartire l´economia italiana bastino le fiammate, le spinte, i big push. Noi, come la Grecia, abbiamo un problema strutturale. Non basta trovare qualcosa, un evento, che ci dia una spinta mentre il governo tiene la marcia inserita, come quando si deve far partire un´autovettura che ha la batteria scarica.
Il nostro problema è molto più serio. Dobbiamo cambiare il motore, a partire dalla macchina dello Stato. Questa non sa spendere neanche le risorse che sono già a nostra disposizione, nella programmazione dei fondi strutturali. La grande riforma di questa legislatura doveva essere quella della pubblica amministrazione. Chi l´ha vista? Sono arrivati solo gli annunci, la propaganda, che hanno avuto l´unico risultato di ulteriormente peggiorare l´immagine (e la morale) del dipendente pubblico al cospetto degli italiani. La riforma Brunetta si è dissolta nel nulla anche perché era mal congegnata. Finiva per premiare tutte le amministrazioni, anche quelle inefficienti, e, all´interno di queste, creava comunque divisioni anziché sostenere lo sforzo di gruppo per ottenere risultati migliori. Bisogna cambiare radicalmente l´impianto di quella riforma: premiare solo le amministrazioni efficienti e finire, a pioggia, per premiare anche i singoli che le fanno funzionare. Sarebbe bello se, assieme all´annuncio che Roma non si candiderà per le Olimpiadi 2020, arrivasse nei prossimi giorni anche quello che il governo vuole permetterci di costruire una macchina nuova. Ma dal titolare della Funzione Pubblica sin qui non è arrivato alcun segnale, se non quelli di continuità con la gestione fallimentare del governo precedente.

La Repubblica 15.02.12

"Bocciato emendamento su pensioni. Che figura!", di Pasquale M.i. Almirante

Che figura! Pdl, Lega e parte del Centro hanno votato, in commissione Affari costituzionali e bilancio, contro l’emendamento proposto dal Pd affinchè i diritti maturati per la quiescenza da circa 4 mila docenti slittassero dal 31 dicembre 2011, come previsto per il resto del pubblico impiego, al 31 agosto col termine dell’anno scolastico, in perfetta sintonia con la sola, antica finestra unica di cui hanno da sempre disposto i professori.

Un emendamento da inserire sul Milleproroghe, in approvazione definitiva al Senato, di assoluta equità e di normale giustizia.

Le uniche preoccupazioni infatti, che non solo i deputati del Pd avevano, ma anche i docenti nati nel 1952, che compiono 60 anni e con i contributi versati conformi ai dispositivi scorsi, erano accalappiate alle lacrime poco convinte della ministra Fornero, l’unica, col Governo, che gettava acqua sul fuoco della speranza di costoro in febbrile attesa dell’approvazione dell’emendamento in commissione.

Si temeva infatti l’opposizione del Governo, gli strilli della ministra, i lamenti squattrinati di Monti, non certo la sciabolata della Lega, i fromboli del Pdl, gli impantanamenti del Centro: che interessi possono avere questi partiti a bloccare un pugno di docenti del 1952 che vorrebbero lasciare la scuola?

Che motivo ha la Lega di farsi improvvisa paladina delle ristrettezze di borsa del Governo contro cui stanno sparando cartucce vuote dopo avere consentito perfino la rapina delle “quote latte” per le quali pagheremo sanzioni all’Ue? Perché questa scantonata dolorosa dopo essere stati i paladini a guardia delle pensioni? Non è stato l’indimenticabile Bossi a dire sempre: le pensioni non si toccano? E perché ora un voto sfacciatamente contrario per il riconoscimento, non di un privilegio, ma di un diritto assolutamente normale, vista la particolarità del lavoro dei docenti che non possono lasciare la classe a metà anno scolastico?

Stessa riflessione vale per Pdl e Centro: che motivi hanno, soprattutto dopo l’apertura al reperimento di qualche milione di euro per assicurare la quiescenza a questo drappello di professori, a bloccare un emendamento che anche Fioroni, già ministro col governo Prodi, aveva giudicato di correttezza giuridica e morale?

Una figura non sappiamo dire di che cosa da parte di questi partiti, né si riesce a trovare una giustificazione plausibile di fronte a un atto così scorretto, se non quella della ripicca, sia fra partiti e sia pure fra gli uomini che questi schieramenti compongono. E allora si ha la netta percezione che il governo della Nazione non sia più in mano a politici che tendono alla onorabilità della legislazione, ma al suo uso in senso privatistico, strumentale, familiare o ricattatorio o di scambio: ti approvo il tuo emendamento se tu approvi il mio.

Rigettare un simile emendamento volto a riscattare una palese ingiustizia contro i docenti che maturano gli stessi diritti del resto del pubblico con sei mesi di differimento, dal 31 dicembre al 31 agosto, ha il chiaro marchio dello sberleffo, non della ragion di stato (la mancanza di soldi) o del rigore o della equità della legge. La bufera era prevista scendere dalle montagne governative, dalle altezze montiane della cassa, non alzarsi dalle pianure padane o dal Centro mistico in cerca di un rifugio dove riscattarsi o dagli arcipelaghi pidiellini.

Perché l’abbiano fatto non è dato sapere, ma sicuramente si sono assunti una responsabilità nei confronti di poche migliaia di persone, che certamente sono stretta minoranza e forse proprio per questo meritano discriminazione e disparità.

da Orizzonte Scuola 15.02.12

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Pensioni: Niente vecchie regole per i prof. Repinto l’emendamento Pd al Milleproroghe

I prof continueranno ad essere ‘discriminati’ sul piano pensionistico. Non e’ passato, infatti al Senato, in commissione Affari Costituzionali e Bilancio, l’emendamento del Pd che prevedeva la possibilità per i docenti che matureranno i requisiti per la pensione entro il 31 agosto prossimo di lasciare il lavoro con le vecchie regole così come hanno potuto farlo i dipendenti pubblici che hanno maturato i requisiti entro il 31 dicembre scorso.

Il Pd ha cercato di far capire al governo e agli altri partiti che “i docenti lavorano non sull’anno solare, ma su quello scolastico- ricorda la senatrice Mariangela Bastico in una dichiaraziopne rilasciata alla stampa – “e dunque non possono andare in pensione l’1 gennaio, ma solo l’1 settembre. Ma non c’e’ stato verso”.

In questo modo i 4.000 docenti interessati slitteranno automaticamente nel nuovo sistema disegnato dal governo Monti con un ritardo netto della loro pensione. Lega, Pdl anche parte del Centro hanno votato contro l’emendamento del Pd.

da Tuttoscuola 15.02.12