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"Dal banchiere ai vecchi comunisti le mille facce del popolo di Carlo Maria", di Michele Serra

Una moltitudine serena e silenziosa – come sono i milanesi nei momenti migliori – ha salutato Carlo Maria Martini in Duomo, dentro la grande cattedrale oscura. E sulla piazza luminosa che è al tempo stesso, da sempre, sagrato e luogo civico per eccellenza. La folla era così composta che si udivano piuttosto distintamente le singole voci umane e addirittura, nelle pause della liturgia, il battito dei passi attorno.
È stato un funerale solenne e affollato, da quasi papa o quasi da papa, preceduto da un’interminabile omaggio al feretro, una fila durata tre giorni e tre notti che ha fatto dire «c’era tutta Milano», e fa riflettere sulla popolarità non scontata di un uomo poco mediatico e di un intellettuale molto munito, e negli ultimi anni appartato anche a causa del Parkinson, che aveva leso la parola proprio a chi della parola aveva fatto ragione di vita e di magistero.
Essere stato arcivescovo per venti anni, fortemente radicato anche nella Milano non cattolica grazie all’impegno sociale, forse non basta a spiegare, al momento dell’addio, una presenza così massiccia, così ecumenica della città. Nel suo breve e affettuoso saluto finale (l’omelia spettava all’attuale vescovo di Milano, Scola) il successore di Martini, Tettamanzi, ha elogiato, in padre Carlo Maria, “l’arte di ascoltare” e la “capacità di radunare”, la seconda evidente conseguenza della prima. Una fede non escludente (Tettamanzi ha ripetuto per due volte l’oggetto della predicazione di Martini: “a tutti! a tutti!”), una fede calata nella complessità e nel caos della modernità senza mai temerla, senza mai esorcizzarla. Così che sul sagrato, insieme ai tanti credenti che si segnavano e recitavano le parole del rito, erano molti anche i non credenti o i dubbiosi o gli indefinibili che sostavano a braccia conserte, muti e rispettosi testimoni di un lutto municipale, dunque della città intera e non solo della pur rilevantissima comunità cattolica ambrosiana.
A questa folla, e forse anche a qualche fedele, l’omelia del cardinale Scola deve essere sembrata, come dire, un poco esitante rispetto agli specifici meriti del cardinal Martini. Soffermandosi a lungo sul mistero della resurrezione, il “potere di Cristo sulla morte”, “la chiarezza dell’eterno fulgore”, l’attuale pastore della diocesi di Milano ha concesso solo un fugace cenno finale all’interesse del defunto per “la realtà contemporanea”: che pure è ciò che ha fatto di Martini un testimone molto ascoltato anche al di fuori del mondo cattolico. Era come se le parole di Scola tendessero a ricondurre la figura di Martini, orgogliosamente, nell’alveo della Chiesa romana.
Dentro il Duomo e nella piazza, nel frattempo, l’impressionante molteplicità della folla celebrava al massimo livello (cioè al livello del cardinal Martini) la potenza dell’interclassismo cattolico elevata al cubo dalla potenza del dialogo “con tutti”: nessuna manifestazione politica potrebbe mai raccogliere persone così differenti per censo, per condizione sociale, per stile di vita, perfino per abbigliamento… Il mio solo e minuscolo vaglio, quello delle conoscenze personali, mi ha fatto riconoscere un banchiere, una edicolante, un attore, un barista, un’operaia in pensione, un libraio, una segretaria di redazione, un paio di vecchi comunisti, un’amica di mia madre molto pia e una mia amica bidivorziata. Facce di popolo e borghesi brizzolati, aria di centro storico e aria di periferia, signore abbronzate appena rientrate dal mare e casalinghe arrivate in metrò. Unico tratto comune: milanesi.
La sola percepibile mancanza, a guardare meglio, era quella dei ragazzi. Per trovare qualcuno sotto i trent’anni, esclusi i (pochi) bambini per mano ai genitori, era necessario aguzzare la vista. Una società decisamente invecchiata non basta, da sola, a spiegare la vistosa latitanza, in un giorno molto significativo per Milano, dei milanesi giovani. Al mistero della resurrezione poteva dunque sommarsi, nella piazza raccolta a salutare il suo pastore, il mistero di un futuro poco intellegibile, e assente nei suoi più autorevoli rappresentanti, i giovani. Forse neanche il padre Carlo Maria avrebbe saputo spiegare perché al suo funerale di tutti c’era traccia, non dei figli.
La Repubblica 04.09.12
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“Testimone di speranza”, di Claudio Sardo
Carlo Maria Martini è morto da mendicante, come lui stesso descriveva le condizioni di un anziano non più autosufficiente, prendendo in prestito serenamente quell’immagine da un antico proverbio orientale.
Eppure la sua carica umana è diventata all’improvviso una forza di popolo. Come accade talvolta per i profeti, i giusti, i maestri. Un segno vitale di speranza comunitaria nonostante il dolore della morte e il suo mistero. Ha colpito, emozionato quella fila interminabile di cittadini semplici che volevano rendergli omaggio. Eppure non era il cardinale Martini un personaggio pubblico così gettonato e sovraesposto. Anzi era una riserva critica, una figura mite e riflessiva, un uomo di dialoghi sempre impegnativi e scomodi.
Ma il segno di questo tempo di crisi è che, nel profondo, sentiamo il bisogno di forze unificanti, capaci di resistere a questa spinta terribile verso la solitudine, l’egoismo, la paura. Sentiamo un bisogno di autenticità che solo una testimonianza coerente può dare. I cristiani sentono il bisogno di una Chiesa che smetta di difendere i propri bastioni e si riscopra serva, sorella, povera del potere temporale e ricca di quel messaggio di salvezza che non vuole, non può tenere per sé. E i non credenti, a loro volta, hanno bisogno di cristiani che sappiano essere fratelli nella ricerca di senso, di umanità, di liberazione senza opporre al dialogo vecchi canoni o pregiudizi. Carlo Maria Martini era questo. Un testimone di speranza. La speranza che gli uomini insieme possano cambiare la storia, rispondendo più fedelmente alla domanda di Dio oppure a quel desiderio di infinito che è iscritto nell’uomo, qualunque sia la sua fede o il suo dubbio.
Martini non era certo un cattolico del dissenso. Era un uomo del Concilio, un principe della Chiesa, uno dei biblisti più importanti. Ma, quando è stato chiamato, ha fatto il vescovo senza riserve, camminando per le strade di Milano ed esprimendo i suoi consigli e le sue critiche per una Chiesa migliore. Perché non gli sfuggivano i limiti di certi comportamenti e di certe sovrastrutture ecclesiastiche. Soprattutto non accettava che il diritto o la morale potessero prevalere sull’amore degli uomini, l’accoglienza, le vocazioni più profonde. Alcune sue posizioni facevano scandalo, anche se pochi osavano prenderlo di petto, data la sua auterorevolezza e la sua mitezza.
E Martini ha usato questo carisma per compiere il disegno che lui, uomo di preghiera, attribuiva al suo Signore. Ha promosso la cattedra dei non-credenti. È andato a Gerusalemme per vivere sulla linea di frattura tra le religioni monoteiste e tra i popoli del Medioriente. Nel luogo che può diventare la polveriera del mondo, ha parlato di pace mentre la malattia incalzava. E guardava già alla Gerusalemme celeste, promessa di una umanità finalmente illuminata dalla speranza comune.
Non c’è altro modo per onorare Martini che usare i suoi insegnamenti, i suoi pensieri, anche quelli incompiuti, come filo per tessere reti di solidarietà. Ci mancano queste reti. Non c’è società, non c’è politica, non c’è futuro senza fiducia nell’umanità dell’uomo, senza un’ansia di fraternità, senza un senso che ci faccia uscire dalla solitudine.
L’Unità 04.09.12