Latest Posts

"Come misurare la corruzione", di Nicola Persico

Ha fatto scalpore la denuncia della Corte dei conti su un vertiginoso aumento dei casi di concussione e corruzione in Italia. Una loro misurazione precisa è però estremamente difficile con gli strumenti finora a disposizione. Tuttavia, la percezione dei cittadini è che il fenomeno sia grave, in peggioramento e si irradi dalla politica alla pubblica amministrazione. Prendere provvedimenti è dunque indispensabile. Magari a partire da dati affidabili. E proprio la Corte dei conti potrebbe costruire di una misura accurata di corruzione.

Ha fatto notizia la recente rivelazione della Corte dei conti che le denunce per fatti di corruzione e concussione sono più che raddoppiate nel 2009. Nel periodo gennaio-novembre 2009, la Corte riporta 221 denunce per corruzione (+229 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008) e 219 per concussione (+153 per cento). Questi dati, al momento in cui scrivo, non si riconciliano con quelli del Servizio anti-corruzione e trasparenza (presidenza del Consiglio dei ministri), secondo cui il dato 2009, non ufficiale e riferito all’intero anno, è 104 denunce per corruzione e 121 per concussione, dunque circa la metà di quanto indicato dalla Corte dei conti. Invero, sulla dinamica del fenomeno è in corso una discussione tra Corte dei conti e Servizio anticorruzione. Ma la fonte è la stessa – le comunicazioni delle tre forze di polizia – e non dovrebbe essere difficile riconciliare i numeri. Prima di ogni analisi interpretativa.

L’INTERPRETAZIONE DEI DATI

Anche se i dati rivelassero un incremento delle denunce per corruzione e concussione nel 2009, l’interpretazione resterebbe molto problematica. Perché si tratta appunto denunce, dunque generate attraverso un processo che riflette anche la scelta di denunciare. Se secondo l’interpretazione sposata quasi uniformemente dai mass media, il dato della Corte dei conti rivela uno straordinario peggioramento del fenomeno, è tuttavia legittima anche l’interpretazione esattamente opposta: il forte incremento rilevato potrebbe riflettere una maggiore propensione a denunciare i comportamenti illegali. Se così fosse, i dati presentati dalla Corte dei conti dovrebbero essere motivo di conforto, giacché indicherebbero un affermarsi della cultura della legalità.
Purtroppo, sulla base dei soli dati sulle denunce non è possibile distinguere fra le due interpretazioni. E, invero, il problema di selezione creato dalle denunce affligge la maggior parte dei dataset concernenti la criminalità. Ciò perché cittadini che vivono in condizioni diverse hanno diverse propensioni a denunciare un crimine alla polizia. Fanno eccezione i cosiddetti “victimization studies” che sono basati su interviste a un campione casuale di cittadini, ai quali vengono chieste informazioni sui crimini che hanno subito. La procedura non si basa sulle denunce alla polizia ed evita così le annesse distorsioni.

UN QUADRO OMOGENEO

La fonte di dati sulla corruzione più simile a un “victimization study” è il Global Corruption Barometer, pubblicato da Transparency International. Nel 2008, 73mila persone in tutto il mondo sono state intervistate su argomenti attinenti alla corruzione. Riportiamo la percentuale di intervistati che, in ogni paese, rispondono “sì” alla domanda “Il governo è molto o alquanto efficace nel contrastare la corruzione?”. In Italia solo il 15 per cento degli intervistati sottoscrive questa affermazione, contro un 50 per cento degli olandesi e un sorprendente 60 per cento dei macedoni. Con tutti i caveat del caso, questa comparazione fra paesi è coerente con l’idea che in Italia, più che in molti altri paesi, vi sia pessimismo sull’argomento corruzione.
Se nel 2008 la situazione è negativa, cosa possiamo dire del trend? Negli anni precedenti, la percentuale di italiani che ha risposto che il governo “è efficace nel contrastare la corruzione” è stata la seguente:

2006 27%
2007 21%
2008 15%

Il trend, si vede, è fortemente negativo. Inoltre, nel 2007 il 61 per cento degli intervistati italiani aveva dichiarato di ritenere che la corruzione sarebbe aumentata nei tre anni seguenti. Quindi, la percezione è di un netto peggioramento.
L’indagine Global Corruption Barometer permette di evidenziare anche quali organizzazioni siano maggiormente soggette alla corruzione. Per l’Italia, i risultati sono riportati nella figura 3. Come si vede, i partiti politici sono i più frequentemente citati, seguiti dalla pubblica amministrazione. La mia interpretazione della figura 3 è che la politica sia vista come la fonte della corruzione, che si estende poi agli organi più direttamente sottoposti alla politica, cioè la pubblica amministrazione.

Partiti politici 44%
Parlamento e legislatura 9%
Settore privato 7%
Media 4%
Pubblici ufficiali e impiegati statali 27%
Magistratura 8%
Risposte in percentuale degli intervistati alla domanda “Quale di queste organizzazioni ritiene più soggetta alla corruzione?” Dati dalla survey “Global Corruption Barometer 2008”, amministrata da Transparency International.

Naturalmente, la percezione popolare del fenomeno è cosa diversa dalla corruzione vera e propria. Le variazioni nel tempo potrebbero riflettere in parte una presunta crescente attenzione accordata dai mass media a fenomeni di corruzione. Quindi, anche i dati del Global Barometer sono imperfetti, seppure, a mio personale giudizio, probabilmente più affidabili di quelli basati su denunce. In ogni caso, tutte le fonti di dati sono utili perché contribuiscono a creare un quadro d’insieme. E in questo caso concordano almeno nel non segnalare un netto miglioramento del fenomeno corruzione. Sottolineo che non è mia intenzione imputare la responsabilità di tale trend a questo o quel personaggio politico o governo. Piuttosto, la questione è: come migliorare le cose?
Prima di tutto, sarebbe importante avere dati affidabili sul fenomeno corruzione. La fonte ideale sarebbe una indagine in cui, per esempio, un campione di contratti pubblici estratto a caso sia selezionato per essere esaminato a fondo dalla Corte dei conti. I risultati di una indagine a campione fornirebbero un’ottima misura dello stato della corruzione in Italia. Se pensate che sia un’idea “da marziani,” ricredetevi: in Brasile dal 2003 il governo federale ispeziona un campione casuale di 60 governi municipali al mese, controllando le irregolarità nell’uso di fondi federali. I risultati delle ispezioni sono pubblici e diffusi anche attraverso i mass media. (1) Se è politicamente possibile farlo in Brasile, non vedo perché non possa esserlo in Italia.
In conclusione, misurare la corruzione è estremamente difficile. La percezione dei cittadini è che: (a) il fenomeno è grave; (b) sta peggiorando; (c) si irradia dalla politica alla pubblica amministrazione. Per la Corte dei conti sarebbe relativamente facile creare misure accurate di corruzione.

(1) Sull’argomento si veda “Exposing Corrupt Politicians: The Effect of Brazil’s Publicly Released Audits on Electoral Outcomes”, Claudio Ferraz e Frederico Finan, Quarterly Journal of Economics 2008, 123(2), pp. 703-746.
lavoceinfo

"Prescrizione o assoluzione, sta a lui la scelta", di Eugenio Scalfari

È molto difficile immaginare lo sforzo e la tensione morale prima ancora che politica che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, deve fare per arginare lo sconfinamento continuo, le provocazioni e gli insulti che Berlusconi lancia ogni giorno contro l’assetto istituzionale e costituzionale dello Stato. La lettera che Napolitano ha inviato ieri al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l’ultima e più esplicita testimonianza di questa esondazione berlusconiana, arrivata al punto di definire “talebani” i magistrati inquirenti e giudicanti, rei ai suoi occhi di applicare le leggi alle quali egli vuole sottrarsi con tutti i mezzi a sua disposizione.
Del resto Napolitano non è il primo a dover fronteggiare questa situazione di estremo disagio in cui versa la Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi si sono anch’essi dovuti scontrare loro malgrado con analoghe difficoltà e analoghi travagli. Sono ormai quindici anni che il Quirinale deve ergersi come antemurale contro la furia berlusconiana; ma mai come in questa legislatura quella furia aveva raggiunto un’aggressività così pericolosa, esplicita, mirata ad abbattere ogni equilibrio, ogni garanzia, ogni ostacolo e lo spirito stesso della Costituzione repubblicana. Chi ha avuto la fortuna di poter osservare da vicino Scalfaro, Ciampi, Napolitano, ha conosciuto le loro angosce ma anche la loro tenace fermezza e la serenità con le quali si sono comunque mantenuti al di sopra delle parti, non avendo altro fine che la difesa della Costituzione, la lotta contro i privilegi, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’equilibrio dei poteri previsto dallo Stato di diritto.

Ho scritto più volte che il vero bersaglio nel mirino di Berlusconi è il presidente della Repubblica, i tre presidenti della Repubblica che si sono succeduti al Quirinale. Verrà pure il momento che questa storia segreta dovrà essere scritta e si vedrà allora quanto gli italiani debbano a quei tre uomini che sono riusciti a preservare la libertà di tutti richiamando i principi di moderazione, rispetto reciproco e condivisione delle norme che stanno a fondamento della convivenza sociale. Non a caso il Quirinale è destinatario di un altissimo consenso da parte degli italiani; al di là e al di sopra delle preferenze politiche e degli steccati che ne derivano, i cittadini riconoscono unanimemente dov’è l’usbergo che tutela l’unità della patria e la coscienza morale della nazione. Questa compattezza ci infonde fiducia e ci stimola a superare il fango e le lordure che insozzano in modo ormai intollerabile la vita pubblica del nostro Paese.

* * *

L’episodio più recente che ha provocato l’ira funesta di Silvio Berlusconi è stata la sentenza della Cassazione che, a Sezioni unite, ha giudicato prescritto il reato di corruzione in atti di giustizia dell’avvocato Mills, lasciando aperto il processo per lo stesso reato nei confronti del presidente del Consiglio. La Cassazione ha dato torto alla Corte d’appello milanese che aveva condannato Mills a quattro anni e mezzo di carcere. Secondo le Sezioni unite il processo Mills era caduto in prescrizione da tre mesi e mezzo. Non così per Berlusconi, nei confronti del quale il processo continuerà fino a quando decadrà anch’esso per scadenza dei termini nella primavera del 2011.
In un primo momento il premier sembrava aver gioito (e con lui tutti i suoi “replicanti”) della sentenza delle Sezioni unite che “aveva dato torto ai giudici di Milano”. Ma il giòito è durato poco di fronte all’evidenza: il processo continua per la semplice ragione che il reato è tuttora da giudicare ed è un reato di estrema gravità perché il premier è accusato di aver corrotto un magistrato e “comprato” una sentenza. Per Mills non c’è stata assoluzione ma prescrizione dei termini. Per Berlusconi sarà probabilmente altrettanto: nel marzo del 2011 sarà probabilmente prescritto ma non assolto e per un uomo politico che guida il governo nazionale questa situazione gli evita il carcere ma non cancella le macchie infamanti di quel reato.

Che può fare il premier per evitare questo scorno e cancellare quelle macchie?
Alla ripresa del processo i suoi avvocati potrebbero decidere in suo nome di rinunciare alla prescrizione e chiedere al Tribunale di riconoscere la sua estraneità rispetto ai reati. Se si comportasse in questo modo acquisterebbe una credibilità della quale ha molto bisogno ed anche altre iniziative legislative in corso, come per esempio quelle preannunciate contro la corruzione, le guadagnerebbero. È infatti evidente a tutti quale valore si possa dare a inasprimenti di pena per reati di corruzione quando chi propone tali inasprimenti è lo stesso soggetto che si sottrae al suo processo utilizzando la prescrizione i cui termini sono stati abbreviati da 15 a 10 anni dalla legge Cirielli “ad personam”.

Non dimentichiamo infine che sono attualmente all’esame del Parlamento due leggi rispettivamente già votata una alla Camera e l’altra al Senato, sul “legittimo impedimento” e sul “processo breve”. Ambedue hanno la stessa finalità di estinguere i procedimenti in corso contro il premier per decadenza dei termini o per improcedibilità, senza mai poter arrivare a sentenza sul merito del reato, se sia stato commesso oppure no.
Questo è il punto di fondo e dipenderà soltanto da Berlusconi se vorrà che sia dimostrata la propria innocenza o preferirà fuggire dal processo. Non sarebbe del resto la prima volta; tra il 1999 e il 2003 fu prescritto già quattro volte: nel lodo Mondadori, nell’illecito finanziamento del Psi per 21 miliardi di lire date a Bettino Craxi, nel falso in bilancio Fininvest e nell’acquisto del calciatore Lentini da parte del Milan, pagato in Svizzera con fondi neri della Fininvest. In nessuno di quei casi Berlusconi chiese di rinunciare alla prescrizione. Ora ne avrebbe l’occasione di farlo. Meglio tardi che mai. Lo farà? Lo spero, ma non ci credo.

* * *

Il bavaglio alla stampa è un’altra delle leggi mirate a diminuire il tasso di libertà e di opposizione al malaffare che imperversa. Si obietterà che giornali e giornalisti sono parte in causa e che quindi la loro (la nostra) opposizione a quel disegno di legge è di natura corporativa. Può darsi. Può darsi che inconsciamente dentro di noi questo sentimento vi sia. Ma noi possiamo invocare a nostro favore il fatto che la libertà di stampa è un principio tutelato dalla Costituzione che ne fa anzi uno dei requisiti principali della democrazia. La nostra opposizione del resto non riguarda il tema delle pene detentive minacciate contro i giornalisti che non ottemperino agli obblighi normativi. Nell’ultima versione di quel disegno di legge sembra che le pene detentive siano state tolte, ma la nostra opposizione resta fermissima.

Ci rendiamo ben conto che riferire intercettazioni (peraltro solo quando siano state rese pubbliche dai magistrati inquirenti) utilizzando i testi in modo parziale col rischio di fraintenderne il senso compiuto, può arrecare gravi danni alla privatezza delle persone intercettate e soprattutto a quelle casualmente coinvolte nelle conversazioni. Questi difetti possono essere rimossi con disposizioni intelligenti che obblighino i giornalisti a riferire i fatti con parole proprie e/o con brani virgolettati ma compiuti di senso. In questi casi il giornalista non potrà difendersi dietro il velo del virgolettato ma riferirà con parole proprie assumendosi la piena responsabilità di quanto scritto e dovrà difendersi in giudizio dall’eventuale querela per diffamazione. Si potrà anche (secondo me si dovrebbe) far cadere dinanzi al magistrato il diritto al segreto sulle fonti quando si riferiscano fatti e notizie ancora secretati.

Tutto ciò detto, vietare alla stampa ogni accesso alla fase istruttoria del processo è una pretesa inaccettabile e incostituzionale. La fase istruttoria è delicatissima poiché è in quella sede che si formano e si rassodano gli indizi di colpevolezza o di innocenza e i materiali probatori che poi saranno valutati e circostanziati nel corso del dibattimento. L’attenzione della stampa sull’operato delle Procure e della polizia giudiziaria è materia di primaria importanza perché il controllo dell’opinione pubblica su tutte le fasi del processo scoraggia e comunque rende note eventuali manovre di insabbiamento, sistematicità dei rinvii richiesti dai difensori, collusioni sempre possibili tra i magistrati che indagano e le parti indagate. La presenza della stampa è utile, oso dire più nella fase istruttoria che in quella dibattimentale. Le responsabilità di giornali e giornalisti debbono essere a loro volta accuratamente indicate e le sanzioni eventualmente inasprite, ma il divieto d’accesso non può essere accettato e il divieto di riferire radicalmente respinto.

Continuo a pensare che il bavaglio alla stampa violi un principio costituzionale che neanche il potere legislativo può cancellare. Né potrebbe farlo una legge di modifica della Costituzione trattandosi di un principio indisponibile. L’ipotesi ventilata sulla Stampa da Luca Ricolfi di creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali mi sembra una costruzione barocca che si infrangerebbe non appena si dovessero scegliere i modi per formare questo improprio tribunale, esso sì di natura corporativa. Quanto all’altra proposta dello stesso Ricolfi di consentire ai giornali l’accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne “a rotazione periodica” tra le varie testate, mi sembra una proposta che mi permetto di definire ridicola.

A volte il potere corrompe non le tasche dei probi ma i loro cervelli. E questo non è un rischio remoto ma estremamente attuale tra quelli che stiamo correndo.
La Repubblica 28.02.10

******

Napolitano: “Basta accuse ai giudici”
Non passano nemmeno ventiquattr’ore dall’ennessimo attacco del premier Berlusconi contro la magistratura accusata stavolta di essere, anche se in una sua minoranza, una «banda di talebani» che arriva la dura presa di posizione del Quirinale.
In una lettera al vice presidente del Csm Nicola Mancino il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano esprime tutta la sua preoccupazione per quello che egli teme sia un nuovo, violento scontro tra poteri dello Stato. Per di più alla vigilia delle elezioni Regionali e dopo gli ultimi sviluppi «di delicate vicende processuali». I riferimenti sono chiari. Ebbene Napolitano teme nuove «drastiche contrapposizioni e pericolose tensioni» non solo tra opposte parti politiche ma «tra istituzioni, poteri e organi dello Stato». Sono mesi che questo problema è aperto e che si ripropone ciclicamente.

Un punto di non ritorno è stato rappresentato senza dubbio dalle polemiche che si innescarono – con protagonista il premier – dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale. Oggi Napolitano stigmatizza «accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti» e apprezza che la magistratura associata abbia annunciato di non volersi far trascinare nelle polemiche. Tutto questo non serve a nessuno nè al Paese nè alla riforma del sistema giustizia che si può portare a casa solo se ci saranno «ascolto» e «senso della responsabilità e della misura da tutti». Da qui occorre partire. E l’Anm, con il leader Palamara, si dice «confortata» dalle parole del Presidente e pronta a fare la propria parte.

Anche da Mancino, destinatario della lettera, giunge un monito per un «confronto civile e rispettoso» con il ritorno a «un linguaggio più sobrio e austero». Coro di plauso alle parole del presidente ma con evidenti distinguo. Se il presidente della Camera Gianfranco Fini ripete che «è indispensabile che tutti facciano quanto è in loro dovere e potere per garantire il reciproco rispetto e un clima costruttivo», il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri insiste sulla necessità che siano «le minoranze politicizzate della magistratura che antepongono l’ideologia al diritto» ad ascoltare l’appello. Le parole del Capo dello Stato trovano apprezzamento nelle file del Pd. «Mi auguro che il suo invito venga accolto dalla politica, dal Governo, dal presidente del Consiglio e anche dalla magistratura», dice Rosi Bindi arrivando alla manifestazione del popolo viola in piazza del Popolo. Per Bersani le parole di Berlusconi sono «inaccettabili». «Ormai siamo alle sparate, si sragiona. È preoccupante, sono frasi inaccettabili», commenta il segretario del Pd ai microfoni di Sky Tg24. «Non si può dire che ormai ci siamo abituati – aggiunge – perchè restano inaccettabili. Credo che gli italiani debbano cominciare a pensare veramente come andare oltre questa fase». «Noi – continua il leader del Pd, che stamattina a Faenza ha portato la solidarietà del partito agli operai della Omsa – non possiamo essere tutti i giorni dentro a queste vicende. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati. Questa – insiste Bersani – è una responsabilità che lui porta, mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni».
La Stampa 27.02.10

******

Giustizia, Napolitano al premier: “Basta polemiche e accuse pesanti”

Fini elogia il Capo dello Stato: “Ha grande senso di responsabilità istituzionale”
Bersani contro Berlusconi: “Sui giudici ormai sragiona”.
Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito “talebani”, il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate “in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato”. Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come “il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese”. Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier “frasi inaccettabili”. E il presidente della Camera Gianfranco Fini si dice completamente d’accordo con Napolitano: “Ha un senso di grande responsabilità istituzionale. E’ indispensabile che tutti facciano quanto è in loro potere e dovere per garantire reciproco rispetto e un clima costruttivo”.

La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il “vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse”.

“Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento – sottolinea napolitano – da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare”.
“Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati – conclude il Capo dello Stato – che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione”.

La risposta di Mancino. Il vicepresidente del Csm Mancino sottolinea “la piena condivisione delle preoccupazioni espresse dal Capo dello Stato”. “Non nasconde il Capo dello Stato – sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano – il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti”.

L’apprezzamento di Palamara. “Apprezziamo e troviamo conforto nelle parole del presidente Napolitano – replica il presidente dell’Anm Luca Palamara – nelle quali ci riconosciamo sia per la vicinanza al lavoro dei magistrati impegnati nello svolgimento di delicate inchieste oggi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica che per il riconoscimento del ruolo e dell’attività svolta dall’Associazione nazionale magistrati”.
L’elogio di Fini. “Il presidente Napolitano – ha affermato Fini in un incontro a Vicenza – ha un senso di grande responsabilità istituzionale. E’ indispensabile che tutti facciano quanto è in loro potere e dovere per garantire reciproco rispetto e un clima costruttivo”. Anche per favorire il varo delle riforme istituzionali, proprio come chiede il Capo dello Stato: “Dopo le elezioni regionali, le ultime importanti della legislatura – ha detto ancora Fini – ci sono tre anni di tempo perché il Pdl possa mettere in campo le sue proposte assumendosi la responsabilità di fare le riforme. Altrimenti sarà difficile spiegare che con una maggioranza così ampia siamo ancora alle prese con la stessa agenda di problemi che ci sono da dieci, quindici anni”.

Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. “Penso – ha detto – quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili”. “Dire che ormai ci siamo abituati, no – ha aggiunto Bersani – perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati”. “E questa – ha ripetuto il segretario Pd – è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni”. Bersani ha ricordato che “c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri”.

Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. “Non possiamo accettare – dice – che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe”. “Siamo al golpe – avverte il portavoce di Idv – ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti”.

La Repubblica 27.02.10

******

“Berlusconi tace per evitare tensioni. Il premier irritato per le mosse dei pm”, di Ugo Magri

Dei vari colloqui di cui si ha notizia, non ce n’è uno, uno soltanto, in cui Berlusconi abbia ragionato di Napolitano, del suo aperto rimprovero, dell’alto invito a non offendere le altre istituzioni repubblicane. Alza le spalle? Può darsi. Risulta invece che il Cavaliere sia irritato assai col Tribunale milanese per «l’ultima che mi combina»: processo sospeso in attesa di capir meglio la sentenza di Cassazione su Mills, ma udienza già fissata il 26 marzo. Due giorni prima delle elezioni. Quando il premier sarà impegnato nei comizi di chiusura. Gasparri, che non nega di avere sentito il Capo, la mette così: «E’ una tempistica quantomeno singolare. Potevano aspettare il 31 marzo, qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E invece…».

Il lamento è tornato con l’avvocato Ghedini all’altro capo del filo, laddove con Daniela Santanché (intima confidente del premier) i conversari hanno riguardato il partito, le sue dinamiche e, naturalmente, le reali intenzioni di Fini che giusto ieri insisteva da Vicenza sulle riforme dopo le Regionali, sul «rischio di galleggiare per i prossimi tre anni», sulla legge per l’immigrazione che lui rifirmerebbe insieme con Bossi, sulle pensioni da mettere sotto controllo, ma anche sulla «flessibilità che non deve trasformarsi in pracariato». Più bacchettata a Tremonti sul «carico fiscale eccessivo» (il ministro dell’Economia «tiene sotto controllo i conti pubblici ma taglia», segnala Fini, «anche dove non dovrebbe, sulla legalità e sulle infrastrutture»). Di tanti argomenti ha discusso ieri il premier. Ma su Napolitano, nemmeno un cenno che gli interlocutori rammentino. Bonaiuti non ha telefonato ad Arcore per chiedere istruzioni a riguardo, Berlusconi s’è ben guardato dal farsi vivo per concordare una presa di posizione. Il premier, dunque, incassa il rimprovero e tace. Ciò non significa che acconsenta. E si può immaginare il tono dell’autodifesa: l’altra sera a Torino mi sarà pure scappata qualche parolina di troppo («certi magistrati talebani sono peggio dei criminali»), ma fa parte della natura umana il lasciarsi prendere dagli sdegni… Napolitano potrebbe prendersela con questi pm… E comunque, lo difende in privato Cicchitto, «Berlusconi non è uno di quei monsignori maestri nell’arte della dissimulazione, della bugia». Circola un’altra tesi, per ora soltanto sussurrata ai vertici Pdl: che Berlusconi si sia sfogato contro le toghe titolo preventivo, in quanto le inchieste su Protezione Civile e dintorni potrebbero (ecco la diceria) portare a nuovi sviluppi già nella settimana prossima. Inutile cercare conferme.

Ma ragion di più per evitare guerre col Quirinale. Il Cavaliere sa che non gli conviene. Napolitano è popolarissimo, sarebbe come attaccarsi ai fili dell’alta tensione. Inoltre l’uomo del Colle deve controfirmare il «legittimo impedimento», con lui c’è in sospeso la legge sulle intercettazioni, quale errore sarebbe prenderlo di punta. E difatti. Le dichiarazioni degli esponenti Pdl sono tutte molto educate verso il Capo dello Stato. Al miele il ministro Rotondi, «Napolitanto dispensa pillole di saggezza». Intelligente Capezzone, «non si rivolge soltanto a noi ma anche al Csm perché eviti polemiche». Se mai a Berlusconi restasse voglia di far polemica, c’è Bossi che verso sera gliela fa passare del tutto: «Sto con Napolitano. Bisogna tenere la battaglia nella politica e non coinvolgere la magistratura».
La Stampa 28.02.10

Aquila, rivolta delle carriole contro le macerie

Nuova manifestazione degli abitanti aquilani domani nella zona rossa del capoluogo abruzzese. Dopo la «protesta delle chiavi», arriva la «rivoluzione delle carriole», iniziativa pensata per togliere simbolicamente un po’ di macerie dal centro storico con pale, picconi e carriole, in segno di protesta contro il fatto che, ancora dal 6 aprile ad oggi, gran parte del materiale non è stato rimosso.

Il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente ha disposto, con una apposita ordinanza, l’ingresso nella zona rossa per la sola giornata di domani.

La manifestazione di domani, a partire dalle 10, è stata indetta dai comitati cittadini, “Io libero L’Aquila”. «A quasi un anno dal
terremoto – spiegano gli organizzatori – ancora non si sa chi, come e quando rimuoverà gli oltre 4 milioni di tonnellate di
macerie. E allora cominceremo noi, e depositeremo le macerie fuori il consiglio regionale» .

La rivolta delle carriole. Una catena umana di smistamento del materiale di scarto rimosso da piazza Palazzo, verrà allestita lungo il corso principale.

L’accesso alla piazza è consentito solo a 45 persone. Questo gruppo di persone, secondo quanto spiegano i promotori della manifestazione, lavorerà materialmente sul cumulo di macerie, operando una differenziazione sul posto, dietro indicazioni di tecnici competenti, mentre fuori dalla zona rossa, all’altezza dei Quattro cantoni, e quindi in piena sicurezza, tutti gli altri allestiranno una catena di smistamento del materiale «di scarto» proveniente da tale selezione.

Le macerie così recuperate saranno smaltite in cassonetti approntati per lo scopo, in quanto si tratta di rifiuti solidi urbani, ma una piccola parte di queste, annunciano gli organizzatori sulla piattaforma di Facebook, verrà piazzata davanti alla sede della Regione, «allo scopo di invitare le istituzioni locali ad impegnarsi per risolvere il nodo normativo che attualmente blocca la loro rimozione».

La protesta delle “mille chiavi”, il fotoracconto

da www.unita.it

«Arcus, la società per la cultura che regala le "mance" di Stato», di Carmelo Lopapa

L’INCHIESTA. Gestisce 200 milioni distribuiti a discrezione, senza controlli. All’università gregoriana un milione e mezzo di euro per il restauro dei cortili interni

ROMA – L´ultimo pacco siglato «Cultura spa» porta in dote 200 milioni di euro. L´infornata è di questi giorni e permetterà al governo una distribuzione a pioggia in favore di centinaia di associazioni, enti, teatri e fondazioni. Più che di privatizzazione della cultura, l´operazione sa tanto di mancia di Stato, giusto a un mese dal voto, per amici, boiardi e parenti importanti. Succede così dal 2004. I tre ministeri di riferimento stanziano (Beni culturali, Economia e Infrastrutture) e i beneficiari graditi incassano. È un affare gestito da pochi, con fondi pubblici e scavalcando il controllo parlamentare.

La «Cultura spa» di impronta berlusconiana – assieme ad Ales – ha il volto di Arcus, più che un volto il vero braccio operativo, il braccio lungo della spartizione. «Società per lo sviluppo dell´arte» fondata nel 2004 (sotto il precedente governo del Cavaliere) a capitale interamente sottoscritto dal ministero dell´Economia. I suoi decreti operativi vengono adottati dal ministero per i Beni culturali di Sandro Bondi, di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. Una spa a tutti gli effetti – col suo cda di sette componenti per dieci dipendenti – che, come ha avuto modo di denunciare in ripetute occasioni la Corte dei conti, si è «trasformata in un una agenzia ministeriale per il finanziamento di interventi», spesso «non ispirati a principi di imparzialità e trasparenza». La storia torna a ripetersi. Nel silenzio generale, la spa Arcus ha adottato a febbraio il piano triennale di interventi: 119 milioni per quest´anno, 43 per il prossimo, 37 e mezzo per il 2012. Totale: 200 milioni, parcellizzati in 208 interventi.

La logica appare discrezionale, se non emergenziale, in stile Protezione civile. Nel calderone, dietro il Lazio con 23 milioni di euro nel 2010, la parte del leone la fa la Toscana dei ministri Bondi e Matteoli: 21,4 milioni, rispetto per esempio agli 8,5 della Sicilia o ai 12,5 della Campania, pur ricche entrambe di siti, chiese, monumenti. Ma quali sono gli interventi strategici sui quali il ministero punterà per i prossimi tre anni? Nel capitolo «varie», intanto, 500 mila euro vengono destinati alla «partecipazione dell´Italia all´Expo di Shangai 2010».

A guidare la missione sarà Mario Resca, consigliere d´amministrazione della Mondadori, berlusconiano doc, direttore generale del dipartimento per la «valorizzazione del patrimonio culturale» al ministero. Solo coincidenze, ovvio. Come lo è il fatto che, in Veneto, Arcus finanzia con due capitoli per un totale di 600 mila euro il dipartimento di Archeologia dell´Università di Padova. Direttore è la professoressa ordinaria di Archeologia Elena Francesca Ghedini, sorella del più illustre deputato, avvocato e consigliere del premier, Niccolò. Altissime le sue referenze nel mondo culturale: dal 2008 il ministro Bondi l´ha voluta al suo fianco quale «consigliere per le aree archeologiche» e dal marzo 2009 quale membro del «Consiglio superiore per i beni culturali».

Ma di bizzarrie nelle 18 tabelle del piano se ne scovano tante. Ad Amelia, in Umbria, l´Associazione culturale società teatrale riceverà 800 mila euro, la Fondazione teatro dell´Archivolto in Liguria 450 mila euro e via elargendo.
Generoso il finanziamento di decine di interventi su immobili ecclesiastici, anche del patrimonio vaticano, dunque extraterritoriali. È il caso del «restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana» a Roma: 1 milione di euro nel 2010 e 500 mila nel 2011, sebbene lo Stato abbia già finanziato lo stesso restauro con 457.444 euro tratti dai fondi dell´8 per mille, lo scorso anno, e con 442.500 euro, nel 2007. Ma, anche qui, la lista di monasteri, campanili e basiliche beneficiati è sconfinata. Dal pozzo dei miracoli di Arcus il governo attinge per aiutare pure le amministrazioni comunali «amiche» in crisi finanziaria: 1 milione alla cultura del Comune di Roma di Gianni Alemanno, 1,5 milioni per la rassegna estiva «Kals´art» del Comune di Palermo (Diego Cammarata).

La spa del ministero tra il 2004 e il 2009 aveva già spalmato, su 300 interventi, finanziamenti pubblici per altri 250 milioni di euro. La storia non cambia. E dire che il ministro Bondi, presentando in Parlamento il suo programma, il 26 giugno 2008, annunciava l´intenzione di «restituire alla società Arcus la sua mission originaria, evitando interventi a pioggia» e promettendo di «privilegiare d´ora in poi interventi di notevole spessore».

Dalla fondazione del 2004, a gestire la spa è il direttore generale Ettore Pietrabissa, già vice all´Iri e poi all´Abi. Presidente è un vecchio andreottiano, Salvatore Italia, classe ?40, alla guida del cda composto da altri sei consiglieri. Vertice di tutto rispetto per una spa che vanta però solo 4 dipendenti distaccati dal ministero e 6 contratti a termine. Sebbene la sede legale sia in via del Collegio romano 27, nei locali del ministero, quella «operativa» si trova in via Barberini 86, in un elegante ufficio da 350 metri quadrati nel pieno centro di Roma, affittato per circa 16 mila euro al mese, 175 mila euro l´anno. Nel 2010, stipendi, sede, gettoni e quant´altro necessita al funzionamento di Arcus costeranno 2 milioni di euro.

«La spa è solo a uso e consumo dei gabinetti dei ministeri», racconta Gianfranco Cerasoli, responsabile cultura della Uil. «Un carrozzone da smantellare, che continua a finanziare beni extraterritoriali della Chiesa: le sue risorse potrebbero essere gestite dal ministero, tagliando spese che gravano inutilmente sui contribuenti». Resta il nodo dei controlli. «Arcus ha di positivo l´immediata operatività, finanzia anche opere importanti – spiega Fabio Granata, componente Pdl della commissione Cultura della Camera – tuttavia in due anni di legislatura mai un atto della spa è transitato in Parlamento».

da www.repubblica.it

«Il vecchio che torna», di Barbara Spinelli

E’scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che è, già è stato. Ciò che sarà, già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17 anni ci accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo, Miracolo, Riforma. Oppure: politica del fare, dell’efficienza. Nell’intervista a Fabio Martini, Rino Formica, ex uomo di Craxi, constata un «collasso dello Stato.

Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica cresce un disgusto senza reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti, il perpetuarsi di un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».

L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte le cose», ma: «Faccio tutte le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai iniziato. Come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere gli esordi, capire come si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.

Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in simultanea con la battaglia condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una pantera la mafia, una volpe la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima di essere ucciso. Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul marciume che torna a galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia politicizzata». Non è il marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela malaffare, il predominio dell’opaco sul trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non fidandosi più di nessun mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della Prima Repubblica: pur travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose». La sua rivoluzione, come accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per salvarlo. Il presidente della Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i giacobini e non i democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni esistono perché del popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo trascendente» che guardando lontano frena se stesso.

Quando nacquero le due battaglie ­ Mani Pulite a Milano, l’antimafia a Palermo ­ si capì che tutto in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e mafia a Sud. Le due città divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima di disperare, ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi differenze. Per alcuni è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto che allora si rubava per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica fosse un’attenuante, e non l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo strade ancor più larghe alle ruberie del tempo presente.

Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo è falso, perché l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione. Enorme fu la partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei lenzuoli, speculare a Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg cita un documento stilato in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini, il 13 giugno 1992, dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi dovrebbero leggerlo e rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici, per mostrare che l’Italia ha qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche perché ai vertici manca l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente», dice il linguaggio malavitoso.

Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano: «Ci impegniamo a educare i nostri figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci impegniamo a non adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan tutti”. Ci impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti “qualificati”. Ci impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci impegniamo a resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose…». Questo fu, ed è, il Nuovo. Anche Milano, atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento. Corrado Stajano la descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un entusiasmo liberatorio», nel febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora «si è indurita, non ha saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato tutti i partiti politici e tutti gli strati sociali (…), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha cancellato quel che è successo. O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città degli untori, Garzanti 2009).

Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi, agguerritissimo addomesticatore di istinti, creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva addirittura forgiato nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva creato addirittura una televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo miracolo italiano». Un miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e dell’entusiasmo liberatorio che minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza neanche più fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché rivalutare le istituzioni voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo fanno.

Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di continuo ma il verbo è performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è. Paradossalmente, nell’era di Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che proprio questo egli voglia, per avere un nemico esistenziale.

Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è «impresa titanica», come sostiene Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe dirigente. Forse per questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel ’92, sfiduciati e però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche questa sete, accanto al disgusto fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».

Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante delle chiavi, il direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Non è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così: uscendo dal privato delle new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.

Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio, e che a quel punto potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.

da www.lastampa.it

"Le Madame Curie del terzo millennio", di Emanuela Audisio

“Quand´ero bambina mi arrampicavo su un albero, sul ramo più vicino alle stelle Non ne sono più scesa”. In media hanno cinquant´anni, sposate e con figli Vengono da ogni angolo del pianeta (ma non dall´Italia) e sanno bene quanto ancora oggi sia difficile per una donna emergere nel mondo della scienza. Ora cinque di loro riceveranno a Parigi un premio internazionale per i risultati raggiunti Qui raccontano come ce l´hanno fatta. Vanno scovate, portate alla luce, ma ci sono. Hanno in media cinquant´anni, sono sposate (solo il cinque per cento non lo è), e l´ottanta per cento ha figli. Le Madame Curie esistono, anche nei paesi dove uno non s´immagina, a sud e a est del mondo. In Africa, in Sudamerica, in Asia. Donne dedite alla scienza, che raggiungono l´eccellenza, che s´impegnano. E che una volta l´anno vengono premiate. Non per il loro sesso, né per il loro femminismo, ma per la qualità della loro ricerca. È un riconoscimento, For Women in Science, assegnato dall´Unesco e dalla Fondazione L´Oréal e che in dodici anni ha certificato l´eccellenza e incoraggiato il talento di novecento donne: 62 laureate di 28 paesi e 864 borsiste di 93 nazionalità. E che spesso scova in anticipo i futuri premi Nobel come è capitato con l´americana Elizabeth Blackburn e l´israeliana Ada Yonath, vincitrici nel 2008, e un anno dopo Nobel per la medicina e la chimica. E che dicono: «Le donne s´interessano alla scienza, ma a parte il sostegno, avrebbero bisogno di più fiducia e di una maggior esperienza internazionale».
Anche perché un recente studio Usa del Center for American Progress mostra che le scienziate sposate con figli hanno rispetto agli uomini sposati con figli il trentacinque per cento in meno delle possibilità di ottenere una cattedra universitaria dopo il dottorato. Infatti sono state premiate anche scienziate in età da pensione: Marianne Grunberg-Manago, ottantuno anni, e Thressa Campbell Stadtman, ottanta. L´inglese, Anne McLaren, figlia di industriali illuminati, autrice della prima fecondazione in vitro, invece è morta in un incidente d´auto nel 2007, sei stagioni dopo aver avere ottenuto il riconoscimento a settantaquattro anni.
Tutte ammettono l´importanza di avere avuto una famiglia che le ha incoraggiate. La chimica africana, Tebella Nyokon, nata in Lesotho: «A giorni alterni andavo a scuola e portavo a pascolare le pecore. Mio padre, che faceva il pastore, credeva in me, anche se non capiva cosa stessi studiando. Mentre i miei coetanei sostenevano che la scienza non era roba da donna». La chimica giapponese Akiko Kobayashi: «Mia madre era insegnante di musica, mio padre fisico, il primo libro che ho letto è stata la biografia di Madame Curie». La chimica russa Eugenia Kumacheva: «Mio padre, appassionato di scienza, mi ha insegnato a fare domande e a essere curiosa». La fisica inglese Athene M. Donald: «Mia madre, che ha lasciato la scuola a quindici anni per via della guerra, voleva assolutamente che io e mia sorella potessimo frequentare l´università». La fisica giapponese Fumiko Yonezawa: «Mia madre era bravissima in geometria e avrebbe voluto fare l´università, ma allora le donne non erano ammesse e se anche lo fosse stata, mio nonno glielo avrebbe impedito per paura che poi non trovasse un marito. Già da piccola tormentavo tutti con le domande: perché la luna non ci casca addosso, qual è la stella più lontana, dove finisce l´universo?».
Nella storia del premio colpisce l´assenza dell´Italia, che non ha nessuna segnalazione, eppure vanta un premio Nobel come Rita Levi Montalcini. Giovedì a Parigi cinque professoresse ritireranno il premio. Le Madame Curie del mondo quest´anno sono: l´egiziana Rashika El Ridi, l´americana Elaine Fuchs, la messicana Alejandra Bravo, la filippina Lourdes C. Cruz, la francese Anne Dejean-Assemat. L´egiziana El Ridi lavora da tempo a un vaccino contro la bilharziosi, una malattia parassitaria tropicale detta anche la “febbre della lumaca” che colpisce più di duecento milioni di persone nel mondo e causa duecentottantamila decessi l´anno, soprattutto tra i bambini. È una malattia infettiva, devastante quanto la malaria, che si prende bagnandosi o bevendo acqua inquinata dal parassita, presente soprattutto nell´Africa subsahariana. Rashika ottiene il dottorato all´Accademia delle scienze di Praga nel ´75, per cinque anni insegna all´università del Cairo dove nell´86 diventa titolare. Ora è professoressa d´immunologia nel dipartimento di zoologia, alla facoltà di scienze. Spiega: «Mi turba sapere che l´uomo è pronto a sbarcare su Marte, ma è incapace di sviluppare un vaccino contro i virus tropicali. Spero di farcela tra cinque anni. Una donna non ha molte scelte, per lei è più difficile mantenere in equilibrio figli, famiglia e lavoro, ma dobbiamo comprensione anche a chi sta accanto a noi».
L´americana Elaine Fuchs è stata scelta per la sua ricerca sulle staminali nel trattamento delle malattie della pelle. Si diploma in Illinois nel ´72, nel ´77 dottorato a Princeton e al Mit, dal 2002 è all´università Rockefeller di New York, dove dirige il laboratorio di biologia cellulare dei mammiferi. Sostiene che sono state le donne della sua famiglia a indirizzarla verso la scienza. «Mia zia è biologa e femminista, mia sorella è neuroscienzata, mia madre pensava potessi riuscire nella chimica, ma io mi vedevo istitutrice». La sua prima sfida è stata sullo stipendio. Professoressa titolare all´università di Chicago scopre che guadagna meno di un neo maestro-conferenziere. «Mi sono detta: non posso accettarlo, fate in modo di rimediare. La differenza tra i sessi nella scienza ancora esiste. Le donne sono meno rappresentate a livello di responsabilità e non possono mettere in luce le loro qualità».
La messicana Alejandra Bravo, biologa, si è segnalata per la comprensione del meccanismo d´azione di una tossina batterica che agisce come insetticida eco-compatibile. Un´alternativa verde ai pesticidi. In Messico da ricercatrice non aveva né laboratorio né strumenti, allora è andata all´estero. Dottorato in biochimica nell´89, nel ´91 si trasferisce con una borsa di studio in Belgio in un´azienda leader del settore, e poi all´istituto Pasteur di Parigi. Tornata in Messico, spalleggiata da un´équipe determinata, crea un laboratorio con una collezione di batteri Bt (Bacillus thuringiensis) estratti da un campione sul territorio. Ora lavora al dipartimento di microbiologia molecolare Unam all´istituto di Cuernavaca. Le sue parole d´ordine: «Ordine, disciplina, perseveranza».
La filippina Lourdes J. Cruz viene premiata per la scoperta dei peptidi neurotossici, per il suo studio sui molluschi marini che vivono degli oceani tropicali, il cui veleno (per immobilizzare le prede) serve da antidolorifico, in alternativa alla morfina, e da agente farmacologico per curare epilessia e altre malattie neurologiche. Dottorato in Iowa (Usa), lavora presso una ong del suo paese, è preside dall´80 all´86 del dipartimento di biochimica e biologia molecolare delle Filippine e ora è all´università dell´istituto di scienze marine a Quezon. Nel 2001 ha fondato con donazioni private un´associazione (Rural Linc) per debellare la povertà nelle zone contadine del suo paese. Spiega che ne ha sentito il bisogno. «Ad un certo punto mi sono chiesta: io mi sono data alla scienza, ma cosa ho fatto per aiutare i miei concittadini? Nelle nostre campagne ci sono ancora molte tribù che vivono di pesca e di agricoltura, ma con un equilibrio sociale molto instabile».
La francese Anne Dejean-Assemat si segnala per lo studio dei meccanismi molecolari e cellulari all´origine di alcuni tumori. Anne è riuscita a capire i nuovi fattori per cui una cellula malata comincia a moltiplicarsi in maniera incontrollata. È stata la prima a dimostrare che il virus dell´epatite B può avere una relazione diretta con l´insorgere del tumore al fegato. E questo ha portato a nuovi protocolli di cura. Si laurea all´università Pierre e Marie Curie di Parigi dove consegue il dottorato nell´83. Due anni più tardi è all´Inserm (Istituto nazionale francese della salute e ricerca medica) dove nel ´91 è nominata direttrice. Dal 2003 dirige il laboratorio d´organizzazione nucleare di oncologia dell´istituto Pasteur di Parigi e l´Unità 579 dell´Inserm. «Devo tutto ai miei genitori. A mia madre, professoressa di matematica e militante dei diritti delle donne in un consultorio, a mio padre, ingegnere impegnato in un´associazione locale in difesa dell´ambiente. Mi hanno insegnato l´indipendenza, la porta di casa era sempre aperta, le discussioni erano animate, questo mi ha dato coraggio e mi ha aiutato a costruire un forte senso critico, anzi autocritico. Anche se i miei genitori non ci sono più, resta l´educazione che mi hanno dato. Ci vogliono tre cose per fare questo mestiere: stima per il proprio lavoro, sapere che saremo oggetto della valutazione degli altri, accettazione della competizione internazionale, che ci fa pensare che forse gli altri non ne sanno quanto noi, per cui meglio continuare a darci dentro. La corsa al consumo e al risultato è pericolosa, bisogna ritrovare gli ideali e non disperdere la ricerca».
Ha detto un´altra premiata, l´astrofisica brasiliana Beatriz Barbuy: «Quando ero bambina mi arrampicavo su un albero di prugne gialle, sul ramo più alto e più vicino alle stelle. In un certo senso non ne sono più scesa, anche perché mio padre ha sempre insistito che avrei dovuto lavorare per non dipendere da altri». Così, piccole scienziate crescono.

La Repubblica 28.02.10

"Scuole, sciopero a staffetta contro la riforma", di Sara Grattoggi

Scatterà il 13 marzo – il giorno dopo lo sciopero generale della scuola indetto dalla Flc-Cgil e della manifestazione nazionale organizzata dai Cobas a Roma – la mobilitazione coordinata degli istituti della Capitale contro i tagli all´istruzione e le riforme targate Gelmini. Ventidue tra elementari, medie e superiori romane si daranno il cambio, giorno dopo giorno, nel presidiare il ministero dell´Istruzione con cartelli, striscioni e un pupazzo di cartapesta, vecchio, malandato, con toppe e strappi nei vestiti, che rappresenterà simbolicamente l´attuale situazione della scuola pubblica italiana. Sempre a staffetta, gli istituti interromperanno l´attività didattica per un giorno e organizzeranno, al posto delle normali lezioni, un´assemblea aperta con genitori, studenti, docenti e altri lavoratori delle scuole per approfondire gli aspetti più controversi della riforma, dal taglio delle ore in classe a quello degli organici.

«Abbiamo preso spunto dall´occupazione dei tetti organizzata dai lavoratori di molte aziende in crisi – spiega Carla Spaziani, del Coordinamento delle scuole secondarie di Roma – e non ci fermeremo finché non otterremo l´impegno dello Stato a pagare i debiti contratti con gli istituti, il ritiro e la revisione della riforma della scuola del primo ciclo e del riordino della secondaria, il blocco dei tagli previsti dalla Finanziaria 2008 per il triennio 2008-2011 e la nomina in ruolo dei precari su tutti i posti vacanti». Ma, tra le iniziative proposte dai rappresentanti dei consigli d´istituto, di circolo e dei comitati genitori che si sono riuniti venerdì al liceo Cavour, c´è anche il boicottaggio del contributo volontario chiesto alle famiglie al momento dell´iscrizione. «Siamo consapevoli di quanto le scuole ne abbiano realmente bisogno in questo momento, ma non vogliamo che diventi una risorsa sostitutiva del mancato finanziamento statale – continua Spaziani – quindi ci riserviamo di concordare la decisione con i vari comitati dei genitori».

Tra gli istituti che finora hanno aderito al Coordinamento unitario permanente che promuoverà le iniziative, i licei Talete, Mamiani, Socrate, Pasteur, De Chirico, Kant, Avogadro, Cavour, Russell, Manin, Colonna e Primo Levi, gli istituti comprensivi Guicciardini, Viale Adriatico, Antonio De Curtis, Aristide Leonori e Regina Margherita, le medie San Benedetto, Toniolo e Rugantino, i circoli didattici Crispi e Valitutti. Il prossimo 10 aprile, poi, le scuole organizzeranno – su proposta del circolo didattico Principe di Piemonte, che nei giorni scorsi ha occupato le due scuole elementari di largo Leonardo da Vinci e di via Ostiense – un nuovo “No Gelmini Day”, con una manifestazione cittadina.
La Repubblica-Roma 28.02.10

******

“Tagli alla scuola, presidi in trincea”, di Felice Paduano
Tagli alla scuola, si muovono i presidi. Erano proprio i dirigenti scolastici a essere in prima fila venerdì sera nell’assemblea organizzata dalla loro Consulta all’auditorium Modigliani. C’erano Daria Zangirolami (Tito Livio), Blandina Santojanni (Severi), Luisa Molino (Selvatico), Roberto Borile (Modigliani). Luciano Arianna (Bernardi) ed Albina Aurora Scala (Einaudi). Al loro fianco anche tanti altri segretari amministrativi, docenti, sindaci e rappresentanti dei genitori. Una nuova ed efficace mobilitazione unitaria che raccoglie la protesta degli addetti ai lavori contro la politica economica di un governo, che sembra voglia minare alle radici la qualità della scuola pubblica.
Come previsto le relazioni introduttive sono state due. Prima ha parlato Giulio Pavanini, presidente della Consulta e, subito dopo, Giancarlo Pretto, preside della scuola media di Albignasego. «Solo noi della Consulta, che rappresentiamo il 50% dei dirigenti padovani, rivendichiamo crediti dallo Stato per 5 milioni di euro – ha detto il preside dello Scalcerle – Possiamo presupporre, quindi, che tutte le scuole della città e della provincia siano in credito per circa 10 milioni. La situazione finanziaria diventa più pesante ogni giorno che passa. Non ci sono soldi né per pagare le supplenze e né per garantire la gestione ordinaria. Nei nostri istituti si naviga a vista. Per contrastare le decisioni del governo diventa fondamentale la mobilitazione unitaria di tutti gli addetti ai lavori». Il preside Pretto ha elencato i disagi che gli studenti devono sopportare ogni volta che si ammala un docente perché devono spostarsi, sempre più spesso, da una classe all’altra.
Tra i tanti interventi dei presenti anche quelli del docente di lettere del Calvi Alessandro Naccarato (che è anche deputato), dell’assessore Claudio Piron, del preside-sindaco di Curtarolo Marcello Costa. «I tagli del governo diventano sempre più pesanti – ha osservato Naccarato – E’ stata ridotta del 25% anche la spesa per le pulizie e la vigilanza delle scuole. In pratica rischia di saltare l’autonomia gestionale e finanziaria di ogni singola scuola». Durissimo l’affondo del professore Carlo Salmaso. «Noi dei Cobas lo avevamo previsto già un anno fa quando raccogliemmo 8 mila firme a sostegno della scuola primaria pubblica. I presidi si stanno muovendo in ritardo. Comunque ben venga questa presa di coscienza».
II Mattino di Padova 28.02.10