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"Quella strana sinistra che dice cose di destra", di Luigi Manconi

Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pier Luigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.
Quand’ero piccino e movimentista e scostumato, fui tra coloro che, in una contrapposizione assai aspra col Pci, ricevettero da quel partito l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Fu un’esperienza bruciante all’interno di una polemica politica condotta fino alle estreme conseguenze, da una parte e dall’altra. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto. E tuttavia la nostra contestazione nei confronti della politica del Pci, e la rappresaglia verbale che produceva, pure durissima, risultava comunque “interna” allo stesso campo.
La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel nelle sue espressioni più mature, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come, le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Un episodio, cioè, del classico scontro tra estremismo e riformismo. Oggi il quadro mi sembra totalmente diverso. Se dunque capisco la ferita politica che quel termine produce, e personalmente fatico a usarlo nei confronti di altri, sono tentato di ricorrervi nell’analisi di quel linguaggio scellerato e dalla mentalità da cui deriva.
Il florilegio di aggettivi e sostantivi e di formule e di frasi che Grillo e Antonio Di Pietro, molti protagonisti e una moltitudine di anonimi del web offrono quotidianamente, ne è testimonianza incontrovertibile. Non tutti, indubbiamente, ricorrono alla medesima prosa, ma il leader dell’Italia dei Valori e quello di 5 Stelle, su un tema cruciale come quello dell’immigrazione – ed è solo un esempio hanno detto cose da fare rizzare i capelli in testa.
Ma la questione è più profonda ancora: di ispirazione fascistica è una certa struttura mentale che quel linguaggio, nelle sue espressioni aggressive e nei suoi accenti di disprezzo e odio, rivela. E tuttavia sarebbe assai ingiusto affastellare la varietà di forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra.
Sotto questa luce, il caso più interessante è rappresentato da Il Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Antonio Padellaro, già direttore de l’Unità, è uomo limpidamente di sinistra per storia e cultura. Di sinistra, d’altro canto, sono numerosi redattori e di sinistra è una parte significativa dei lettori. Tuttavia ciò che emerge nitidamente è che l’egemonia culturale che orienta il quotidiano e la sua immagine, i suoi titoli e i suoi messaggi, è di destra. E qui, per evitare equivoci, chiamo destra l’insieme di connotati culturali e politici che definiscono, da due secoli a questa parte, uno dei due campi in cui si divide il sistema politico. Anche a voler essere prudenti, il minimo che si possa dire è che, in ogni caso, l’egemonia culturale che orienta Il Fatto non è di sinistra.
So bene che, a questo punto, sembra impossibile sottrarsi all’eterno quesito su cosa sia destra e cosa sia sinistra, ma – appunto per questo – preferisco esprimermi in negativo, indicando ciò che certamente “non è di sinistra”.
PENSIERI E PAROLE
E prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Il Fatto del 5 aprile scorso: «In un Paese di ladri». Sembra un titolo come tanti, ma è invece straordinariamente significativo del ragionamento che qui intendo fare. Innanzitutto perché la sacrosanta lotta alla corruzione diventa, con quelle cinque parole, non solo il punto di vista del quotidiano, ma anche qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Come si fa, infatti, a definire l’Italia, ma anche solo il suo sistema politico e istituzionale come un universo di mascalzoni?
Qui non si esprime solo il qualunquismo che fa di tutta l’erba un fascio, che azzera le differenze, che livella le biografie individuali e le storie collettive; qui si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, dove non c’è spazio alcuno, non dico per l’onestà dei singoli, ma nemmeno per la libera esistenza dei singoli stessi, per le loro soggettività e le loro esperienze.
C’è un blocco unico, che annulla le persone e l’autonomia individuale e la capacità di autodeterminazione e i percorsi di emancipazione collettiva. Siamo di fronte o all’idea di un’unica e sola e omogenea struttura dispotica – e va dimostrato che l’Italia attuale sia questo – o alla proiezione paranoide di una concezione autoritaria e disperata della vita sociale. In entrambi i casi, simili letture della società italiana contemporanea nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra: di qualunque sinistra.
La ragione è semplice: in quella rappresentazione, cupa e irredimibile, risulta azzerata – o affievolita fino al punto di non potersi cogliere – qualunque polarità che si richiami al conflitto tra destra e sinistra: uguaglianza/gerarchia; giustizia/ingiustizia; individuo/Stato; libertà/autorità. In luogo di queste coppie di concetti, vengono esaltate altre polarità: giovani/vecchi; legalità/illegalità; popolo/élites; antipolitica/politica. Si tratta di polarità tutte legittime, spesso motivate e comunque assai sentite, ma che rimandano a un campo diverso da quello della sinistra nelle sue molte articolazioni storiche e nelle sue differenti espressioni culturali. E che risalgono, tutte, agli ultimi due decenni, e a quella Seconda Repubblica che, appunto, avrebbe fatto evaporare il discrimine tra destra e sinistra.
Trovo questa lettura fallace, e per più ragioni. In primo luogo perché il tramonto della Seconda Repubblica e la crisi economico-finanziaria ripropongono con forza un conflitto tra due campi e due culture che, comunque rinnovati e persino qualunque nome assumano, rimandano sempre alla Destra e alla Sinistra. Come, per altro, accade in tutti i Paesi europei.
Ma non è solo la necessità di misurarsi su un tema, quello del lavoro, che inevitabilmente richiama le antiche categorie, a motivare la definizione “di destra” per l’agitazione populista e demagogica in corso.
Si pensi alla questione del giustizialismo: quel titolo prima citato («In un Paese di ladri») è il punto di arrivo di un’intera concezione. Se tutta la vita sociale viene vista attraverso l’ottica della fattispecie penale – il furto, la corruzione – è inevitabile che questa si porti appresso
tutte le carabattole di tic e arnesi, di pensieri e di invettive conseguenti.
Se viviamo «in un Paese di ladri», è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: «in galera». Ed è conseguente, ancora, che la preoccupazione di una presunta “difesa sociale” prevalga sempre sulla tutela dei diritti individuali. E che il programma politico della sinistra debba essere quello del “populismo giudiziario”, dove i pubblici ministeri diventano i leader della mobilitazione emotivo-moralistica e i cronisti giudiziari assumono il ruolo di autorevoli opinion leader.
Ma gli effetti possono essere ancora più devastanti: si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali. Attraverso il buco della serratura si guarda la vita: e, dunque, attraverso lo spioncino della cella si crede di conoscere “la vera natura” della persona – comunque colpevole e reclusa – e non, invece, l’intollerabile sofferenza della perdita di libertà e dignità.
Ne deriva inevitabilmente che la grande questione dei diritti umani e delle garanzie individuali – questa sì propria di una sinistra di alto profilo politico e morale – risulti totalmente ignorata. Così come, a quello sguardo dal buco della serratura e dallo spioncino della cella, sfuggono altre decisive questioni: il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile.
Vale anche per tutte le altre crisi industriali: è il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia e degli operai in carne e ossa, ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via. Il giustizialismo, in questa visione tetra e nevrotica, non è solo una torsione nell’amministrazione della giustizia: è una patologia della politica.
L’Unità 07.09.12