Draghi ha vinto la battaglia di Francoforte. Il via libera della Bce allo scudo anti-spread è un passo avanti verso il salvataggio della moneta unica. Non era affatto scontato che il banchiere italiano riuscisse a convincere 16 governatori su 17, più i 5 membri del board, a votare sì al nuovo piano di acquisto di bond degli Stati più esposti sul differenziale tra i tassi d’interesse. La vittoria ha un alto costo economico: per i Paesi che busseranno all’Eurotower, il pasto non sarà gratis. Ma fa emergere soprattutto un altissimo deficit politico: per quanto importante, nessuna supplenza dei tecnocrati potrà colmare la «vacanza» dei
governanti di Eurolandia. Il compito del presidente era arduo. Uscire dal Consiglio direttivo con una decisione formale, e non con un impegno generico, era ai limiti del temerario. Le pressioni di chi chiedeva tempo erano fortissime: perché non aspettare la pronuncia della Corte di Karlsruhe sulla legittimità costituzionale dei fondi salva-Stati, prevista per il 12 settembre? Le tensioni tedesche dell’establishment e dell’opinione pubblica erano insostenibili: perché cedere ancora all’azzardo morale preteso dai Piigs, i “maiali” dell’eurozona? La contesa intorno al nuovo firewall della Banca centrale stava, e purtroppo sta tuttora, assumendo i contorni di uno “scontro di civiltà”.
La vulgata più retriva, disgraziatamente dominante in queste settimane di campagne elettorali incrociate, era la seguente. I tedeschi hanno accettato la moneta unica puntando alla germanizzazione del Club Med. Se ora passa lo scudo anti-spread, si ritroveranno a fare i conti con l’italianizzazione dell’Europa. “Lira-zation”, è il termine che non a caso orbita da giorni nel circuito politico-mediatico europeo. Come se le decisioni di Draghi prefigurassero un clamoroso sovvertimento degli equilibri dell’Unione. Portando la Bce a rinnegare la luterana “cultura della stabilità”, e ad introiettare la cattolica “cultura della liretta”. Sancendo una sorta di egemonia culturale dei “latinos” sui “teutoni”. Se si guarda alla storia del Novecento, dalla crisi di Weimar in poi, i tedeschi hanno qualche ragione di temere per se stessi. Se si guarda al passato più recente, hanno anche qualche ragione di diffidare degli altri.
Ma la deriva anti-europea di queste ultime settimane stava diventando francamente inquietante. Draghi è riuscito a spezzare questa cappa di conformismo populista, che con motivazioni uguali e contrarie si insinua nelle capitali del Continente. È riuscito a reggere alle pesanti interferenze tedesche, creando consenso intorno al suo Monetary Outright Transactions. È riuscito a conquistare il sostegno discreto della cancelliera Merkel, che in pubblico bastona per tranquillizzare i suoi elettori, ma in privato ragiona perché riconosce i vantaggi dell’euro. È riuscito a isolare, mettendolo in minoranza assoluta nel board, il falco della Bundesbank Weidmann, costretto ad un irrituale comunicato in cui conferma i suoi giudizi negativi sullo scudo e rinfocola i suoi pregiudizi corrivi nei confronti dei “mediterranei”.
La cura predisposta dalla Bce può fermare l’emorragia degli spread. Insieme alle risorse già assegnate al fondo salva-Stati Efsf, la “massa critica” degli interventi possibili, tra mercato primario e secondario, supera di gran lunga i 1.600 miliardi di euro. Gli acquisti “senza limiti fissati ex ante” di titoli di Stato sono una difesa potente, anche sul piano psicologico, che può disarmare la grande speculazione internazionale. La rinuncia alla “seniority” della Banca centrale, che cessa di considerarsi “creditore privilegiato”, può aiutare a rassicurare gli operatori. Ma quello che conta, e che Draghi sembra sperare, è soprattutto l’effetto deterrenza di questo ennesimo “muro di fuoco” che la Bce alza a difesa dell’euro. L’auspicio è che basti l’annuncio a piegare gli spread e a scongiurare la necessità che gli Stati più esposti siano costretti a chiedere l’aiuto dell’Eurotower e dell’Efsf. La reazione entusiasta dei mercati sembra alimentare la speranza. Ma la paura rimane. Per due ragioni essenziali.
La prima ragione è che Draghi, pur vincendo la battaglia, ha dovuto comunque concedere qualcosa alla Bundesbank. E quel “qualcosa” costa caro ai Paesi che avranno bisogno dell’intervento della Bce: le nuove «condizionalità» alle quali saranno sottoposti sono più «severe e stringenti» di quelle immaginate dai governi al Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso. Agli Stati sussidiati saranno richieste «misure correttive» ulteriori e da concordare con la Troika. Questo vale per la Spagna di Rajoy, che potrebbe essere il primo ad andare a Francoforte con il cappello in mano. Ma può valere anche per l’Italia di Monti, che farà di tutto per evitarlo, ma che se lo facesse ipotecherebbe l’azione di qualunque governo successivo al suo dopo il voto della primavera del 2013. Un maleficio per chi vincerà le elezioni, che tuttavia potrebbe rivelarsi un beneficio per il Paese.
La seconda ragione è che Draghi, pur mettendo un’altra piccola ma solida pietra nel muro della costruzione europea, non può fare a lungo un mestiere che non gli compete. Era già accaduto con i primi Smp (gli acquisti di bond dell’estate scorsa), e poi con gli Ltro (le maxi-iniezioni di liquidità per le banche). Utili a tamponare, a “comprare tempo”, ma non certo risolutivi. Per quanti “attrezzi” la Bce possa mettere in campo, il cantiere di Eurolandia va avanti e si completa solo se la politica riempie come deve i vuoti che la tecnica non può colmare. L’agenda europea delle prossime settimane è densa di appuntamenti. I governi hanno il dovere di onorarli. Le tecnocrazie, per quanto esecrate, restano finora il solo driver funzionante dell’Unione. Non possono continuare a sostituire le democrazie.
La Repubblica 07.09.12
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Napolitano: «Partiti in crisi, più spazio ai giovani. Rafforzare le norme anticorruzione», di Marzio Breda
Chi, magari condizionato dal clima pre elettorale, si concentra unicamente sui temi italiani, rischia di cogliere solo i richiami ai partiti «in crisi». Che Giorgio Napolitano descrive con molta severità. Cioè «sempre meno autorevoli», penalizzati da «un pesante impoverimento ideale», a rischio di «uno scivolamento verso forme di degenerazione morale», foglie al vento davanti alle diverse «pulsioni populiste». Partiti ai quali chiede di cambiare con «più democrazia e meno corruzione» e di uscire da «logiche di mera gestione del potere». Mentre al rinnovamento del Paese «possono contribuire» (e, detto da lui, sembra una piccola svolta) «nuove forme di comunicazione e partecipazione politica». Vale a dire il web, la rete, su cui Grillo — come pure, in Germania, i «piraten» — ha riunito il suo popolo. Può servire, quello strumento, purché «vi si ricorra in modo responsabile e trasparente».
Chi invece va oltre la tentazione (peraltro quasi imposta dalla deriva attuale) di considerare il cortile di casa come l’ombelico del mondo, trova nella «lezione» che il presidente della Repubblica ha tenuto ieri a Mestre una visione larga e anticipatrice, tale da costringerci tutti a guardare più lontano. All’Europa. È questo, per lui, l’orizzonte cui le classi dirigenti devono pensare, uscendo dal vizio di una pericolosa miopia. Questa «la missione» in primo luogo dei partiti, che vorrebbe si impegnassero in una «controffensiva europeista». Così da diventare essi stessi «europeizzati» e quindi in grado di incidere efficacemente nel processo di un’indispensabile costruzione politica dell’Ue, ormai «non più un tabù».
Nel suo ragionamento tutto parte dai ripetuti collassi dell’economia, che hanno messo a nudo le contraddizioni antiche e recenti del nostro sistema. «La politica è in affanno, la politica naviga a vista», avverte entrando subito in tema il capo dello Stato, rivolto alla platea del teatro Toniolo (convocata dalla fondazione intestata a un suo amico scomparso, Gianni Pellicani). È una questione non soltanto italiana, puntualizza. Se non altro perché «le nuove mappe della politica non possono non abbracciare l’Europa nel suo insieme». Ed ecco che, nella densa ricostruzione del presidente, la crisi fa riaffiorare un po’ ovunque scetticismi, smanie disgregatrici e pretese di autosufficienza. Al punto che proprio l’Ue viene indicata da più parti come la discarica di tutti i mali, «il problema», tanto da far reagire larghe fasce dell’opinione pubblica con «profondo disorientamento, con il diffondersi di posizioni di rigetto dell’euro e dell’integrazione europea». Senza che si valuti come la prospettiva di tornare indietro «sarebbe catastrofica, un regredire nel cammino degli ultimi sessant’anni».
Ora, in un simile scenario l’Italia si trova esposta a maggiori rischi di quanto non capiti ad altri Paesi. Diciamo pure doppiamente in crisi, se si valutano anche gli effetti da democrazia malata su cui ci ha bloccati la nostra transizione infinita. E tra gli attori che dovrebbero svolgere un ruolo decisivo in questo passaggio, tra i partiti, Napolitano si chiede «quanto si è guidato e quanto invece si è seguìto… seguìto l’onda degli umori, delle paure, degli interessi particolari, delle tentazioni populiste e nazionalistiche». Per il presidente, insomma, la loro responsabilità maggiore sta nell’incapacità di proporre linee guida e progetti, nell’assenza d’iniziativa — «anche pedagogica» — ciò che si è alla fine tradotto in un drammatico deficit di responsabilità. Di qui «un fattore tra i più gravi di ripiegamento, di immeschinimento, di perdita di autorità della politica».
I partiti, incalza il capo dello Stato, «hanno certamente, e non solo da noi, pagato il prezzo di un impoverimento ideale, come di arroccamenti burocratici, di un infiacchimento della loro vita democratica… e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale». Questa la denuncia, durissima. A partire dalla quale Napolitano elenca alcune richieste. Che è «indispensabile» evadere. «Si dovrà lavorare qui, da noi — e con successo, mi auguro — alla regolamentazione in senso democratico dei partiti secondo l’articolo 49 della Carta, alla revisione del sistema di finanziamento dell’attività politica, al rafforzamento delle normative anticorruzione». Di questo «abbiamo senza dubbio bisogno, perché non può esserci democrazia funzionante o istituzioni rappresentative validamente operanti senza il canale dei partiti politici». L’alternativa è «la demonizzazione dei partiti, il deserto dei partiti». Ma questo, per lui, non porta ad alcuna «nuova e vitale democrazia».
Chiaro che ogni «rinnovamento» della politica dovrà nascere da uno sforzo congiunto maturato anche a livello europeo. «Abbiamo bisogno di partiti veramente europei, sintonizzati e organizzati su scala continentale», prosegue il presidente. Il quale aggiunge un obliquo messaggio a quegli arruffapopoli che, sull’onda emotiva provocata dalla crisi, fomentano un generale cupio dissolvi. «Rischiano la marginalizzazione e l’irrilevanza quei gruppi e movimenti politici che, in qualsiasi Paese dell’Unione, si rinchiudano in una logica esclusivamente protestataria, preoccupati soltanto di chiamarsi fuori dall’assunzione di comuni responsabilità europee… Vediamo bene questo fenomeno oggi in Italia».
Fin qui la diagnosi di Napolitano, letta soprattutto in chiave interna. Il resto della densa «lezione» (22 cartelle) si focalizza sull’Europa, che conosce bene se non altro per i suoi due mandati a Bruxelles. L’Unione va difesa, dice, rilanciando — anche con una diversa comunicazione ai cittadini — le ragioni ideali che l’hanno tenuta a battesimo. E mettendo in cantiere in tempi stretti una serie di riforme istituzionali. Ad esempio attraverso una «procedura elettorale uniforme» che entri in vigore già nel voto del 2014, «con lo scambio di candidature e la presentazione di capilista unici tra Paese e Paese». O attraverso «l’identificazione tra la figura del presidente del Consiglio europeo e il presidente della commissione, affidandone in prospettiva la scelta agli elettori». Serve, in definitiva, «una controffensiva europeista» che punti a «un’ampia partecipazione di forze giovani, oggi distanti dalla politica in Italia e non solo in Italia». Quella generazione che, scuote la testa dimostrando il suo assillo di sempre, «è il problema più grave che abbiamo».
Il Corriere della Sera 07.06.12
"Nel Pd il vero confronto deve essere sul programma", di Leonardo Domenici
La crisi non è finita e non finirà tanto presto. Da finanziaria è divenuta economica e sarà sempre di più sociale. La crisi è più difficile da gestire in Europa, perché qui le istituzioni sono frammentate e incompiute e la politica, almeno in alcuni Paesi, è più debole e priva di visione strategica. Questo, molto sommariamente, è il contesto in cui ci troviamo. In Italia, per affrontare questa situazione, aggravata dalla degenerazione del berlusconismo, si è fatto ricorso a un «governo tecnico», che, aldilà dei meriti e demeriti, mi pare abbastanza evidente che abbia perso il suo impeto originario. L’interpretazione che, dopo la parentesi «tecnica», torna la «politica» è ormai svuotata di contenuto, per il semplice fatto che i problemi sono ancora tutti lì sul tavolo e, anzi, altri se ne aggiungono. È molto probabile che non potesse essere diversamente, ma comunque di tutto questo bisogna tener conto, perché la contesa in vista delle prossime elezioni non si svolge in condizioni di presunta ritrovata normalità. In questo quadro, l’idea che l’iniziativa politica del principale partito italiano, candidato a guidare il Paese, e della non ancora ben definita coalizione di centro-sinistra ruoti attorno allo svolgimento di elezioni primarie per la scelta del candidato premier, appare incongrua e sono molto scettico sul fatto che la campagna precedente tali elezioni darebbe un significativo contributo in termini di proposte politiche e contenuti programmatici. Personalmente ritengo che bisognerebbe tornare a fare politica nel senso più ampio e pieno del termine.
Ciò che penso è questo: Pier Luigi Bersani dovrebbe azzerare la questione della candidatura alla Presidenza del Consiglio, togliendosi dalla mischia e recuperando un ruolo centrale di regia politica per progettare il futuro del nostro Paese e dell’Europa. La priorità dovrebbe essere data al lavoro di messa a punto di un programma fondamentale pluriennale per l’uscita dalla crisi, alla definizione del perimetro dell’alleanza politica che avrebbe il compito di sostenerlo e, infine, alla individuazione di un nome o di una ristretta rosa di nomi per presiedere il governo, scegliendo una procedura originale e condivisa.
Per avviare questo processo, si potrebbe cominciare ad aprire un tavolo di confronto preliminare, pubblico, trasparente e ad ampio spettro politico, con la sola discriminante della esclusione della destra berlusconiana. Obiettivo: dare all’Italia un governo per le riforme solido e duraturo, con un’ampia base parlamentare e un patto di legislatura chiaro, volto a coinvolgere le forze sociali e le più qualificate personalità del Paese.
Un governo di rigenerazione democratica. È chiaro che una simile strategia è passibile di insuccesso: nel rischiare è sempre contemplato il fallimento, ma il punto è ciò che rimane dopo. In questo caso, se tutto ciò non andasse a buon fine, ciascuno riprenderebbe la sua autonoma iniziativa, ma il Pd e il suo segretario avrebbero dato un segnale di responsabilità politica al Paese, che potrebbe dare forza e portare consenso.
da Europa Quotidiano 06.09.12
"Nel Pd il vero confronto deve essere sul programma", di Leonardo Domenici
La crisi non è finita e non finirà tanto presto. Da finanziaria è divenuta economica e sarà sempre di più sociale. La crisi è più difficile da gestire in Europa, perché qui le istituzioni sono frammentate e incompiute e la politica, almeno in alcuni Paesi, è più debole e priva di visione strategica. Questo, molto sommariamente, è il contesto in cui ci troviamo. In Italia, per affrontare questa situazione, aggravata dalla degenerazione del berlusconismo, si è fatto ricorso a un «governo tecnico», che, aldilà dei meriti e demeriti, mi pare abbastanza evidente che abbia perso il suo impeto originario. L’interpretazione che, dopo la parentesi «tecnica», torna la «politica» è ormai svuotata di contenuto, per il semplice fatto che i problemi sono ancora tutti lì sul tavolo e, anzi, altri se ne aggiungono. È molto probabile che non potesse essere diversamente, ma comunque di tutto questo bisogna tener conto, perché la contesa in vista delle prossime elezioni non si svolge in condizioni di presunta ritrovata normalità. In questo quadro, l’idea che l’iniziativa politica del principale partito italiano, candidato a guidare il Paese, e della non ancora ben definita coalizione di centro-sinistra ruoti attorno allo svolgimento di elezioni primarie per la scelta del candidato premier, appare incongrua e sono molto scettico sul fatto che la campagna precedente tali elezioni darebbe un significativo contributo in termini di proposte politiche e contenuti programmatici. Personalmente ritengo che bisognerebbe tornare a fare politica nel senso più ampio e pieno del termine.
Ciò che penso è questo: Pier Luigi Bersani dovrebbe azzerare la questione della candidatura alla Presidenza del Consiglio, togliendosi dalla mischia e recuperando un ruolo centrale di regia politica per progettare il futuro del nostro Paese e dell’Europa. La priorità dovrebbe essere data al lavoro di messa a punto di un programma fondamentale pluriennale per l’uscita dalla crisi, alla definizione del perimetro dell’alleanza politica che avrebbe il compito di sostenerlo e, infine, alla individuazione di un nome o di una ristretta rosa di nomi per presiedere il governo, scegliendo una procedura originale e condivisa.
Per avviare questo processo, si potrebbe cominciare ad aprire un tavolo di confronto preliminare, pubblico, trasparente e ad ampio spettro politico, con la sola discriminante della esclusione della destra berlusconiana. Obiettivo: dare all’Italia un governo per le riforme solido e duraturo, con un’ampia base parlamentare e un patto di legislatura chiaro, volto a coinvolgere le forze sociali e le più qualificate personalità del Paese.
Un governo di rigenerazione democratica. È chiaro che una simile strategia è passibile di insuccesso: nel rischiare è sempre contemplato il fallimento, ma il punto è ciò che rimane dopo. In questo caso, se tutto ciò non andasse a buon fine, ciascuno riprenderebbe la sua autonoma iniziativa, ma il Pd e il suo segretario avrebbero dato un segnale di responsabilità politica al Paese, che potrebbe dare forza e portare consenso.
da Europa Quotidiano 06.09.12
"Imu-Chiesa, il governo prova ad accelerare", di Valentina Conte
Anche la Chiesa pagherà l’Imu, senza alcuna proroga né ripensamento, a partire dal prossimo anno. La conferma arriva in serata dal ministero dell’Economia. «Tutti gli adempimenti previsti per il 2013 non subiranno alcun ritardo», si legge nella nota. A cominciare dal «primo versamento Imu fissato per il 16 giugno». Un altro modo per dire che il decreto ministeriale, atteso per la fine di maggio, ancora non c’è, come riferito ieri da Repubblica.
Ma ci sarà «a breve». «In data odierna», ovvero solo ieri, scrive ancora il dicastero guidato da Grilli, «il ministro ha trasmesso al Consiglio di Stato, per il prescritto parere, lo schema di regolamento di attuazione dell’articolo 91 bis». Modello indispensabile a Chiesa – ma anche partiti, sindacati, fondazioni, associazioni – per calcolare (entro il 2012) quanta parte degli immobili a «utilizzazione mista » sarà sottoposta all’imposta (nel 2013) e quale no. E distinguere, così, tra attività commerciale e culto, volontariato, politica, assistenza. Il dicastero di via Venti Settembre rivela poi l’invio di una «risposta puntuale» anche alla Commissione europea e alla sua «richiesta di informazioni relativa al caso C26/2010». Per chiudere così l’indagine aperta a Bruxelles contro l’Italia per aiuti di Stato, “mascherati” con la storica esenzione Ici agli immobili degli enti ecclesiastici.
L’accelerazione dell’Economia arriva dopo una giornata di rimpalli con Palazzo Chigi, dove il testo del regolamento sembrava giacere in atteso di un “visto”. Alla fine, però, la precisazione. E così «l’esame complesso della materia», che ostacolava l’iter Imu, si è sbloccato. La nota spiega che il decreto ministeriale, con lo schema per gli enti, riguarda solo il comma 3 dell’articolo 91 bis. Articolo aggiunto in extremis al Cresci-Italia, il provvedimento sulle liberalizzazioni diventato legge il 24 marzo, dal presidente del Consiglio in persona. Per due motivi: evitare le sanzioni Ue e sciogliere il nodo su una «materia delicata», così la definì, visti i malumori crescenti tra i proprietari di case (prime comprese), costretti a versare già da quest’anno un’imposta pesantissima. Il comma 3 di quell’articolo è relativo proprio agli immobili ad uso misto, la realtà più diffusa negli enti non commerciali. Laddove cioè non è immediato stabilire quanti metri quadri fanno utile (un bar in parrocchia che va ri-accatastato, però) e quali no. Detto in altro modo, laddove «non è possibile procedere al distinto accatastamento della frazione di unità immobiliare nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale». Il regolamento dovrebbe far luce su questi casi e indicare una modalità di calcolo.
La partita, secondo stime Anci (Comuni), potrebbe valere oltre 600 milioni. Entità mai confermata dai vescovi italiani (Cei), che però non ne hanno mai offerta una alternativa. Il censimento si farà solo grazie a queste nuove direttive. Ovviamente sono e saranno esenti dall’Imu (comma 1) tutti gli immobili destinati «esclusivamente » ad attività non commerciali, e non più «prevalentemente».
L’Imu intanto si conferma uno degli assi portanti delle entrate tributarie. Nei primi sette mesi del 2012 lo Stato ha messo fieno in cascina per 232 miliardi, il 4,7% in più del 2011 (10 miliardi aggiuntivi), «per effetto delle misure correttive varate a partire dalla seconda metà del 2011», scrive il ministero dell’Economia. Se il gettito Iva va giù (nonostante l’aumento di un punto) dell’1,5%, ovvero 880 milioni in meno, il primo acconto dell’Imu ha assicurato 3,9 miliardi, «in linea con le previsioni» (parte statale). Una discreta fetta dei 10 miliardi extra. Bene anche l’imposta sostitutiva sui redditi di capitale, l’imposta di bollo e quella di fabbricazione sugli oli minerali.
La Repubblica 06.09.12
"Imu-Chiesa, il governo prova ad accelerare", di Valentina Conte
Anche la Chiesa pagherà l’Imu, senza alcuna proroga né ripensamento, a partire dal prossimo anno. La conferma arriva in serata dal ministero dell’Economia. «Tutti gli adempimenti previsti per il 2013 non subiranno alcun ritardo», si legge nella nota. A cominciare dal «primo versamento Imu fissato per il 16 giugno». Un altro modo per dire che il decreto ministeriale, atteso per la fine di maggio, ancora non c’è, come riferito ieri da Repubblica.
Ma ci sarà «a breve». «In data odierna», ovvero solo ieri, scrive ancora il dicastero guidato da Grilli, «il ministro ha trasmesso al Consiglio di Stato, per il prescritto parere, lo schema di regolamento di attuazione dell’articolo 91 bis». Modello indispensabile a Chiesa – ma anche partiti, sindacati, fondazioni, associazioni – per calcolare (entro il 2012) quanta parte degli immobili a «utilizzazione mista » sarà sottoposta all’imposta (nel 2013) e quale no. E distinguere, così, tra attività commerciale e culto, volontariato, politica, assistenza. Il dicastero di via Venti Settembre rivela poi l’invio di una «risposta puntuale» anche alla Commissione europea e alla sua «richiesta di informazioni relativa al caso C26/2010». Per chiudere così l’indagine aperta a Bruxelles contro l’Italia per aiuti di Stato, “mascherati” con la storica esenzione Ici agli immobili degli enti ecclesiastici.
L’accelerazione dell’Economia arriva dopo una giornata di rimpalli con Palazzo Chigi, dove il testo del regolamento sembrava giacere in atteso di un “visto”. Alla fine, però, la precisazione. E così «l’esame complesso della materia», che ostacolava l’iter Imu, si è sbloccato. La nota spiega che il decreto ministeriale, con lo schema per gli enti, riguarda solo il comma 3 dell’articolo 91 bis. Articolo aggiunto in extremis al Cresci-Italia, il provvedimento sulle liberalizzazioni diventato legge il 24 marzo, dal presidente del Consiglio in persona. Per due motivi: evitare le sanzioni Ue e sciogliere il nodo su una «materia delicata», così la definì, visti i malumori crescenti tra i proprietari di case (prime comprese), costretti a versare già da quest’anno un’imposta pesantissima. Il comma 3 di quell’articolo è relativo proprio agli immobili ad uso misto, la realtà più diffusa negli enti non commerciali. Laddove cioè non è immediato stabilire quanti metri quadri fanno utile (un bar in parrocchia che va ri-accatastato, però) e quali no. Detto in altro modo, laddove «non è possibile procedere al distinto accatastamento della frazione di unità immobiliare nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale». Il regolamento dovrebbe far luce su questi casi e indicare una modalità di calcolo.
La partita, secondo stime Anci (Comuni), potrebbe valere oltre 600 milioni. Entità mai confermata dai vescovi italiani (Cei), che però non ne hanno mai offerta una alternativa. Il censimento si farà solo grazie a queste nuove direttive. Ovviamente sono e saranno esenti dall’Imu (comma 1) tutti gli immobili destinati «esclusivamente » ad attività non commerciali, e non più «prevalentemente».
L’Imu intanto si conferma uno degli assi portanti delle entrate tributarie. Nei primi sette mesi del 2012 lo Stato ha messo fieno in cascina per 232 miliardi, il 4,7% in più del 2011 (10 miliardi aggiuntivi), «per effetto delle misure correttive varate a partire dalla seconda metà del 2011», scrive il ministero dell’Economia. Se il gettito Iva va giù (nonostante l’aumento di un punto) dell’1,5%, ovvero 880 milioni in meno, il primo acconto dell’Imu ha assicurato 3,9 miliardi, «in linea con le previsioni» (parte statale). Una discreta fetta dei 10 miliardi extra. Bene anche l’imposta sostitutiva sui redditi di capitale, l’imposta di bollo e quella di fabbricazione sugli oli minerali.
La Repubblica 06.09.12
"Il caso Bellocchio", di Natalia Aspesi
Bellocchio ce le fa rivedere, e a distanza di tre anni e mezzo, come liberati da un incantesimo, se ne percepiscono tutta la vergogna, il cinismo, l’opportunismo, in certi casi l’orrore: come quando il primo ministro Berlusconi, col suo sorriso da piazzista, in totale impudente crudeltà, informa gli italiani che quel corpo perduto alla vita da tanti anni, ha ancora le mestruazioni e potrebbe quindi fare figli. E poi le sedute in Senato, e gli anatemi del pidiellino Quagliarello, e l’assurdo minuto di silenzio chiesto dal presidente Schifani all’annuncio che la macchina che mimava la vita di Eluana era stata finalmente staccata.
Con grande sapienza, e bravissimi attori, Bellocchio racconta del valore della vita e della morte con la storia di una tossica (Maya Sansa) che vuole a tutti i costi suicidarsi, a cui si oppone un dottore (Pier Giorgio Bellocchio) che vuole impedirglielo, “in nome dell’umanità”, mentre i cinici colleghi scommettono su quando Eluana morirà; con quella di una grande attrice (Isabelle Huppert) che ha una bellissima figlia in coma e che, senza fede, circondata da suore, sgranando il rosario, lavandosi le mani imbrattate da un sangue immaginario come recitasse nel Macbeth, pretende da Dio un miracolo; e quella che si riallaccia al frenetico momento politico di quei giorni, quando frettolosamente Berlusconi decise di far votare una legge che, per compiacere il potere vaticano, avrebbe dovuto cancellare quella che consente la libertà di cura. Il senatore del Pdl Toni Servillo non vuole andare contro la sua coscienza, e annuncia che non solo non voterà a favore, ma esprimerà nell’aula le ragioni del suo dissenso, per poi dimettersi. «Ma perderai la pensione! » gli dice il collega, che fu socialista come lui ricordandogli che fu il grande boss a salvarli dalla galera e non si può quindi disubbidirgli: e infatti, nelle stanze del partito, tutti a chiacchierare col telefonino e ad assicurare il loro sì.
Ci fu davvero, dice Bellocchio, un senatore friulano, amico di Beppino Englaro, che era deciso a dire no, poi come si sa, la nonvita di Eluana cessò prima che si votasse, e tutto finì lì. Il regista sostiene di non avere alcun atteggiamento di disprezzo verso quelle figure di politico che si aggirano nel suo film, ma certo non li esalta nella scena del tutto surreale in cui, come fossero i senatori dell’antica Roma, s’immergono nudi nei vapori del bagno turco, continuando a guardare la tivù del parlamento. Si ride quando il senatore psicanalista Roberto Herlitzka sostiene che «I politici sono tutti malati di mente». E noiosissimi, da curare con pastiglie per toglierseli di torno: «Sono smarriti, depressi, infelici, vagano per il centro senza sapere che fare, sentendosi inutili, terrorizzati dall’idea che la televisione non li chiami più, sempre più convinti di non contare niente».
Il senatore di Servillo non è una macchietta, è una bella figura di uomo ferito dalla malattia della moglie che ha aiutato a non soffrire più, e dall’ostilità della figlia, Alba Rohrwacher, che sta dalla parte di chi prega perché non sia staccata la spina della macchina che fa respirare, ma non vivere, Eluana. Bellocchio ricostruisce con maestria il caos emotivo di quei giorni che avevano trasformato la discussione sull’eutanasia in una tragedia nazionale dai pesantissimi risvolti non solo morali e religiosi ma anche politici. La folla di credenti davanti alla clinica, i canti sacri, le preghiere, i lumini, le messe, le grida «Assassini! », gli ammalati in carrozzella con il cartello «Ammazza anche me», la polizia, i sostenitori del diritto di far cessare le sofferenze di Eluana, i dibattiti in televisione, i cronisti a caccia di dichiarazioni sensazionali. Ma l’Italia si sa, è impaziente: annunciato che il corpo della povera Englaro si era spento, tutto finì in pochi giorni, si passò subito ad altro. Però al momento di girare il film, se ne sono ricordate la Provincia di Udine (il Comune ha favorito le riprese) e la Regione, che hanno cancellato la Friuli Film Commission che aveva già comunque partecipato al finanziamento del film, come appare nei titoli di testa. Bella addormentata entra nella ristretta rosa dei candidati al Leone d’oro.
La Repubblica 06.09.12
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“La par condicio non si addice a questa vicenda”, di Curzio Maltese
La colpa di Beppe Englaro fu di voler compiere alla luce del sole e nel rispetto della legge quello che ogni giorno si fa in silenzio in molte famiglie. Restituire la dignità della morte alla figlia Eluana, già persa alla vita da 17 anni. Staccare la spina di un accanimento terapeutico senza senso e senza speranza per Eluana, che serviva ad altri per altri scopi. È la scelta compiuta in tempi recenti dai due uomini più amati della chiesa, Karol Wojtyla e Carlo Maria Martini. Ma la chiesa, come tutti i poteri italiani, dei quali rimane l’archetipo, non è interessata tanto al rispetto autentico della legge morale, quanto al pubblico atto di sottomissione. Per averlo rifiutato, papà Englaro ha pagato un prezzo enorme. Gerarchie e associazioni cattoliche non hanno esitato a mettere in campo una propaganda infame, a usare disabili nelle manifestazioni con cartelli appesi al collo («Uccidi anche me! »), al linciaggio quotidiano («boia», «assassino») di un padre provato da un lungo calvario. Non si sono vergognati neppure di sfruttare il potere mediatico e il grottesco magistero morale di un noto organizzatore di festini, incidentalmente presidente del Consiglio. Un abisso di degrado insomma di una chiesa già percorsa da una furibonda lotta di potere, come si rivelò poi dagli scandali.
Con tali premesse, si sarebbe potuto temere dall’autore de I pugni in tasca e L’ora di religione un eccesso di furia indignata. A sorpresa invece Bella addormentata ha il difetto di apparire troppo prudente. Preoccupato di «non offendere nessuno», Bellocchio intreccia storie e personaggi con una strana ansia da par condicio. In termini giuridici, si chiama eccesso colposo di legittima difesa. Non che qualcuno possa sbandierare verità assolute in questi casi. Ma alla fine i personaggi della finzione appaiono al di sotto della tensione del conflitto reale, che esplode nelle immagini di cronaca splendidamente montate. Lo splendore del cinema di Bellocchio riemerge in scene indimenticabili, come il bagno da basso impero dei senatori, oppure in figure laterali, il capo banda berlusconiano interpretato dal grandioso Roberto Herlitzka, che distribuisce psicofarmaci per sedare i rari sussulti etici. A parte la scrittura, tutto è straordinario, regia, fotografia di Ciprì, montaggio di Francesca Calvelli, il portentoso gruppo di attori, tanto più quando i personaggi risultato meno credibili. Per esempio, il politico interpretato, al solito magnificamente, da Toni Servillo. In vent’anni da cronista non mi è mai capitato d’imbattermi in un parlamentare berlusconiano non tanto in preda a una crisi di coscienza, questo è capitato, ma totalmente immerso in un universo morale tanto limpido e coerente, quasi kantiano. Ma il cinema serve anche a inventare mondi paralleli.
La Repubblica 06.09.12
