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Safer internet day, per un uso consapevole e avvertito del web e dei social

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E’ la versione digitale del vecchio commento “Sì, sì, è vero, lo dicono tutti”. Un ragazzino, ma anche un adulto, su tre è convinto che se una notizia social è molto condivisa, oppure ha molti “like”, deve essere per forza vera. E’ grazie a questo atteggiamento che prospera il paradiso delle “fake news”, le bufale della rete, solo all’apparenza innocue. Grazie a organizzazioni in grado di manipolare grandi quantità di dati personali, lo abbiamo visto nella recente campagna presidenziale statunitense, con le “fake news” si è in grado addirittura di pilotare il consenso di masse di elettori, figurarsi il resto, dalle abitudini di consumo al sentiment su singole questioni. Oggi, nella giornata del Safer Internet Day, Save The Children e Telefono azzurro mettono in guardia contro la navigazione passiva e inconsapevole sul web e i social. Che gli adulti siano inermi di fronte ai pericoli della rete è esperienza comune. Preoccupa ancora di più che lo siano anche i nostri ragazzi, nativi digitali, iperconnessi fin dall’infanzia, apparentemente abili nell’uso delle tecnologie. E, invece, ci dicono da Telefono Azzurro, anche su questo fronte è fondamentale l’attenzione delle famiglie e l’alleanza con la scuola. Già dagli 11 anni, questi pre-adolescenti sono dotati di smartphone. Fino ad ora, ci si è preoccupati soprattutto di un uso scorretto durante le ore di lezione. Ma copiare i compiti o giocare invece che prestare attenzione alla lezione sono, forse, il male minore poiché il cyberbullismo, il sexting (postare immagini intime personali) e il sextortion (estorsioni a sfondo sessuale) sono fenomeni in continua crescita, con potenziali gravi conseguenze per i singoli (come dimostrano anche recenti casi di cronaca) che si sviluppano in una generale inconsapevolezza. Secondo una recente ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, la stragrande maggioranza degli adolescenti pensa che insultare, in rete, si possa. In fondo, non c’è contatto fisico, e, quindi, non c’è violenza. E’ su questo brodo di coltura che prosperano i discorsi d’odio, piaga dell’uso dei social (ma anche sociale). La lotta portata avanti dalla presidente della Camera Laura Boldrini contro le “fake news”, le parole d’odio e gli insulti sessisti in rete assume, sempre più, i connotati e la sostanza di una lungimirante battaglia di civiltà.

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6 febbraio, Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili

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Secondo una credenza della Costa d’Avorio il clitoride femminile racchiuderebbe in sé un grande potere, per questo va tolto e donato agli spiriti.
Questa è una delle presunte giustificazioni della brutale usanza della mutilazione dei genitali femminili: una spiegazione ammantata di mitologia per una pratica violenta ed estremamente dolorosa per la vittima con cui l’uomo, in molte nazioni, cerca di controllare la sessualità femminile “estirpandola”.
Il 6 febbraio è la Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili.
Il taglio del clitoride e delle grandi labbra, o addirittura l’infibulazione, riguardano – si calcola – tra le 46mila e le 57mila donne immigrate nel nostro Paese. E’ una usanza antichissima che, purtroppo, nonostante le proteste, le denunce e l’opera di informazione, persiste e continua ad essere inflitta sul corpo delle bambine. In Italia è fuorilegge (e c’è chi la pratica illegalmente), ma ci sono ancora tante famiglie che, approfittano del periodo di vacanze, tornano nei luoghi di origine per far “tagliare” le bimbe.
Con il dente di leone viola messo sulla copertina della mia pagina Fb, simbolo della campagna promossa da ActionAid, voglio contribuire a denunciare le sofferenze di queste giovani donne che, nel corso della loro vita, saranno gravate da pesanti infezioni, cisti e fistole e avranno rapporti sessuali dolorosi.
Basta barbarie sul corpo delle donne.

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Quella maggioranza che legge e scrive, ma non sa capire la complessità

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Tra analfabeti di ritorno, analfabeti funzionali e analfabeti veri e propri (che ancora esistono, soprattutto tra gli anziani e gli stranieri) in Italia, si è calcolato, che il 70% delle persone, pur sapendo scrivere e leggere, non ha strumenti culturali sufficienti per poter davvero intendere quello che gli viene comunicato. L’ultima grande battaglia di denuncia del compianto linguista Tullio De Mauro ha ripreso vigore dopo la sua scomparsa. Si tratta di un handicap enorme per la nostra società e non solo per i singoli che, materialmente, si trovano in questa condizione (di cui, non sempre, tra l’altro, hanno piena consapevolezza). Non essere in grado di comprendere tutte le sfumature di un messaggio – soprattutto quelli di natura politica, economica e sociale – incide sulla capacità di essere cittadino a tutto tondo, dotato di coscienza critica ragionante e non solo mossa da risposte di tipo emozionale. Il male, pur atavico e diffuso anche nel resto del mondo occidentale, sembra, comunque, aver messo più profonde radici nel nostro Paese e in Spagna. Siamo fanalino di coda nei Paesi Ocse per numero di laureati, i nostri studenti arrancano nelle materie scientifiche, ma anche nella comprensione dei testi, si fatica a far crescere il numero delle ragazze che abbracciano facoltà scientifiche. Il lifelong learning, strumento fondamentale anche ai fini pratici della ricerca di un nuovo lavoro in età adulta, è un concetto ancora troppo poco applicato e praticato. Se a questo aggiungiamo, il dato sorprendente, diffuso di recente, secondo il quale un italiano su cinque, lo scorso anno, è rimasto seduto davanti al televisore senza mai leggere un libro, guardare uno spettacolo dal vivo o andare al cinema o a un museo, allora il quadro diventa ancora più allarmante per le sue conseguenze sociali sulla capacità del sistema Paese di reagire, con grinta e innovazione, di fronte alla crisi.

L’Europa e il Parlamento italiano a sostegno delle Icc, le imprese culturali e creative

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Fino ad ora si è sentito molto più parlare di ICT, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma c’è una realtà in continua crescita, su cui l’Europa e il nostro Parlamento nazionale stanno lavorando simultaneamente, ed è quella delle ICC, le industrie culturali e creative. Ne parla il nostro europarlamentare Luigi Morgano su L’Unità, visto che nell’ultima seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato la relazione, di cui è stato co-relatore, per una politica coerente europea sulle industrie culturali e creative. Proprio questa settimana, inoltre, in Commissione Cultura della Camera, dopo un anno di lavoro, approfondimenti e audizioni, è stato adottato il testo-base di una proposta di legge di disciplina delle imprese culturali e creative, promossa dalla collega Anna Ascani e portato avanti dalla relatrice Irene Manzi

(http://www.camera.it/leg17/824?tipo=A&anno=2017&mese=02&giorno=01&view=&commissione=07#data.20170201.com07.allegati.all00010) . L’Unità titola efficacemente, in contrapposizione con i passati governi di centrodestra, “con la cultura si mangia”. Le industrie culturali e creative sono un settore in costante crescita, su cui l’Europa punta per uscire dalla crisi, anche perché giudicato capace di aggredire la conseguenza forse più grave, l’alto tasso di disoccupazione giovanile. I dati europei sulle imprese ICC sono rilevanti: piccole e flessibili imprese (il 95% con meno di 10 addetti), 12mila dipendenti, capacità di generare reddito, propensione all’export, con una rilevante presenza di giovani e, soprattutto, un forte radicamento territoriale. L’ambito – eterogeneo solo all’apparenza – è quelle che si estende dall’architettura all’editoria, passando per l’artigianato artistico, le arti visive e dello spettacolo, la moda e le biblioteche. Morgano le definisce “difficilmente de-localizzabili”. Infatti, il settore è composto da persone che per propensione hanno la mente aperta al mondo, ma che sono il frutto della tradizione e della ricchezza culturale di un contesto territoriale, e, quindi, tutto sommato, ancorate a quel territorio. L’Europa ha già adottato un programma quadro 2014-2020 “Europa creativa”. L’Italia, che di creatività è maestra e fucina di talenti, dovrà imparare a sfruttare al meglio le opportunità offerte a livello europeo e, soprattutto, dovrà saper sostenere (anche con una regolamentazione adeguata) quei talenti e quelle competenze che, al pari dell’industria manifatturiera, possono generare occupazione e ricchezza per la comunità o, come si dice efficacemente nell’articolo 1 del testo-base approvato in Commissione Cultura, sono “mezzo di crescita sostenibile e inclusiva”.

(crediti immagine: luigimorgano.it)

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Dalle mura di Carpi al valore delle cose

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Dopo una lunga trattativa, quest’anno il Comune di #Carpi dovrebbe riuscire, finalmente, ad acquistare il terreno da cui sono emersi i resti delle antiche #mura che circondavano la città. Una dichiarata assurdità per coloro i quali in quel fazzoletto di terra su via Catellani non vede altro che quattro pietre. Inutili. Prive di alcun valore. Stante questa premessa, mi chiedo quanto quantificherebbero l’anno e mezzo – perché tanto ci volle – trascorso fra archivi e documenti, per ricostruire la storia di quelle “quattro pietre” che un tempo furono le mura di Carpi, oggetto della mia tesi di laurea. Ancora meno immagino, ma non sto certo scrivendo per quello. Nessuno metterebbe in dubbio il valore (storico, artistico, architettonico e non economico) del nostro “Castello”: è inestimabile per chiunque. Ma lo stesso Palazzo Pio e tutto il nostro pregevole centro storico potrebbero essere ben diverso senza quelle quattro pietre, che oggi qualcuno guarda con tanta sufficienza, limitandosi ad attribuire loro, impropriamente, un mero valore commerciale trascurandone però quello storico e urbanistico. Quelle mura, costate fatica e sudore a tanti “mastri” e manovali che prestarono le loro “opere”, sono parte della città e ne hanno determinato la forma urbana da metà del XVI. Quattro pietre, quindi, che dicono molto del nostro passato, ma che, a saperle leggere e qui ovviamente sta il vero punto, possono dire ancora molto anche del nostro presente. Di quello che la nostra città è diventata.

venerdì 27 gennaio 2017 - Il Resto del Carlino

venerdì 27 gennaio 2017 – Il Resto del Carlino

PIETRA FORTE-CARPI-CITTA' E CANTIERI ALLE FORTIFICAZIONI

Pietra forte – Carpi: Città e cantieri alle fortificazioni

La ripetitività dei casi di femminicidio desta meno allarme sociale e crea assuefazione

femminicidio

Accoltellate, strangolate, percosse, sparate e ustionate: l’orrore con cui gli uomini – mariti o ex – si accaniscono contro le loro donne si arricchisce sempre di nuove, e più terribili, sfaccettature di ferocia. Ma come per ogni forma di violenza, anche quella contro le donne sta, purtroppo, creando assuefazione, nonostante il fenomeno sia sempre in continua crescita. La conferma nella ricerca condotta da Swg dal titolo “PoliticAPP, speciale “Emergenza femminicidi”. I femminicidi, nel nostro Paese, negli ultimi dieci anni sono stati 1.250. Secondo l’Istat sono 3 milioni le donne vittime di stalking, mentre crescono esponenzialmente, ma non ci sono ancora statistiche in merito, gli episodi di cyberbullismo e revenge porn (le modalità con cui avviene l’altrettanto devastante gogna mediatica sul web e sui social). Solo nel 2015 il fenomeno era avvertito come un’emergenza sociale dall’82% della popolazione, oggi siamo scesi di dieci punti percentuali. I più freddi sembrano essere i più giovani, quelli che hanno tra i 18 e i 24 anni, soprattutto i maschi. Perché? Difficile dare una risposta univoca. Forse l’essere costantemente bombardati – su tv, web, social e games – da immagini violente fa calare la percezione della gravità del fenomeno e finisce con il sovrapporre fiction e realtà. O forse ancora, le generazioni di mezzo, a differenza dei giovani, sentono viva la fatica, ma anche l’esaltazione, delle lotte e delle conquiste femminili che sono riuscite a imporre una maggiore consapevolezza sia nelle donne che negli uomini. O forse ancora, la giovane età, quella dei primi innamoramenti e amori, fa vivere i Millenials ancora nel limbo dell’illusione a dispetto della realtà. Per fortuna, ancora molto alta (85%) è la consapevolezza che non c’è giustificazione (non c’è amore, non c’è gelosia, non c’è paura) che possa scusare un atto di violenza. Molto interessante, infine, il dato sulla valutazione che uomini e donne fanno sull’ambiente e le motivazioni per cui nasce il caso violento. Per la maggioranza degli uomini, il femmincidio è il frutto di un ambiente degradato, caratterizzato da scarse risorse economiche e altrettanto scarsa istruzione. Per la maggioranza delle donne, invece, ciò che fa scattare la molla della violenza è, invece, prevalentemente il fatto che gli uomini non riescono ad accettare la crescente emancipazione femminile. E, a supporto di quello che pensano le donne, ricordiamo i casi, anche recenti, di femminicidi commessi in ambienti agiati e da professionisti stimati e apprezzati. Sul cosa fare, le idee sono abbastanza chiare: si deve intervenire sia sul fronte della repressione, inasprendo le pene, sia sul fronte della formazione, insegnando fin da giovani il rispetto dell’altro. Il vero dato critico rimane quello di una progressiva assuefazione, quasi che la ripetitività del gesto non enfatizzi la gravità del fenomeno, ma riduca l’empatia verso la vittima. E’ una deriva molto pericolosa, quella stessa che ha portato la Russia a derubricare le botte in famiglia a mero illecito amministrativo. Non abbassiamo la guardia.

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Più vicina la norma che prevede la riproducibilità libera a fini di studio dei beni archivistici e bibliografici

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E’ più vicina la norma che prevede la riproducibilità libera a fini di studio dei beni archivistici e bibliografici. Dovrebbe riprendere a breve, infatti, al Senato, la discussione del decreto legge sulla Concorrenza che contiene anche questa norma. Sarà necessario comunque un ritorno del provvedimento alla Camera, passaggio che potrebbe essere rinviato se si dovesse ritornare alle urne a breve. E’ per questo che penso che quella che viene dal Senato è buona notizia, ma che la soluzione per via amministrativa (nelle modalità da approfondire) che avevo proposto con la mia interrogazione al ministro Franceschini continui ad avere un senso. Dell’argomento ha parlato anche l’archeologo e presidente del Consiglio Superiore Beni culturali e paesaggistici del MiBACT, Giuliano Volpe:

Un ultimo decisivo passo per liberalizzare l’uso delle immagini nei beni culturali

Forse lo si è già dimenticato, ma fino a un paio di anni fa nei nostri musei non si poteva scattare una fotografia. Un’autentica assurdità, nell’epoca degli smartphone e delle fotocamere digitali, di Facebook e di Instagram!

È stato solo con l’Art Bonus che si è giunti a questa piccola grande rivoluzione, un vero traguardo di civiltà, grazie a un articolo che prevede libera riproduzione di qualsiasi bene culturale (art. 12 comma 3), a esclusione dei beni bibliografici e archivistici: una “manina” ministeriale è, infatti, intervenuta a sollecitare un improvvido emendamento al momento della conversione in legge del decreto, introducendo questo limite con presunti rischi di tutela.

Ora gli sforzi sono finalizzati all’estensione della liberalizzazione anche all’ambito bibliografico e archivistico: un obiettivo per il quale si è formato un vero e proprio movimento, assai attivo. Il Consiglio Superiore Bcp ha assunto su questo tema una posizione assai netta a favore della liberalizzazione, affrontando l’argomento più volte e producendo ben due mozioni, una del luglio 2014, al momento dell’emanazione dell’Art Bonus, e l’altra del maggio 2016.

In quest’ultimo documento si precisa che il “Consiglio condivide le finalità di promozione della libera ricerca storica, in piena coerenza con il dettato costituzionale (artt. 9, 33), e una migliore conoscenza del patrimonio documentario conservato in archivi e biblioteche, che sono da considerarsi, oltre che istituti di conservazione, anche e soprattutto centri di diffusione attiva del sapere a tutti i livelli” e auspica che si possa presto realizzare una “riforma del regime delle riproduzioni che possa rispondere nel modo più efficace alle esigenze della ricerca, nel rispetto delle esigenze di conservazione e delle norme a tutela del diritto di autore e della riservatezza che riguardano segnatamente i beni bibliografici e archivistici”.

Pertanto il Consiglio chiede che “la riproduzione con mezzo proprio dei beni bibliografici e archivistici, a fini personali e di studio, sia resa gratuita e senza limitazioni nel numero di scatti in caso di testi di pubblico dominio”, che siano semplificati i sistemi di autorizzazione, che “in caso di riproduzioni digitali già disponibili in istituto, si provveda al rilascio gratuito delle stesse all’utente richiedente” e, infine, che “sia garantita la libera divulgazione con ogni mezzo delle immagini di beni culturali ai sensi dell’art. 108 comma 3 bis del Codice dei Beni Culturali permettendo forme proficue di scambio tra gli studiosi di informazioni utili all’attività di ricerca attraverso i canali della rete”.

Finalmente una norma a favore della liberalizzazione era stata introdotta, con il benestare del ministro Franceschini, nella legge per il mercato e la concorrenza (As 2085). Sembrava cosa fatta, ma così non è ancora: il provvedimento pare da tempo finito su un binario morto, nell’attale clima di “prudenza”, dopo la foga riformista degli ultimi anni.

Un’interrogazione al ministro Franceschini è stata presentata su questo tema dall’on. Manuela Ghizzoni del Pd. Mi auguro, quindi, che presto la liberalizzazione delle immagini sia completa e che favorisca, come sta già avvenendo, una maggiore diffusione e conoscenza del patrimonio culturale, un più proficuo scambio e condivisione tra gli studiosi e anche tra turisti e semplici cittadini, e che, soprattutto, non si debbano più vedere nei luoghi della cultura divieti anacronistici.

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