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«Servono più risorse e un cambiamento culturale», di Luciana Cimino

«Il ministro Profumo ha buone intenzioni, speriamo abbia anche il tempo». Si deve a Luigi Berlinguer, oggi eurodeputato, ma già ministro dell’Istruzione dei governi Prodi e D’Alema, l’istituzione dell’ultimo concorso per insegnanti, nel ’99. Segno, anche questo, che l’Italia ha un problema culturale con questo settore: «non si riesce a considerare come una priorità, come dovrebbe essere invece nei Paesi avanzati». Che anno scolastico sta per cominciare? «Le finanziarie dell’anno scorso hanno impoverito fortemente la scuola e questo è un vulnus grave della società italiana. Sono aumentati gli alunni per classe, il tempo si è ridotto, complessivamente si è impoverita la vita scolastica che è fatta in grandissima prevalenza di stipendi ma anche da contenuti da sostenere. Con questa povertà un’attività formativa moderna non si può realizzare».
Con la crisi in corso è difficile prevedere altri stanziamenti
«La crescita è la condizione perché la gente ricominci a vivere dignitosamente, è vero: la crisi ci attanaglia e la recessione è una tragedia, ma questo non significa che non sia tempo di scelte. Bisogna dare priorità alla ricerca e all’istruzione. Non capisco chi mi dice “non ci sono i soldi”, ci devono essere, si tolgano da un’altra parte. Ma devo sottolineare anche che questi ancora non sono concetti presenti nella cultura dominante e quindi non ci sono nei bilanci e non ci sono nella politica. La scuola, semplicemente, non è in agenda».
«La preoccupano i recenti dati sulla dispersione scolastica in costante aumento?
«I paesi scandinavi diplomano il 95% della leva d’età e sono in testa in tutto. Noi abbiamo avuto nei decenni passati aumenti di scolarizzazione, per avvicinarci ai paesi evoluti dove la scuola è per tutti e non solo per una parte, ma oggi riemerge la questione sociale, la dispersione, direi anche che c’è una grave questione scolastica meridionale. Una volta studiare al Parini di Milano a in un liceo di Napoli era lo stesso, oggi non è più così. Quindi non è solo un problema quantitativo ma anche qualitativo. La classe dirigente, e una parte della politica, trascura questi temi ma c’è anche un’altra questione»
Quale?
«Il nostro modello di scuola è desueto, negli altri Paesi non c’è più la scuola dove si impara e non si costruisce la personalità dello studente nel rapporto con la vita e con la società, questa scuola chiusa nei suoi muri e che quando si apre non si apre bene. Dare priorità alla scuola significa dare le risorse, considerarla importante e cambiarla radicalmente perché funziona in modo arcaico».
Il settore del diritto allo studio, inteso come borse di studio e alloggi, negli ultimi anni è stato particolarmente mortificato. «Sostegno ai più deboli significa trovare le risorse per dare a chi ha mezzi sostegno economico e da noi la cifra stanziata per questo è molto più bassa rispetto ai paesi evoluti ma non fermiamoci qui perché anche sostegno didattico e culturale sono fondamentali. Alcuni potrebbero farcela ma sono inseriti in un contesto universitario difficile. Non ce la caveremo con un po’ più di borse di studio se manca la vitalizzazione degli atenei, l’accesso alle biblioteche, ai laboratori, a strutture culturali e di servizio che arricchiscano la scuola “povera”. Ci vogliono soldi e cambiamento».
Nelle intenzioni del ministro Profumo il concorsone previsto (e contestato) dovrebbe servire anche a svecchiare il corpo docente.
«Il corpo docente ha bisogno di persone adulte, preparate, che portino anche la loro esperienza nell’insegnamento, ma anche di giovani che cominciano, portatori di vitalità. Negare la possibilità dei concorsi a un ragazzo che finisce gli studi è un danno micidiale. Allo stesso tempo quei docenti che hanno fatto l’abilitazione, sono in graduatoria, hanno un titolo che va rispettato».
Allora come si risolve? C’è il rischio di una guerra fra poveri?
«Il problema è la capienza di posti. E per incrementarli c’è bisogno di un cambiamento d’indirizzo, non più scuola povera, in dimagrimento permanente. Affrontare la questione del danno irreparabile chiamato Tremonti che sosteneva che con la cultura non si mangia e risolvere definitivamente la questione dei precari. Profumo per adesso mi sembra mantenga un giusto equilibrio ma è il sistema di reclutamento che va cambiato».

L’Unità 04.09.12

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“Povera scuola, l’anno inizia in salita”, di Jolanda Bufalini

Povera scuola costretta a fare educazione con i fichi secchi, l’anno scolastico si apre in grandi ristrettezze, ai tagli del trio Gelmini-Tremonti-Berlusconi ha seguito il rigore del governo dei tecnici: spending review e patto di stabilità congiurano insieme contro l’offerta educativa.

Domenico Pantaleo, segretario della Flc, la federazione della conoscenza della Cgil: «Tutti dicono che la formazione è fondamentale ma fra gli annunci e la realtà quotidiana c’è di mezzo il mare. Il ministro parla di tante cose buone, digitalizzazione e pagelle on-line ma non sembra consapevole di quanto sia complesso il mondo della scuola».

Siamo in ritardo su tutto, dalle immissioni in ruolo al funzionamento delle segreterie, al personale Ata che non viene assegnato. L’ultima trovata di Maristella Gelmini è stata autorizzare il trasferimento degli “inidonei” negli uffici tecnico amministrativi. Dietro quel termine ipocrita del burocratese si nasconde una schiera di insegnanti di materie tecniche in maggioranza affetti da malattie gravi: «Che senso ha – si chiede Pantaleo – spostarli in un settore di lavoro gravoso come è quello della segreteria di una scuola per il quale non sono nemmeno preparati?».

Alessia Morani è assessore alla scuola della provincia di Pesaro e Urbino e ha dovuto scrivere una lettera agli istituti secondari superiori: «Niente programmi extra didattici, niente attività sportive fuori orario». Perché? «Perché il taglio al bilancio provinciale per il 2012 è di 4.800.000 euro, e questo significa tagliare le bollette di acqua, riscaldamento, luce. Taglieremo su ciò che non è obbligatorio e anche su ciò che è obbligatorio».

Il ministro Profumo parla di educazione permanente e di anno sabbatico ma intanto «viene falciata la possibilità che la scuola sia al centro dello sviluppo culturale del territorio. E l’anno prossimo il taglio sarà di 9,8 milioni, l’impressione è che abbiano mantenuto alle province le loro competenze ma le stanno eliminando di fatto privandole delle risorse». Niente attività pomeridiane e serali e nemmeno laboratori, spiega Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd, che «con il taglio degli insegnanti tecnico-pratici i laboratori non funzionano».

C’è stata, è vero ed è positivo, l’immissione in ruolo di 22.000 docenti per turn over ma i tagli influiscono anche sul numero degli studenti per classe, in alcune realtà, aggiunge Francesca Puglisi «si arriva a 32 studenti in un’unica classe». Fin qui le superiori ma non va meglio nelle scuole per l’infanzia, alle primarie e nelle secondarie di primo grado (le vecchie medie inferiori), Francesca Puglisi: «Nelle scuole per l’infanzia al nord si allungano le liste di attesa, il tempo pieno è ormai scomparso e quasi non esiste più il tempo prolungato». Persino per le emergenze ormai non si trovano risorse, il governo si era impegnato, racconta Pantaleo, a «disporre 1000 posti aggiuntivi per il dopo terremoto in Emilia» e invece, ancora, non c’è traccia del provvedimento, quando è chiaro che far funzionare le scuole nelle zone terremotate vuol dire aiutare le famiglie, la ripresa delle attività produttive e la ricostruzione.

Tra le note positive c’è il finanziamento di un miliardo di fondi europei per le regioni del Mezzogiorno (Campania, Sicilia, Calabria, Puglia) per combattere la dispersione scolastica, ma in un quadro, sottolinea Pantaleo, «di scuole fatiscenti nel sud». La messa in sicurezza delle scuole è un altro capitolo nell’elenco delle urgenze sempre enunciate e mai affrontate. L’Unione delle province d’Italia ha fatto il calcolo che, in attuazione delle norme per l’edilizia scolastica lo Stato ha speso fra il 2005 e il 2011 227 milioni, nello stesso periodo le Province hanno investito 9,4 miliardi. L’equivalente del taglio previsto per le Province nel 2013.

L’Unità 04.09.12

"Ciao maestro", di Mariapia Veladiano

Qui si deve proprio dire che tutto si tiene. E parlare di donne e scuola ci costringe a parlare del nostro mondo. Di qual è l’immagine sociale degli insegnanti. Di quanta importanza è attribuita alla scuola, alla cultura, alla formazione. Di quale prestigio è associato all’insegnamento. Di quanto c’entrano le pari opportunità e l’equità. E infine, dell’effetto che fa, sulla scuola e sugli studenti. E quindi sulla società. L’insegnamento è una professione di donne (88% del totale, è l’ultimo dato messo a disposizione dal ministero). Quasi esclusivamente di donne nelle scuole d’infanzia e del primo ciclo. Appena un po’ meno alle superiori. Il dato è vero per la totalità dei paesi europei, con l’eccezione della Turchia e in questo caso cercare le ragioni porterebbe lontano. Ma in Italia il divario fra docenti uomini e docenti donne è un abisso e dal momento che da noi la disoccupazione è in prevalenza donna — siamo il paese dell’Unione europea con la percentuale più bassa di occupazione femminile — ci si può certo fare qualche domanda.
Che cosa racconta della nostra società il fatto che l’insegnamento sia una professione soprattutto di donne? Che l’insegnante non è considerato socialmente, ad esempio. E dire dove stia la causa e dove l’effetto è un altro bel tema da svolgere. Ma è un luogo comune degli studi sull’argomento il riconoscere che la figura dell’insegnante non si accompagna a prestigio e potere. Eppure dovrebbe, a pensarci. Un tempo, la letteratura ce lo ricorda, capitava. Non il potere di inculcare principi e conculcare coscienze, come è stato detto in tempi anche troppo vicini, ma il potere di coltivare il sapere critico, di far innamorare della libertà, di dare gli strumenti per difenderla, di perseguire l’equità. È poco? No, ma non è quello che conta nell’immaginario sociale abbagliato da decenni di potere arrogante, ostentato, impunito. Perché in Italia laddove c’è potere nel senso di visibilità, denaro, prestigio, ci sono uomini. Anche nella scuola. Il rapporto fra maschi e femmine inverte il segno se si guarda alle funzioni direttive, fino all’università. Malgrado le donne siano il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie sono il 40%, le docenti associate il 32% e le ordinarie il 14%. Le donne rettore sono due (dati del “Rapporto ombra 2012” del Cedaw, Convenzione dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne).
La grande presenza delle donne a scuola racconta poi che l’insegnamento è da noi visto in continuità con il lavoro di “cura”, che lo stereotipo di genere lascia ancora alla donna. Anche se poi alla scuola si chiede di preparare alla “società della conoscenza”, e la vastità dell’espressione viene declinata soprattutto in termini di misurazione degli apprendimenti, standard in uscita, accesso all’eccellenza.
E ancora la scuola delle donne racconta perché è possibile pagare così poco gli insegnanti. I lavori a prevalenza femminile sono pagati meno di quelli in cui i maschi sono ben rappresentati. Perché sono percepiti meno importanti, gregari, meno qualificanti. Stereotipi fortissimi in Italia.
È vero che condividiamo il fenomeno con l’Europa, con una differenza sostanziale però: altrove i governi si preoccupano e mettono in atto programmi per migliorare l’equilibrio di genere fra insegnanti, da noi no. I rapporti Eurydice, la Rete di informazione sull’istruzione in Europa,
raccolgono regolarmente queste iniziative che riguardano Irlanda, Olanda, Regno Unito, Norvegia, Repubblica Ceca. Noi no. E ci sono anche paesi che hanno progetti precisi per attirare più donne verso le posizioni direttive nell’istruzione. Noi no.
L’attuale situazione ci dice che sarà difficile un cambiamento in tempi brevi, perché i
precari della scuola sono soprattutto donne, perché nel momento in cui un ragazzo sceglie il precorso formativo spesso ha davanti a sé un modello cui ispirarsi e non è facile avere incontrato modelli di insegnanti maschi, perché la scuola non offre alcun tipo di carriera professionale né interna né verso l’esterno, perché l’insegnante è stato negli ultimi decenni destinatario di ogni tipo di accusa: fannullone, assenteista, manipolatore delle coscienze. Il tutto, caso praticamente unico al mondo, alimentato dall’amministrazione che lo aveva assunto e che avrebbe dovuto sostenerne il lavoro per il bene di tutti.
Ci si può chiedere se sia così importante avere una presenza equilibrata di uomini e donne a scuola.
Certo che sì. Semplicemente perché, scrive un rapporto Eurydice, “gli insegnanti hanno un ruolo cruciale nella comprensione dei ruoli di genere da parte dei giovani e anche la comprensione del loro stesso genere ha molta influenza e può contribuire o a mantenere o a rompere gli stereotipi di genere nella scuola”. Semplicemente perché è bene che i ragazzi vedano uomini e donne collaborare fra loro e per la loro formazione. Come sarebbe bene che accadesse nella società tutta. E per questo ancora più importante è che il tema del genere sia presente nella formazione iniziale degli insegnanti e nella formazione continua dei docenti. Così non capiterebbe più di vedere, l’ultimo giorno di scuola, in una primaria, i regali di una piccola lotteria contraddistinti da post- it rosa o azzurri e, soprattutto, di scoprire che i regali delle bambine sono bambole-spazzole- diari- col- bordo- rosabomboniere (!) e quelli dei bambini sono libri-lego-costruzioni. Capitato e visto. Con corredo di proteste (quando gli studenti ci insegnano!) delle bambine che volevano i regali dei maschi (non il contrario).
Anche se, andando a leggere quale effetto abbia avuto l’essere l’insegnamento un lavoro di donna in questi anni di stralunate riforme e controriforme, verrebbe da osservare che forse per la scuola è stata una fortuna, perché, e questo è uno stereotipo pure, ma forse no, le donne sono piuttosto attrezzate a resistere alle bufere e nell’emergenza fanno quel che devono, anche più di quel che possono. E se la scuola primaria, ad esempio, che era per qualità fra le prime dei paesi misurati dalle indagini Ocse-Pisa, non è sprofondata insieme alla sua riforma, lo si deve alla capacità delle maestre (e dell’uno virgola per cento di maestri) di far più del richiesto, di inventarsi strategie per far fronte a classi sempre più numerose e sempre più multietniche e sempre più problematiche.
Ma così non va bene, evidentemente. Né per le donne, che rischiano di alimentare per necessità lo stereotipo di un missionarismo legato al genere, né per la professione, che deve restare professione appunto. Né per gli studenti, che a scuola potrebbero percepire tutto l’impegno della società, maschi e femmine, per la loro educazione e invece son costretti a raccogliere l’affanno volonteroso di un inseguire emergenze, di adattarsi a riforme non condivise, di un colpevole disinteresse dello stato verso il loro futuro.
E però qui la stessa cosa è raccontata dalla simbolica degli spazi: le scuole sono soprattutto aulifici, contenitori di studenti buoni e attenti, luoghi magari storici, però inadatti alle splendide energie di adolescenti in vigorosa esplorazione del sapere e del mondo.
Ecco perché tutto si tiene. Detto che un maggiore equilibrio fra insegnanti uomini e insegnanti donne gioverebbe, resta che il problema è un aspetto di quello generale di una distribuzione del potere in ogni campo fortemente legata al genere e davvero, visti i risultati, c’è da preoccuparsi molto di più per il concentrato di uomini di potere in politica, nell’editoria, nell’industria, nell’economia, nella finanza.
La scuola che funziona c’è eccome. E per ora, senza averlo cercato, le donne ne portano spesso il merito.

La Repubblica 04.09.12

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“Record alle elementari solo un uomo su venti”, di SALVO INTRAVAIA

Mai così “rosa” come oggi la scuola italiana. Se vorremo vedere qualche docente di sesso maschile aggirarsi tra i corridoi degli istituti statali italiani, fra qualche anno, nella selezione degli insegnanti — oltre ad una quota da riservare ai giovani — occorrerà riservarne anche una per gli insegnanti maschi: le “quote azzurre”, insomma. Caso più unico che raro nel mondo del lavoro nostrano. L’ultimo dato messo a disposizione — attraverso la pagina “Scuola in chiaro” — dal ministero dell’Istruzione sul personale della scuola è il più alto di tutti i tempi: gli insegnanti a tempo indeterminato di sesso femminile ammontano all’88 per cento del totale. Una percentuale che cala lievemente tra i supplenti: l’84 per cento. In effetti, il trend sulla cosiddetta femminilizzazione della scuola italiana è segnato da decenni. Tanto che nel 1999, il ministero della Pubblica istruzione ha dedicato un’intera pubblicazione all’argomento.
È un bene per la scuola pubblica questa massiccia presenza di maestre e professoresse? E quali sono i motivi? Nel 1953 gli insegnanti uomini nella scuola erano ancora parecchi: quasi il 40 per cento. La bilancia pendeva dalla parte delle donne per via della massiccia presenza femminile nella scuola elementare e materna. Alle medie si registrava ancora una leggera prevalenza di donne in cattedra mentre alle superiori il trend si invertiva. Ma col passare degli anni, le cose sono cambiate. Nel 2000/2001 già 3 insegnanti italiani su 4 erano donne. E nel 2010 si era già superata la quota dell’80 per cento. Oggi, anche nella scuola secondaria di secondo grado prevalgono le professoresse: due su tre insegnanti. “Questi dati — scriveva nel 1999 l’allora sottosegretario di stato Nadia Masini — sembrano confermare il tradizionale orientamento delle donne verso la professione docente ”. Analizzando, infatti, i dati dei diplomati e dei laureati ci si accorge che, a fronte di una sostanziale parità tra maschi e femmine alla nascita, si diplomano alla fine della scuola superiore un numero leggermente maggiore di ragazze — il 51,5 per cento — perché i ragazzi sono maggiormente soggetti alla dispersione scolastica: bocciature e abbandoni. Ma non solo. A proseguire gli studi universitari dopo il diploma sono di più le ragazze che prevalgono nettamente tra gli immatricolati. Nell’anno 2011/2012 la differenza tra i generi in ingresso all’università è già superiore ai 12 punti: 56,3 per cento di femmine contro il 43,7 per cento di maschi. E siccome per insegnare, soprattutto alle medie e alle superiori, occorre e occorrerà la laurea, la strada verso la femminilizzazione della scuola è fatalmente segnata. Anche perché anche all’università la strada per le donne è meno accidentata di quella degli uomini e la differenza di genere alla laurea sale a 17 punti e mezzo. Del resto, le lauree che per eccellenza hanno una destinazione scolastica sono al femminile: Lettere e filosofia fa registrare il 72,3 per cento di laureate e Lingue straniere addirittura l’85,2 per cento. E anche su matematica, Fisica e Scienze prevalgono le donne. “Sarebbe opportuno indagare — continuava la Masini — se e quanto questa massiccia presenza delle donne nell’insegnamento continui ad essere il frutto della tradizionale divisione di compiti fra uomini e donne” e “se questa sorta di monopolio femminile nell’insegnamento, soprattutto nella scuola di base, sia più o meno positivo”. All’estero la femminilizzazione della scuola è meno accentuata: nel 2010, si va dal 63,3 per cento della Spagna al 74,2 per cento degli Stati Uniti.

La Repubblica 04.09.12

"Ciao maestro", di Mariapia Veladiano

Qui si deve proprio dire che tutto si tiene. E parlare di donne e scuola ci costringe a parlare del nostro mondo. Di qual è l’immagine sociale degli insegnanti. Di quanta importanza è attribuita alla scuola, alla cultura, alla formazione. Di quale prestigio è associato all’insegnamento. Di quanto c’entrano le pari opportunità e l’equità. E infine, dell’effetto che fa, sulla scuola e sugli studenti. E quindi sulla società. L’insegnamento è una professione di donne (88% del totale, è l’ultimo dato messo a disposizione dal ministero). Quasi esclusivamente di donne nelle scuole d’infanzia e del primo ciclo. Appena un po’ meno alle superiori. Il dato è vero per la totalità dei paesi europei, con l’eccezione della Turchia e in questo caso cercare le ragioni porterebbe lontano. Ma in Italia il divario fra docenti uomini e docenti donne è un abisso e dal momento che da noi la disoccupazione è in prevalenza donna — siamo il paese dell’Unione europea con la percentuale più bassa di occupazione femminile — ci si può certo fare qualche domanda.
Che cosa racconta della nostra società il fatto che l’insegnamento sia una professione soprattutto di donne? Che l’insegnante non è considerato socialmente, ad esempio. E dire dove stia la causa e dove l’effetto è un altro bel tema da svolgere. Ma è un luogo comune degli studi sull’argomento il riconoscere che la figura dell’insegnante non si accompagna a prestigio e potere. Eppure dovrebbe, a pensarci. Un tempo, la letteratura ce lo ricorda, capitava. Non il potere di inculcare principi e conculcare coscienze, come è stato detto in tempi anche troppo vicini, ma il potere di coltivare il sapere critico, di far innamorare della libertà, di dare gli strumenti per difenderla, di perseguire l’equità. È poco? No, ma non è quello che conta nell’immaginario sociale abbagliato da decenni di potere arrogante, ostentato, impunito. Perché in Italia laddove c’è potere nel senso di visibilità, denaro, prestigio, ci sono uomini. Anche nella scuola. Il rapporto fra maschi e femmine inverte il segno se si guarda alle funzioni direttive, fino all’università. Malgrado le donne siano il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie sono il 40%, le docenti associate il 32% e le ordinarie il 14%. Le donne rettore sono due (dati del “Rapporto ombra 2012” del Cedaw, Convenzione dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne).
La grande presenza delle donne a scuola racconta poi che l’insegnamento è da noi visto in continuità con il lavoro di “cura”, che lo stereotipo di genere lascia ancora alla donna. Anche se poi alla scuola si chiede di preparare alla “società della conoscenza”, e la vastità dell’espressione viene declinata soprattutto in termini di misurazione degli apprendimenti, standard in uscita, accesso all’eccellenza.
E ancora la scuola delle donne racconta perché è possibile pagare così poco gli insegnanti. I lavori a prevalenza femminile sono pagati meno di quelli in cui i maschi sono ben rappresentati. Perché sono percepiti meno importanti, gregari, meno qualificanti. Stereotipi fortissimi in Italia.
È vero che condividiamo il fenomeno con l’Europa, con una differenza sostanziale però: altrove i governi si preoccupano e mettono in atto programmi per migliorare l’equilibrio di genere fra insegnanti, da noi no. I rapporti Eurydice, la Rete di informazione sull’istruzione in Europa,
raccolgono regolarmente queste iniziative che riguardano Irlanda, Olanda, Regno Unito, Norvegia, Repubblica Ceca. Noi no. E ci sono anche paesi che hanno progetti precisi per attirare più donne verso le posizioni direttive nell’istruzione. Noi no.
L’attuale situazione ci dice che sarà difficile un cambiamento in tempi brevi, perché i
precari della scuola sono soprattutto donne, perché nel momento in cui un ragazzo sceglie il precorso formativo spesso ha davanti a sé un modello cui ispirarsi e non è facile avere incontrato modelli di insegnanti maschi, perché la scuola non offre alcun tipo di carriera professionale né interna né verso l’esterno, perché l’insegnante è stato negli ultimi decenni destinatario di ogni tipo di accusa: fannullone, assenteista, manipolatore delle coscienze. Il tutto, caso praticamente unico al mondo, alimentato dall’amministrazione che lo aveva assunto e che avrebbe dovuto sostenerne il lavoro per il bene di tutti.
Ci si può chiedere se sia così importante avere una presenza equilibrata di uomini e donne a scuola.
Certo che sì. Semplicemente perché, scrive un rapporto Eurydice, “gli insegnanti hanno un ruolo cruciale nella comprensione dei ruoli di genere da parte dei giovani e anche la comprensione del loro stesso genere ha molta influenza e può contribuire o a mantenere o a rompere gli stereotipi di genere nella scuola”. Semplicemente perché è bene che i ragazzi vedano uomini e donne collaborare fra loro e per la loro formazione. Come sarebbe bene che accadesse nella società tutta. E per questo ancora più importante è che il tema del genere sia presente nella formazione iniziale degli insegnanti e nella formazione continua dei docenti. Così non capiterebbe più di vedere, l’ultimo giorno di scuola, in una primaria, i regali di una piccola lotteria contraddistinti da post- it rosa o azzurri e, soprattutto, di scoprire che i regali delle bambine sono bambole-spazzole- diari- col- bordo- rosabomboniere (!) e quelli dei bambini sono libri-lego-costruzioni. Capitato e visto. Con corredo di proteste (quando gli studenti ci insegnano!) delle bambine che volevano i regali dei maschi (non il contrario).
Anche se, andando a leggere quale effetto abbia avuto l’essere l’insegnamento un lavoro di donna in questi anni di stralunate riforme e controriforme, verrebbe da osservare che forse per la scuola è stata una fortuna, perché, e questo è uno stereotipo pure, ma forse no, le donne sono piuttosto attrezzate a resistere alle bufere e nell’emergenza fanno quel che devono, anche più di quel che possono. E se la scuola primaria, ad esempio, che era per qualità fra le prime dei paesi misurati dalle indagini Ocse-Pisa, non è sprofondata insieme alla sua riforma, lo si deve alla capacità delle maestre (e dell’uno virgola per cento di maestri) di far più del richiesto, di inventarsi strategie per far fronte a classi sempre più numerose e sempre più multietniche e sempre più problematiche.
Ma così non va bene, evidentemente. Né per le donne, che rischiano di alimentare per necessità lo stereotipo di un missionarismo legato al genere, né per la professione, che deve restare professione appunto. Né per gli studenti, che a scuola potrebbero percepire tutto l’impegno della società, maschi e femmine, per la loro educazione e invece son costretti a raccogliere l’affanno volonteroso di un inseguire emergenze, di adattarsi a riforme non condivise, di un colpevole disinteresse dello stato verso il loro futuro.
E però qui la stessa cosa è raccontata dalla simbolica degli spazi: le scuole sono soprattutto aulifici, contenitori di studenti buoni e attenti, luoghi magari storici, però inadatti alle splendide energie di adolescenti in vigorosa esplorazione del sapere e del mondo.
Ecco perché tutto si tiene. Detto che un maggiore equilibrio fra insegnanti uomini e insegnanti donne gioverebbe, resta che il problema è un aspetto di quello generale di una distribuzione del potere in ogni campo fortemente legata al genere e davvero, visti i risultati, c’è da preoccuparsi molto di più per il concentrato di uomini di potere in politica, nell’editoria, nell’industria, nell’economia, nella finanza.
La scuola che funziona c’è eccome. E per ora, senza averlo cercato, le donne ne portano spesso il merito.
La Repubblica 04.09.12
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“Record alle elementari solo un uomo su venti”, di SALVO INTRAVAIA
Mai così “rosa” come oggi la scuola italiana. Se vorremo vedere qualche docente di sesso maschile aggirarsi tra i corridoi degli istituti statali italiani, fra qualche anno, nella selezione degli insegnanti — oltre ad una quota da riservare ai giovani — occorrerà riservarne anche una per gli insegnanti maschi: le “quote azzurre”, insomma. Caso più unico che raro nel mondo del lavoro nostrano. L’ultimo dato messo a disposizione — attraverso la pagina “Scuola in chiaro” — dal ministero dell’Istruzione sul personale della scuola è il più alto di tutti i tempi: gli insegnanti a tempo indeterminato di sesso femminile ammontano all’88 per cento del totale. Una percentuale che cala lievemente tra i supplenti: l’84 per cento. In effetti, il trend sulla cosiddetta femminilizzazione della scuola italiana è segnato da decenni. Tanto che nel 1999, il ministero della Pubblica istruzione ha dedicato un’intera pubblicazione all’argomento.
È un bene per la scuola pubblica questa massiccia presenza di maestre e professoresse? E quali sono i motivi? Nel 1953 gli insegnanti uomini nella scuola erano ancora parecchi: quasi il 40 per cento. La bilancia pendeva dalla parte delle donne per via della massiccia presenza femminile nella scuola elementare e materna. Alle medie si registrava ancora una leggera prevalenza di donne in cattedra mentre alle superiori il trend si invertiva. Ma col passare degli anni, le cose sono cambiate. Nel 2000/2001 già 3 insegnanti italiani su 4 erano donne. E nel 2010 si era già superata la quota dell’80 per cento. Oggi, anche nella scuola secondaria di secondo grado prevalgono le professoresse: due su tre insegnanti. “Questi dati — scriveva nel 1999 l’allora sottosegretario di stato Nadia Masini — sembrano confermare il tradizionale orientamento delle donne verso la professione docente ”. Analizzando, infatti, i dati dei diplomati e dei laureati ci si accorge che, a fronte di una sostanziale parità tra maschi e femmine alla nascita, si diplomano alla fine della scuola superiore un numero leggermente maggiore di ragazze — il 51,5 per cento — perché i ragazzi sono maggiormente soggetti alla dispersione scolastica: bocciature e abbandoni. Ma non solo. A proseguire gli studi universitari dopo il diploma sono di più le ragazze che prevalgono nettamente tra gli immatricolati. Nell’anno 2011/2012 la differenza tra i generi in ingresso all’università è già superiore ai 12 punti: 56,3 per cento di femmine contro il 43,7 per cento di maschi. E siccome per insegnare, soprattutto alle medie e alle superiori, occorre e occorrerà la laurea, la strada verso la femminilizzazione della scuola è fatalmente segnata. Anche perché anche all’università la strada per le donne è meno accidentata di quella degli uomini e la differenza di genere alla laurea sale a 17 punti e mezzo. Del resto, le lauree che per eccellenza hanno una destinazione scolastica sono al femminile: Lettere e filosofia fa registrare il 72,3 per cento di laureate e Lingue straniere addirittura l’85,2 per cento. E anche su matematica, Fisica e Scienze prevalgono le donne. “Sarebbe opportuno indagare — continuava la Masini — se e quanto questa massiccia presenza delle donne nell’insegnamento continui ad essere il frutto della tradizionale divisione di compiti fra uomini e donne” e “se questa sorta di monopolio femminile nell’insegnamento, soprattutto nella scuola di base, sia più o meno positivo”. All’estero la femminilizzazione della scuola è meno accentuata: nel 2010, si va dal 63,3 per cento della Spagna al 74,2 per cento degli Stati Uniti.
La Repubblica 04.09.12

"Dal banchiere ai vecchi comunisti le mille facce del popolo di Carlo Maria", di Michele Serra

Una moltitudine serena e silenziosa – come sono i milanesi nei momenti migliori – ha salutato Carlo Maria Martini in Duomo, dentro la grande cattedrale oscura. E sulla piazza luminosa che è al tempo stesso, da sempre, sagrato e luogo civico per eccellenza. La folla era così composta che si udivano piuttosto distintamente le singole voci umane e addirittura, nelle pause della liturgia, il battito dei passi attorno.
È stato un funerale solenne e affollato, da quasi papa o quasi da papa, preceduto da un’interminabile omaggio al feretro, una fila durata tre giorni e tre notti che ha fatto dire «c’era tutta Milano», e fa riflettere sulla popolarità non scontata di un uomo poco mediatico e di un intellettuale molto munito, e negli ultimi anni appartato anche a causa del Parkinson, che aveva leso la parola proprio a chi della parola aveva fatto ragione di vita e di magistero.
Essere stato arcivescovo per venti anni, fortemente radicato anche nella Milano non cattolica grazie all’impegno sociale, forse non basta a spiegare, al momento dell’addio, una presenza così massiccia, così ecumenica della città. Nel suo breve e affettuoso saluto finale (l’omelia spettava all’attuale vescovo di Milano, Scola) il successore di Martini, Tettamanzi, ha elogiato, in padre Carlo Maria, “l’arte di ascoltare” e la “capacità di radunare”, la seconda evidente conseguenza della prima. Una fede non escludente (Tettamanzi ha ripetuto per due volte l’oggetto della predicazione di Martini: “a tutti! a tutti!”), una fede calata nella complessità e nel caos della modernità senza mai temerla, senza mai esorcizzarla. Così che sul sagrato, insieme ai tanti credenti che si segnavano e recitavano le parole del rito, erano molti anche i non credenti o i dubbiosi o gli indefinibili che sostavano a braccia conserte, muti e rispettosi testimoni di un lutto municipale, dunque della città intera e non solo della pur rilevantissima comunità cattolica ambrosiana.
A questa folla, e forse anche a qualche fedele, l’omelia del cardinale Scola deve essere sembrata, come dire, un poco esitante rispetto agli specifici meriti del cardinal Martini. Soffermandosi a lungo sul mistero della resurrezione, il “potere di Cristo sulla morte”, “la chiarezza dell’eterno fulgore”, l’attuale pastore della diocesi di Milano ha concesso solo un fugace cenno finale all’interesse del defunto per “la realtà contemporanea”: che pure è ciò che ha fatto di Martini un testimone molto ascoltato anche al di fuori del mondo cattolico. Era come se le parole di Scola tendessero a ricondurre la figura di Martini, orgogliosamente, nell’alveo della Chiesa romana.
Dentro il Duomo e nella piazza, nel frattempo, l’impressionante molteplicità della folla celebrava al massimo livello (cioè al livello del cardinal Martini) la potenza dell’interclassismo cattolico elevata al cubo dalla potenza del dialogo “con tutti”: nessuna manifestazione politica potrebbe mai raccogliere persone così differenti per censo, per condizione sociale, per stile di vita, perfino per abbigliamento… Il mio solo e minuscolo vaglio, quello delle conoscenze personali, mi ha fatto riconoscere un banchiere, una edicolante, un attore, un barista, un’operaia in pensione, un libraio, una segretaria di redazione, un paio di vecchi comunisti, un’amica di mia madre molto pia e una mia amica bidivorziata. Facce di popolo e borghesi brizzolati, aria di centro storico e aria di periferia, signore abbronzate appena rientrate dal mare e casalinghe arrivate in metrò. Unico tratto comune: milanesi.
La sola percepibile mancanza, a guardare meglio, era quella dei ragazzi. Per trovare qualcuno sotto i trent’anni, esclusi i (pochi) bambini per mano ai genitori, era necessario aguzzare la vista. Una società decisamente invecchiata non basta, da sola, a spiegare la vistosa latitanza, in un giorno molto significativo per Milano, dei milanesi giovani. Al mistero della resurrezione poteva dunque sommarsi, nella piazza raccolta a salutare il suo pastore, il mistero di un futuro poco intellegibile, e assente nei suoi più autorevoli rappresentanti, i giovani. Forse neanche il padre Carlo Maria avrebbe saputo spiegare perché al suo funerale di tutti c’era traccia, non dei figli.

La Repubblica 04.09.12

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“Testimone di speranza”, di Claudio Sardo

Carlo Maria Martini è morto da mendicante, come lui stesso descriveva le condizioni di un anziano non più autosufficiente, prendendo in prestito serenamente quell’immagine da un antico proverbio orientale.

Eppure la sua carica umana è diventata all’improvviso una forza di popolo. Come accade talvolta per i profeti, i giusti, i maestri. Un segno vitale di speranza comunitaria nonostante il dolore della morte e il suo mistero. Ha colpito, emozionato quella fila interminabile di cittadini semplici che volevano rendergli omaggio. Eppure non era il cardinale Martini un personaggio pubblico così gettonato e sovraesposto. Anzi era una riserva critica, una figura mite e riflessiva, un uomo di dialoghi sempre impegnativi e scomodi.

Ma il segno di questo tempo di crisi è che, nel profondo, sentiamo il bisogno di forze unificanti, capaci di resistere a questa spinta terribile verso la solitudine, l’egoismo, la paura. Sentiamo un bisogno di autenticità che solo una testimonianza coerente può dare. I cristiani sentono il bisogno di una Chiesa che smetta di difendere i propri bastioni e si riscopra serva, sorella, povera del potere temporale e ricca di quel messaggio di salvezza che non vuole, non può tenere per sé. E i non credenti, a loro volta, hanno bisogno di cristiani che sappiano essere fratelli nella ricerca di senso, di umanità, di liberazione senza opporre al dialogo vecchi canoni o pregiudizi. Carlo Maria Martini era questo. Un testimone di speranza. La speranza che gli uomini insieme possano cambiare la storia, rispondendo più fedelmente alla domanda di Dio oppure a quel desiderio di infinito che è iscritto nell’uomo, qualunque sia la sua fede o il suo dubbio.

Martini non era certo un cattolico del dissenso. Era un uomo del Concilio, un principe della Chiesa, uno dei biblisti più importanti. Ma, quando è stato chiamato, ha fatto il vescovo senza riserve, camminando per le strade di Milano ed esprimendo i suoi consigli e le sue critiche per una Chiesa migliore. Perché non gli sfuggivano i limiti di certi comportamenti e di certe sovrastrutture ecclesiastiche. Soprattutto non accettava che il diritto o la morale potessero prevalere sull’amore degli uomini, l’accoglienza, le vocazioni più profonde. Alcune sue posizioni facevano scandalo, anche se pochi osavano prenderlo di petto, data la sua auterorevolezza e la sua mitezza.

E Martini ha usato questo carisma per compiere il disegno che lui, uomo di preghiera, attribuiva al suo Signore. Ha promosso la cattedra dei non-credenti. È andato a Gerusalemme per vivere sulla linea di frattura tra le religioni monoteiste e tra i popoli del Medioriente. Nel luogo che può diventare la polveriera del mondo, ha parlato di pace mentre la malattia incalzava. E guardava già alla Gerusalemme celeste, promessa di una umanità finalmente illuminata dalla speranza comune.

Non c’è altro modo per onorare Martini che usare i suoi insegnamenti, i suoi pensieri, anche quelli incompiuti, come filo per tessere reti di solidarietà. Ci mancano queste reti. Non c’è società, non c’è politica, non c’è futuro senza fiducia nell’umanità dell’uomo, senza un’ansia di fraternità, senza un senso che ci faccia uscire dalla solitudine.

L’Unità 04.09.12

"Dal banchiere ai vecchi comunisti le mille facce del popolo di Carlo Maria", di Michele Serra

Una moltitudine serena e silenziosa – come sono i milanesi nei momenti migliori – ha salutato Carlo Maria Martini in Duomo, dentro la grande cattedrale oscura. E sulla piazza luminosa che è al tempo stesso, da sempre, sagrato e luogo civico per eccellenza. La folla era così composta che si udivano piuttosto distintamente le singole voci umane e addirittura, nelle pause della liturgia, il battito dei passi attorno.
È stato un funerale solenne e affollato, da quasi papa o quasi da papa, preceduto da un’interminabile omaggio al feretro, una fila durata tre giorni e tre notti che ha fatto dire «c’era tutta Milano», e fa riflettere sulla popolarità non scontata di un uomo poco mediatico e di un intellettuale molto munito, e negli ultimi anni appartato anche a causa del Parkinson, che aveva leso la parola proprio a chi della parola aveva fatto ragione di vita e di magistero.
Essere stato arcivescovo per venti anni, fortemente radicato anche nella Milano non cattolica grazie all’impegno sociale, forse non basta a spiegare, al momento dell’addio, una presenza così massiccia, così ecumenica della città. Nel suo breve e affettuoso saluto finale (l’omelia spettava all’attuale vescovo di Milano, Scola) il successore di Martini, Tettamanzi, ha elogiato, in padre Carlo Maria, “l’arte di ascoltare” e la “capacità di radunare”, la seconda evidente conseguenza della prima. Una fede non escludente (Tettamanzi ha ripetuto per due volte l’oggetto della predicazione di Martini: “a tutti! a tutti!”), una fede calata nella complessità e nel caos della modernità senza mai temerla, senza mai esorcizzarla. Così che sul sagrato, insieme ai tanti credenti che si segnavano e recitavano le parole del rito, erano molti anche i non credenti o i dubbiosi o gli indefinibili che sostavano a braccia conserte, muti e rispettosi testimoni di un lutto municipale, dunque della città intera e non solo della pur rilevantissima comunità cattolica ambrosiana.
A questa folla, e forse anche a qualche fedele, l’omelia del cardinale Scola deve essere sembrata, come dire, un poco esitante rispetto agli specifici meriti del cardinal Martini. Soffermandosi a lungo sul mistero della resurrezione, il “potere di Cristo sulla morte”, “la chiarezza dell’eterno fulgore”, l’attuale pastore della diocesi di Milano ha concesso solo un fugace cenno finale all’interesse del defunto per “la realtà contemporanea”: che pure è ciò che ha fatto di Martini un testimone molto ascoltato anche al di fuori del mondo cattolico. Era come se le parole di Scola tendessero a ricondurre la figura di Martini, orgogliosamente, nell’alveo della Chiesa romana.
Dentro il Duomo e nella piazza, nel frattempo, l’impressionante molteplicità della folla celebrava al massimo livello (cioè al livello del cardinal Martini) la potenza dell’interclassismo cattolico elevata al cubo dalla potenza del dialogo “con tutti”: nessuna manifestazione politica potrebbe mai raccogliere persone così differenti per censo, per condizione sociale, per stile di vita, perfino per abbigliamento… Il mio solo e minuscolo vaglio, quello delle conoscenze personali, mi ha fatto riconoscere un banchiere, una edicolante, un attore, un barista, un’operaia in pensione, un libraio, una segretaria di redazione, un paio di vecchi comunisti, un’amica di mia madre molto pia e una mia amica bidivorziata. Facce di popolo e borghesi brizzolati, aria di centro storico e aria di periferia, signore abbronzate appena rientrate dal mare e casalinghe arrivate in metrò. Unico tratto comune: milanesi.
La sola percepibile mancanza, a guardare meglio, era quella dei ragazzi. Per trovare qualcuno sotto i trent’anni, esclusi i (pochi) bambini per mano ai genitori, era necessario aguzzare la vista. Una società decisamente invecchiata non basta, da sola, a spiegare la vistosa latitanza, in un giorno molto significativo per Milano, dei milanesi giovani. Al mistero della resurrezione poteva dunque sommarsi, nella piazza raccolta a salutare il suo pastore, il mistero di un futuro poco intellegibile, e assente nei suoi più autorevoli rappresentanti, i giovani. Forse neanche il padre Carlo Maria avrebbe saputo spiegare perché al suo funerale di tutti c’era traccia, non dei figli.
La Repubblica 04.09.12
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“Testimone di speranza”, di Claudio Sardo
Carlo Maria Martini è morto da mendicante, come lui stesso descriveva le condizioni di un anziano non più autosufficiente, prendendo in prestito serenamente quell’immagine da un antico proverbio orientale.
Eppure la sua carica umana è diventata all’improvviso una forza di popolo. Come accade talvolta per i profeti, i giusti, i maestri. Un segno vitale di speranza comunitaria nonostante il dolore della morte e il suo mistero. Ha colpito, emozionato quella fila interminabile di cittadini semplici che volevano rendergli omaggio. Eppure non era il cardinale Martini un personaggio pubblico così gettonato e sovraesposto. Anzi era una riserva critica, una figura mite e riflessiva, un uomo di dialoghi sempre impegnativi e scomodi.
Ma il segno di questo tempo di crisi è che, nel profondo, sentiamo il bisogno di forze unificanti, capaci di resistere a questa spinta terribile verso la solitudine, l’egoismo, la paura. Sentiamo un bisogno di autenticità che solo una testimonianza coerente può dare. I cristiani sentono il bisogno di una Chiesa che smetta di difendere i propri bastioni e si riscopra serva, sorella, povera del potere temporale e ricca di quel messaggio di salvezza che non vuole, non può tenere per sé. E i non credenti, a loro volta, hanno bisogno di cristiani che sappiano essere fratelli nella ricerca di senso, di umanità, di liberazione senza opporre al dialogo vecchi canoni o pregiudizi. Carlo Maria Martini era questo. Un testimone di speranza. La speranza che gli uomini insieme possano cambiare la storia, rispondendo più fedelmente alla domanda di Dio oppure a quel desiderio di infinito che è iscritto nell’uomo, qualunque sia la sua fede o il suo dubbio.
Martini non era certo un cattolico del dissenso. Era un uomo del Concilio, un principe della Chiesa, uno dei biblisti più importanti. Ma, quando è stato chiamato, ha fatto il vescovo senza riserve, camminando per le strade di Milano ed esprimendo i suoi consigli e le sue critiche per una Chiesa migliore. Perché non gli sfuggivano i limiti di certi comportamenti e di certe sovrastrutture ecclesiastiche. Soprattutto non accettava che il diritto o la morale potessero prevalere sull’amore degli uomini, l’accoglienza, le vocazioni più profonde. Alcune sue posizioni facevano scandalo, anche se pochi osavano prenderlo di petto, data la sua auterorevolezza e la sua mitezza.
E Martini ha usato questo carisma per compiere il disegno che lui, uomo di preghiera, attribuiva al suo Signore. Ha promosso la cattedra dei non-credenti. È andato a Gerusalemme per vivere sulla linea di frattura tra le religioni monoteiste e tra i popoli del Medioriente. Nel luogo che può diventare la polveriera del mondo, ha parlato di pace mentre la malattia incalzava. E guardava già alla Gerusalemme celeste, promessa di una umanità finalmente illuminata dalla speranza comune.
Non c’è altro modo per onorare Martini che usare i suoi insegnamenti, i suoi pensieri, anche quelli incompiuti, come filo per tessere reti di solidarietà. Ci mancano queste reti. Non c’è società, non c’è politica, non c’è futuro senza fiducia nell’umanità dell’uomo, senza un’ansia di fraternità, senza un senso che ci faccia uscire dalla solitudine.
L’Unità 04.09.12

"La bussola che manca ai test universitari", di Walter Passerini

Una lotteria, una roulette, un gratta e vinci. Da qualche tempo a questa parte, nei primi giorni di settembre, insieme alla vendemmia, si celebra il rito dei test universitari. Beati i primi, perché agli ultimi saranno riservati i posti di serie B, recita un mantra di moda. Ma è proprio così? All’eccitazione dei neo-maturi e delle loro famiglie si accompagnano gli anatemi di vecchi professori e scafati professionisti di successo, che tuonano contro le prove di accesso all’università. Scendono in campo primari e soloni che delegittimano i test e, accarezzando il proprio narcisismo, simulano le risposte, dichiarando che loro stessi, famosi luminari, ne uscirebbero sonoramente bocciati. Un’orgia di banalità, dentro la quale si nascondono i problemi dell’università, il valore del sapere e il futuro delle professioni e del lavoro dei giovani. Sicuramente a guadagnarci sono alcuni editori specializzati e i promotori di corsi di preparazione ai test, un business di decine di milioni di euro reso possibile da un mercato che copre, del tutto legittimamente, le falle del sistema universitario.

Sono migliaia i corsi a numero chiuso e programmato e decine di migliaia i giovani coinvolti, quasi 100 mila solo a Medicina, in un rapporto di otto-nove candidati per un posto.

Il primo vizio che emerge dai test è il sapore nozionistico, un vago odor di muffa, una riproposizione di vecchi esami di maturità, con trucchi e trabocchetti utili a fare vittime più che a valutare attitudini e conoscenze. Nella cosiddetta parte culturale i test sembrano delegittimare gli esami di maturità appena superati, svelando una latente vena di sadismo pedagogico. Ma c’è di più. I test cercano di misurare le attitudini, ma non valutano per nulla le motivazioni; cercano di bruciare la lentezza nelle prove logiche e matematiche, ma non indagano sulle propensioni. Restano quindi ampie aree di miglioramento, ma è la logica che sottende i test a marcarne una malinconica impotenza. Più che l’apprendimento, i test dovrebbero misurare la capacità di apprendere, la propensione e la motivazione a «imparare a imparare», a cui si dovrebbe accompagnare, per gli insegnanti, non solo la capacità di insegnare ma quella di «insegnare a imparare».

Più che figli del merito e strumenti della meritocrazia, invece, i test sembrano figli degeneri della cultura nozionistica che pervade scuola e università e la punta dell’iceberg del fallimento delle politiche di orientamento, scolastico e professionale. Sembrano una barriera, fragile e spesso iniqua, che cerca di rappezzare cinque anni di studi superiori senza orientamento. E’ in quegli anni che devono essere sviluppate valutazioni, misurate attitudini, verificate motivazioni, infittiti dialoghi e offerte indicazioni dalla scuola verso i propri talenti. E’ in quel quinquennio che si fondano le relazioni di aiuto e di apprendimento dei giovani e si costruiscono le vocazioni. E’ su quei percorsi assenti, su quelle occasioni mancate che si infrangono i test e la loro sottocultura. L’università ci mette poi del proprio. La definizione dei numeri chiusi, centralizzati e locali, sembra più rispondere a esigenze organizzative e contabili che a valutazioni di mercato e a fabbisogni effettivamente misurati. Qui si rivela drammaticamente l’ambiguità tra autonomia delle singole università e necessità di fare sistema. E ognuno si salva come può. In una fase di riduzioni e tagli dei finanziamenti alle università ogni ateneo e ogni rettore e preside cerca di programmare i flussi sulla scarsità di risorse e tende a chiudere i rubinetti più che ad aprire varchi che non è sicuro che verranno colmati. Ma l’università con i fichi secchi non si può fare. E anche il dispendioso rito dei test conferma che il re è nudo e ha la vista corta. Quella che qui si rivela, fin dalla progettazione e nella somministrazione dei test, è la mancanza di una bussola forte, che guidi la transizione verso la ricostruzione del capitale umano. Mentre sullo sfondo campeggia il convitato di pietra, il grande assente, di cui scuola e università non possono fare a meno: il mercato del lavoro, percepito più come bestia nera che fonte di opportunità e di sviluppo per tutti.

La Stampa 04.09.12

"La bussola che manca ai test universitari", di Walter Passerini

Una lotteria, una roulette, un gratta e vinci. Da qualche tempo a questa parte, nei primi giorni di settembre, insieme alla vendemmia, si celebra il rito dei test universitari. Beati i primi, perché agli ultimi saranno riservati i posti di serie B, recita un mantra di moda. Ma è proprio così? All’eccitazione dei neo-maturi e delle loro famiglie si accompagnano gli anatemi di vecchi professori e scafati professionisti di successo, che tuonano contro le prove di accesso all’università. Scendono in campo primari e soloni che delegittimano i test e, accarezzando il proprio narcisismo, simulano le risposte, dichiarando che loro stessi, famosi luminari, ne uscirebbero sonoramente bocciati. Un’orgia di banalità, dentro la quale si nascondono i problemi dell’università, il valore del sapere e il futuro delle professioni e del lavoro dei giovani. Sicuramente a guadagnarci sono alcuni editori specializzati e i promotori di corsi di preparazione ai test, un business di decine di milioni di euro reso possibile da un mercato che copre, del tutto legittimamente, le falle del sistema universitario.
Sono migliaia i corsi a numero chiuso e programmato e decine di migliaia i giovani coinvolti, quasi 100 mila solo a Medicina, in un rapporto di otto-nove candidati per un posto.
Il primo vizio che emerge dai test è il sapore nozionistico, un vago odor di muffa, una riproposizione di vecchi esami di maturità, con trucchi e trabocchetti utili a fare vittime più che a valutare attitudini e conoscenze. Nella cosiddetta parte culturale i test sembrano delegittimare gli esami di maturità appena superati, svelando una latente vena di sadismo pedagogico. Ma c’è di più. I test cercano di misurare le attitudini, ma non valutano per nulla le motivazioni; cercano di bruciare la lentezza nelle prove logiche e matematiche, ma non indagano sulle propensioni. Restano quindi ampie aree di miglioramento, ma è la logica che sottende i test a marcarne una malinconica impotenza. Più che l’apprendimento, i test dovrebbero misurare la capacità di apprendere, la propensione e la motivazione a «imparare a imparare», a cui si dovrebbe accompagnare, per gli insegnanti, non solo la capacità di insegnare ma quella di «insegnare a imparare».
Più che figli del merito e strumenti della meritocrazia, invece, i test sembrano figli degeneri della cultura nozionistica che pervade scuola e università e la punta dell’iceberg del fallimento delle politiche di orientamento, scolastico e professionale. Sembrano una barriera, fragile e spesso iniqua, che cerca di rappezzare cinque anni di studi superiori senza orientamento. E’ in quegli anni che devono essere sviluppate valutazioni, misurate attitudini, verificate motivazioni, infittiti dialoghi e offerte indicazioni dalla scuola verso i propri talenti. E’ in quel quinquennio che si fondano le relazioni di aiuto e di apprendimento dei giovani e si costruiscono le vocazioni. E’ su quei percorsi assenti, su quelle occasioni mancate che si infrangono i test e la loro sottocultura. L’università ci mette poi del proprio. La definizione dei numeri chiusi, centralizzati e locali, sembra più rispondere a esigenze organizzative e contabili che a valutazioni di mercato e a fabbisogni effettivamente misurati. Qui si rivela drammaticamente l’ambiguità tra autonomia delle singole università e necessità di fare sistema. E ognuno si salva come può. In una fase di riduzioni e tagli dei finanziamenti alle università ogni ateneo e ogni rettore e preside cerca di programmare i flussi sulla scarsità di risorse e tende a chiudere i rubinetti più che ad aprire varchi che non è sicuro che verranno colmati. Ma l’università con i fichi secchi non si può fare. E anche il dispendioso rito dei test conferma che il re è nudo e ha la vista corta. Quella che qui si rivela, fin dalla progettazione e nella somministrazione dei test, è la mancanza di una bussola forte, che guidi la transizione verso la ricostruzione del capitale umano. Mentre sullo sfondo campeggia il convitato di pietra, il grande assente, di cui scuola e università non possono fare a meno: il mercato del lavoro, percepito più come bestia nera che fonte di opportunità e di sviluppo per tutti.
La Stampa 04.09.12