Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l’immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n’è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi? No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell’incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. «Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita». Così diceva e così faceva.
È morto nel pomeriggio di venerdì, i medici l’avevano già sedato, ma la mattina di giovedì aveva ancora celebrato la messa e mormorato dentro di sé il Vangelo perché la voce era del tutto scomparsa, le mani non reggevano più neppure l’ostia e non deglutiva. Ma la mente era vigile, la fede intatta e lui sorretto davanti all’altare ne era la prova vivente.
Pochi giorni prima aveva risposto ad un suo confratello che gli chiedeva quale fosse lo stato della Chiesa: «C’è ancora una brace ardente nel braciere, ma lo strato di cenere che la ricopre ha un tale spessore che rischia di spegnerla del tutto. Perciò bisogna disperdere quella cenere perché il fuoco torni a riaccendersi».
Chi l’ha seguito condividendone la fede dovrà ora impegnarsi a disperdere quella cenere ma dubito molto che si riesca.
Chi ne ha apprezzato il coraggio e la modernità di pensiero dovrà farne uso per evitare che la modernità si incanaglisca nello schiamazzo e si impantani negli egoismi e nella palude dell’indifferenza.
Questo è il tema che oggi voglio affrontare. Lo dedico a lui per la sua lotta contro tutte le simonie. Quella lotta è anche la nostra e la sua immagine
ci incita a restarle fedele.
* * *
Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. C’è rabbia in Siria, in Iran, in Palestina, in tutto il continente africano dal nord al sud e dall’est all’ovest; c’è rabbia in Russia, in Ucraina, in Cina, in Giappone, nelle Filippine. E in tutti i Paesi di antica opulenza, oggi in crisi, in perdita di velocità e costretti a darsi carico delle rabbie altrui e delle proprie.
La rabbia sociale accresce gli egoismi e ottunde la consapevolezza. Chi odia è posseduto da nevrosi di gelosa invidia e da istinti distruttivi. Chi odia vuole distruggere. La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi.
La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito – così insegna la storia – non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma.
Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù.
La storia è gremita di esempi, ma noi ne abbiamo avuti in casa di recenti. L’arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi.
I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia.
La democrazia ha come condizione preliminare l’esistenza dello Stato. L’Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia.
Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi.
Il procuratore generale dell’antimafia ha detto l’altro giorno che «menti finissime sono al lavoro per colpire le Procure e il capo dello Stato». Può darsi che sia così, ma non credo ci vogliano menti finissime. In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e
ancora non si è capito il perché.
* * *
I focolai dell’incendio sono numerosi ma il più esteso deriva dal fatto che l’economia europea è da un anno in recessione e ci resterà per un altro anno ancora. Noi siamo purtroppo in testa a questa classifica per una ragione evidente: siamo in coda nel tasso di produttività, di crescita e di investimenti; per di più abbiamo accumulato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.
Responsabilità? Generali. La politica ne ha molte perché ha sempre preferito guardare all’oggi anziché al domani; una responsabilità non minore ce l’hanno il capitalismo italiano, le lobby, le clientele. Anche i sindacati, forse un po’ meno di altri ma comunque non trascurabili: hanno difeso più il posto di lavoro che il lavoro, favorendo in questo modo l’ingessatura del sistema produttivo e rendendo difficile la mobilità sociale. Questo non è un errore da poco, caro Landini.
Adesso molti di questi nodi sono arrivati al pettine e i sacrifici sono diventati necessari. Ma i sacrifici non piacciono a nessuno e scatenano la rabbia sociale. «Vengono colpiti i soliti noti». In gran parte è vero ma bisognerebbe anche capire che mille euro tolti a 20 milioni di persone
dovrebbero salire a duecentomila euro se le persone fossero soltanto centomila di numero. Gli evasori ovviamente sono infinitamente di più e per quanto li riguarda il problema è la loro rintracciabilità.
Comunque: i sacrifici non piacciono a nessuno ed è quindi normale che creino disagio, in certi casi anche molto acuto. Poi ci sono focolai di incendio più ristretti nella loro estensione ma molto più intensi.
* * *
Uno di questi è certamente l’Alcoa che gestisce le miniere sarde di carbone allo zolfo. Quelle miniere – lo ricorda Alessandro Penati su la Repubblicadi ieri – furono aperte a metà dell’Ottocento. Poi furono chiuse perché il carbone di quella qualità non aveva mercato e la sua produzione era antieconomica. Ma poiché in quella zona della Sardegna non c’erano altre risorse per creare lavoro, la sequenza di aperture, chiusure e riaperture delle miniere fu continua ed è durata fino ad oggi passando dallo Stato all’Iri, all’Enel, all’Eni. Infine anche l’Eni chiuse perché il carbone allo zolfo non lo comprava nessuno.
Lo Stato però riuscì a vendere le miniere alla società canadese Alcoa che produce alluminio ed ha bisogno di carbone. Il costo di quello del Sulcis era fuori mercato e l’Alcoa accettò il contratto solo se lo Stato gli avesse fornito l’energia elettrica necessaria alla produzione di alluminio a prezzo sussidiato. Il contratto è durato 15 anni, il sussidio è stato pagato da ciascuno di noi nella bolletta dell’energia elettrica. Adesso è scaduto e lo Stato non lo ha rinnovato, per cui l’Alcoa se ne va salvo nuove trattative per nuove soluzioni.
La rabbia dei cinquecento minatori si è almeno in parte placata dopo l’annuncio dato dal ministro Passera a trecento metri di profondità e forse una soluzione sta per essere trovata.
È invece ancora in altissimo mare la questione dell’Ilva di Taranto. La riassumo con le parole del giovane attore Riondino che è uno degli esponenti nel movimento di protesta tarantino: «I lavoratori dell’Ilva, compreso l’indotto, sono diciottomila. Diciamo pure che considerando il sub-indotto arrivino a trentamila. Sono molti e la chiusura dell’azienda per loro è una catastrofe. Ma la popolazione di Taranto, compresi quei trentamila lavoratori, è di 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi, respirano polvere di carbone dalla mattina alla sera: un’incubazione che passa da una generazione all’altra e che mette Taranto al più alto livello di tumori delle vie respiratorie».
Questo è il problema. La rabbia dei lavoratori si somma a quella di tutti gli abitanti per due ragioni diverse anzi opposte: il lavoro e la salute. I sindacati e le parti politiche di riferimento vorrebbero conciliare le due cose, ma ci vuole molto tempo e moltissimi soldi che lo Stato non ha. E quindi la rabbia infuria. Di esempi analoghi c’è una lista lunghissima. Ciascuno produce rabbia. I motivi, le cause, le responsabilità sono diversi, ma tutto si unifica. Agitate con energia e il cocktail è pronto.
* * *
Tanti fiumi più o meno fangosi si uniscono a valle in un solo grande fiume e un solo delta, ma quel delta diventa palude perché manca – vedi caso – la liquidità.
Nel caso specifico la liquidità è Draghi che dovrebbe darla e a quanto risulta sembra deciso a farlo. Darà battaglia il 6 prossimo al Consiglio direttivo della Bce e aspetterà il 12 la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo salva-Stati. Poi si muoverà. Forse, per superare l’opposizione della Bundesbank, chiederà l’ok dell’Ue e Monti dovrà fare in modo di farglielo avere impegnandosi ad un calendario rigoroso per attuare iniziative già approvate dal Parlamento che attendono però i decreti attuativi.
L’intervento di Draghi sarà della massima importanza per uscire dal pantano, mitigare le rabbie, depotenziare i demagoghi e consentire che Monti porti a termine il suo lavoro con l’appoggio indispensabile del presidente della Repubblica, senza il quale saremmo da un pezzo finiti nell’immondezzaio dell’Europa.
Ma è anche necessario uno sfondo politico per un’Europa politica. Ci sarà?
Il cardinale Martini si occupò anche di questo problema e lo espose con parole chiarissime dinanzi al Parlamento di Strasburgo dove fu invitato a parlare nel 1997. Trascrivo le sue parole a chiusura di questo articolo che ho a lui dedicato.
«L’Europa si trova dinanzi a un bivio decisivo della sua storia. Da un lato si apre la strada d’una più stretta integrazione politica che coinvolga i popoli europei e le loro istituzioni. Dall’altro ci può essere un arresto del processo di unificazione o una sua riduzione solo da alcuni aspetti economici e limitatamente ad alcuni Paesi».
Questo è il dilemma: la nascita d’una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica. Gli italiani responsabili non possono essere indifferenti di fronte a questo dilemma.
La Repubblica 02.09.12
Latest Posts
"La trappola dell'anti spread", di Stefano Fassina
Il bollettino di guerra del lavoro arriva, anche da noi, puntuale ogni mese. Allarghiamo lo zoom. Guardiamo alla comunità della moneta unica. I dati di luglio sulla disoccupazione nell`euro-zona sono l`effetto inevitabile della recessione in corso. Una emorragia continua in particolare per le generazioni più giovani, per le quali si arriva, anche nel nostro Mezzogiorno, al 50% di senza speranza. Recessione in corso, stagnazione prevista per il prossimo anno e ulteriore au- mento della disoccupazione si riflettono nell`innalzamento del debito pubblico in tutti i Paesi dell`Eurozona, in particolare per quelli impegnati nei programmi sottoscritti con la troika Commissione Europea, Bce, Fmi. Distruggiamo piano piano le condizioni di crescita potenziale: lavoro e impresa. Di quali ulteriori prove abbiamo bisogno per riconoscere che la ricetta conservatrice prevalente, ossia austerità auto-distruttiva e svalutazione del lavoro, non soltanto non funziona, ma aggrava i problemi della finanza pubblica e gli squilibri macroeconomici?
Gli spread dei Paesi periferici rimangono elevati perché la strada seguita rende sempre meno sostenibile l`euro, sul piano politico, prima che economico.
Per ridurre il debito pubblico, obiettivo imprescindibile, è necessario cambiare rotta nell`E urozona, rianimare la domanda aggregata e ridurre le divergenze tra gli andamenti della produttività. Quali priorità, lungo la strada dell`unione politica?
1) Arrivare alla fiscal union, come condizione politica per sbloccare il cammino. L`inserimento nelle Costituzioni dell`equilibrio di bilancio pubblico e l`approvazione del fiscal compact sono insufficienti a garantire le opinioni pubbliche dei “Paesi virtuosi”. Per evitare di continuare a normare obiettivi sempre meno realistici, e quindi sempre meno credibili nella folle corsa lungo la strada dell`ammanettamento dei risicati spazi nazionali della politica, va prevista l`autorizzazione preventiva da parte del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell`Eurozona per la presentazione al Parlamento di ciascun Paese membro della Legge di Bilancio. Insieme, vanno previste correzioni automatiche, come raccomandato dall`Institute for New Economie Thinking, in termini di maggiori imposte e minori spese correnti, per compensare sforamenti.
2) Allentare, in tutta l`Eurozona, l`austerità autodistruttiva, in particolare nei Paesi sotto programma e in quelli, come l`Italia, dove le scelte irresponsabili del Governo Berlusconi hanno fissato il pareggio di bilancio al 2013, in un disperato tentativo di colmare un`irrecuperabile assenza di credibilità politica. Ad esempio, introdurre una golden rule per dare ossigeno agli investimenti produttivi.
3) Lanciare, in quantità adeguata, euro-project bonds (da garantire secondo lo schema Prodi-Quadrio Curzio) e applicare una tassa sulle transazioni finanziare per realizzare investimenti trans-europei e contribuire a recuperare i differenziali di produttività tra aree della moneta unica.
4) Contrastare i paradisi fiscali e la competizione fiscale al ribasso e applicare uno standard retributivo per evitare il dumping salariale e tenere agganciata, in ciascun contesto nazionale, la dinamica settoriale delle retribuzioni alla corrispondente produttività.
5) Definire e attuare la banking union programmata al Consiglio europeo del 28 e 29 Giugno scorso.
6) Introdurre un regime di ristrutturazione del debito pubblico, senza perdite in conto capitale, con significativo allungamento delle scadenze e abbattimento dei tassi di interessi applicati. In tale contesto istituzionale e macroeconomico, perderebbe centralità la funzione del fondo “Salva-Stati” sul quale anche il nostro Governo continua a insistere nell`infondata convinzione che gli elevati spread dipendano da mercati intellettualmente ritardati o preoccupati dal ritorno dei barbari a Palazzo Chigi dopo la stagione della tecnocrazia illuminata. Non dobbiamo chiedere l`intervento del Fondo.
Sarebbe dannoso sul piano economico e democratico, data l`assenza di mandato elettorale del governo Monti e le elezioni in arrivo. Per ragioni di spazio non ripetiamo le priorità di politica economica interna. Sono note: infrastrutture; politiche industriali; redistribuzione del carico fiscale; pubbliche amministrazioni, in primis la macchina della giustizia; legalità; assetto delle istituzioni politiche.
Tuttavia, i problemi esistenziali dell`euro sono sistemici. Forse, tale punto andrebbe ricordato alla signora Merkel che ci promuove mentre capitali tedeschi, raccolti a tassi negativi, si preparano a fare shopping a buon mercato delle nostre aziende di qualità. Insomma, è necessaria una politica economica progressista, innanzitutto europea, orientata allo sviluppo e al lavoro, come indicato nell`Agenda Bersani. Altrimenti, oltre a un futuro di debito pubblico sempre più alto, condanniamo le generazioni più giovani, in Italia e in Europa, a un presente di disperazione e le spingiamo tra le braccia dei populismi anti-europeisti, nazionalisti e xenofobi.
L’Unità 01.09.12
"La trappola dell'anti spread", di Stefano Fassina
Il bollettino di guerra del lavoro arriva, anche da noi, puntuale ogni mese. Allarghiamo lo zoom. Guardiamo alla comunità della moneta unica. I dati di luglio sulla disoccupazione nell`euro-zona sono l`effetto inevitabile della recessione in corso. Una emorragia continua in particolare per le generazioni più giovani, per le quali si arriva, anche nel nostro Mezzogiorno, al 50% di senza speranza. Recessione in corso, stagnazione prevista per il prossimo anno e ulteriore au- mento della disoccupazione si riflettono nell`innalzamento del debito pubblico in tutti i Paesi dell`Eurozona, in particolare per quelli impegnati nei programmi sottoscritti con la troika Commissione Europea, Bce, Fmi. Distruggiamo piano piano le condizioni di crescita potenziale: lavoro e impresa. Di quali ulteriori prove abbiamo bisogno per riconoscere che la ricetta conservatrice prevalente, ossia austerità auto-distruttiva e svalutazione del lavoro, non soltanto non funziona, ma aggrava i problemi della finanza pubblica e gli squilibri macroeconomici?
Gli spread dei Paesi periferici rimangono elevati perché la strada seguita rende sempre meno sostenibile l`euro, sul piano politico, prima che economico.
Per ridurre il debito pubblico, obiettivo imprescindibile, è necessario cambiare rotta nell`E urozona, rianimare la domanda aggregata e ridurre le divergenze tra gli andamenti della produttività. Quali priorità, lungo la strada dell`unione politica?
1) Arrivare alla fiscal union, come condizione politica per sbloccare il cammino. L`inserimento nelle Costituzioni dell`equilibrio di bilancio pubblico e l`approvazione del fiscal compact sono insufficienti a garantire le opinioni pubbliche dei “Paesi virtuosi”. Per evitare di continuare a normare obiettivi sempre meno realistici, e quindi sempre meno credibili nella folle corsa lungo la strada dell`ammanettamento dei risicati spazi nazionali della politica, va prevista l`autorizzazione preventiva da parte del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell`Eurozona per la presentazione al Parlamento di ciascun Paese membro della Legge di Bilancio. Insieme, vanno previste correzioni automatiche, come raccomandato dall`Institute for New Economie Thinking, in termini di maggiori imposte e minori spese correnti, per compensare sforamenti.
2) Allentare, in tutta l`Eurozona, l`austerità autodistruttiva, in particolare nei Paesi sotto programma e in quelli, come l`Italia, dove le scelte irresponsabili del Governo Berlusconi hanno fissato il pareggio di bilancio al 2013, in un disperato tentativo di colmare un`irrecuperabile assenza di credibilità politica. Ad esempio, introdurre una golden rule per dare ossigeno agli investimenti produttivi.
3) Lanciare, in quantità adeguata, euro-project bonds (da garantire secondo lo schema Prodi-Quadrio Curzio) e applicare una tassa sulle transazioni finanziare per realizzare investimenti trans-europei e contribuire a recuperare i differenziali di produttività tra aree della moneta unica.
4) Contrastare i paradisi fiscali e la competizione fiscale al ribasso e applicare uno standard retributivo per evitare il dumping salariale e tenere agganciata, in ciascun contesto nazionale, la dinamica settoriale delle retribuzioni alla corrispondente produttività.
5) Definire e attuare la banking union programmata al Consiglio europeo del 28 e 29 Giugno scorso.
6) Introdurre un regime di ristrutturazione del debito pubblico, senza perdite in conto capitale, con significativo allungamento delle scadenze e abbattimento dei tassi di interessi applicati. In tale contesto istituzionale e macroeconomico, perderebbe centralità la funzione del fondo “Salva-Stati” sul quale anche il nostro Governo continua a insistere nell`infondata convinzione che gli elevati spread dipendano da mercati intellettualmente ritardati o preoccupati dal ritorno dei barbari a Palazzo Chigi dopo la stagione della tecnocrazia illuminata. Non dobbiamo chiedere l`intervento del Fondo.
Sarebbe dannoso sul piano economico e democratico, data l`assenza di mandato elettorale del governo Monti e le elezioni in arrivo. Per ragioni di spazio non ripetiamo le priorità di politica economica interna. Sono note: infrastrutture; politiche industriali; redistribuzione del carico fiscale; pubbliche amministrazioni, in primis la macchina della giustizia; legalità; assetto delle istituzioni politiche.
Tuttavia, i problemi esistenziali dell`euro sono sistemici. Forse, tale punto andrebbe ricordato alla signora Merkel che ci promuove mentre capitali tedeschi, raccolti a tassi negativi, si preparano a fare shopping a buon mercato delle nostre aziende di qualità. Insomma, è necessaria una politica economica progressista, innanzitutto europea, orientata allo sviluppo e al lavoro, come indicato nell`Agenda Bersani. Altrimenti, oltre a un futuro di debito pubblico sempre più alto, condanniamo le generazioni più giovani, in Italia e in Europa, a un presente di disperazione e le spingiamo tra le braccia dei populismi anti-europeisti, nazionalisti e xenofobi.
L’Unità 01.09.12
"I falsi miti del lavoro e il secondo welfare", di Maurizio Ferrara
La disoccupazione è salita ancora, in particolare fra i giovani. Tutti dicono: c’è la crisi, dobbiamo rassegnarci e aspettare che l’economia riparta. Il governo assicura che sta facendo il possibile e ha appena presentato un’articolata agenda per la crescita. Benissimo, ma possiamo fidarci? Coi tempi che tirano in Europa e considerando la nostra bassa capacità di attuare le riforme, la ripresa non potrà essere né rapida né impetuosa. La creazione di «posti fissi» da parte di industria, trasporti, edilizia, pubblica amministrazione, commercio (i settori tradizionalmente più dinamici dal punto di vista occupazionale) non sarà perciò sufficiente per assorbire lo stock di giovani inattivi, disoccupati e precari.
Su che cosa puntare? Ci sono altri settori capaci di creare occupazione, con prospettive di crescita più favorevoli e più influenzabili nel breve dalle politiche economiche e fiscali? Si, ci sono i servizi: alle imprese, ai consumatori, alle famiglie. È su questo fronte che dobbiamo concentrare gli sforzi per affrontare seriamente l’emergenza lavoro.
L’Italia ha un forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Prendiamo i «giovani» fra i 15 e i 39 anni. Da noi il tasso di occupazione è 57%. In Francia è il 62%, in Inghilterra il 70 per cento. Il divario italiano è quasi interamente spiegato dal «vuoto» dei servizi. Su cento giovani lavoratori inglesi, sei trovano impiego in questo settore: in Francia più di cinque, in Italia solo 4. E che lavori fanno questi giovani stranieri? I comparti trainanti sono sanità, istruzione, finanza, informatica e comunicazione, turismo, cultura. Si stenta a crederlo, ma in quest’ultimo comparto il tasso di occupazione giovanile inglese è tre volte più alto di quello italiano: un vero paradosso, per un Paese con le tradizioni e le ricchezze italiane.
Certo, non tutti i posti di lavoro sono «di qualità»: negli ospedali o negli alberghi c’è chi fa le pulizie o chi sta in cucina, nella cultura c’è chi fa il guardiano di museo o chi stacca i biglietti. E moltissimi impieghi sono flessibili: a termine, part time, interinali e così via. Ma sono comunque lavori. Una fonte di reddito, di integrazione sociale, un punto di inizio verso posizioni più stabili e gratificanti. I servizi necessitano anche (e in misura crescente) di personale altamente qualificato, molto spesso con buona formazione tecnico-scientifica.
Il buco particolarmente vistoso nel nostro Paese riguarda i servizi sociali alle persone. Qui trovano occupazione solo 600 mila giovani italiani, di contro al milione e mezzo di Francia e Inghilterra. I mestieri più diffusi sono: assistenti all’infanzia, ai disabili, agli anziani fragili, para-medici, animatori, educatori, operatori sociali, formatori. Le professioni, insomma, di quel «secondo welfare» che accompagna e integra il sistema pubblico e che in Italia stenta a decollare, penalizzando in particolare le donne con figli (si veda il sito www.secondowelfare.it).
Come sono riusciti gli altri Paesi a espandere i servizi? Un ruolo di primo piano è stato svolto dai governi, attraverso un mix intelligente di sgravi contributivi per i datori di lavoro, agevolazioni fiscali e in qualche caso sussidi per i consumatori, coordinamento e regia da parte dell’amministrazione pubblica.
L’elemento più importante di queste esperienze straniere è che, una volta decollati, i servizi «tirano» da soli. Secondo un recente rapporto del governo francese, l’incremento occupazionale dei prossimi dieci anni si concentrerà quasi tutto nel terziario. Sanità, assistenza, istruzione, cultura, turismo, servizi alle imprese potranno creare in dieci anni un milione e 300 mila posti. Serviranno medici, infermieri, insegnanti, tecnici, informatici, ingegneri «dei servizi», esperti di gestione (e anche qualche «creativo»). Industria, edilizia, trasporti apriranno poco più di 200 mila accessi. Certo, la struttura economica francese è diversa dalla nostra, qui l’industria pesa di più. Espandere i servizi non significa però affatto comprimere l’industria in termini assoluti (ci mancherebbe) ma solo relativi, come peraltro sta avvenendo in tutta Europa.
L’agenda per la crescita elaborata dal governo Monti contiene qualche misura indirettamente volta a far crescere il nostro arretrato settore terziario: liberalizzazioni, semplificazioni, piani per il turismo, coesione sociale, non autosufficienza, riordino delle agevolazioni. Ma servirebbe una strategia più mirata e sistematica. Se la nuova economia dei servizi non decolla, dobbiamo davvero rassegnarci a convivere molto a lungo con una disoccupazione giovanile a due cifre.
Il Corriere della Sera 01.09.12
"I falsi miti del lavoro e il secondo welfare", di Maurizio Ferrara
La disoccupazione è salita ancora, in particolare fra i giovani. Tutti dicono: c’è la crisi, dobbiamo rassegnarci e aspettare che l’economia riparta. Il governo assicura che sta facendo il possibile e ha appena presentato un’articolata agenda per la crescita. Benissimo, ma possiamo fidarci? Coi tempi che tirano in Europa e considerando la nostra bassa capacità di attuare le riforme, la ripresa non potrà essere né rapida né impetuosa. La creazione di «posti fissi» da parte di industria, trasporti, edilizia, pubblica amministrazione, commercio (i settori tradizionalmente più dinamici dal punto di vista occupazionale) non sarà perciò sufficiente per assorbire lo stock di giovani inattivi, disoccupati e precari.
Su che cosa puntare? Ci sono altri settori capaci di creare occupazione, con prospettive di crescita più favorevoli e più influenzabili nel breve dalle politiche economiche e fiscali? Si, ci sono i servizi: alle imprese, ai consumatori, alle famiglie. È su questo fronte che dobbiamo concentrare gli sforzi per affrontare seriamente l’emergenza lavoro.
L’Italia ha un forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Prendiamo i «giovani» fra i 15 e i 39 anni. Da noi il tasso di occupazione è 57%. In Francia è il 62%, in Inghilterra il 70 per cento. Il divario italiano è quasi interamente spiegato dal «vuoto» dei servizi. Su cento giovani lavoratori inglesi, sei trovano impiego in questo settore: in Francia più di cinque, in Italia solo 4. E che lavori fanno questi giovani stranieri? I comparti trainanti sono sanità, istruzione, finanza, informatica e comunicazione, turismo, cultura. Si stenta a crederlo, ma in quest’ultimo comparto il tasso di occupazione giovanile inglese è tre volte più alto di quello italiano: un vero paradosso, per un Paese con le tradizioni e le ricchezze italiane.
Certo, non tutti i posti di lavoro sono «di qualità»: negli ospedali o negli alberghi c’è chi fa le pulizie o chi sta in cucina, nella cultura c’è chi fa il guardiano di museo o chi stacca i biglietti. E moltissimi impieghi sono flessibili: a termine, part time, interinali e così via. Ma sono comunque lavori. Una fonte di reddito, di integrazione sociale, un punto di inizio verso posizioni più stabili e gratificanti. I servizi necessitano anche (e in misura crescente) di personale altamente qualificato, molto spesso con buona formazione tecnico-scientifica.
Il buco particolarmente vistoso nel nostro Paese riguarda i servizi sociali alle persone. Qui trovano occupazione solo 600 mila giovani italiani, di contro al milione e mezzo di Francia e Inghilterra. I mestieri più diffusi sono: assistenti all’infanzia, ai disabili, agli anziani fragili, para-medici, animatori, educatori, operatori sociali, formatori. Le professioni, insomma, di quel «secondo welfare» che accompagna e integra il sistema pubblico e che in Italia stenta a decollare, penalizzando in particolare le donne con figli (si veda il sito www.secondowelfare.it).
Come sono riusciti gli altri Paesi a espandere i servizi? Un ruolo di primo piano è stato svolto dai governi, attraverso un mix intelligente di sgravi contributivi per i datori di lavoro, agevolazioni fiscali e in qualche caso sussidi per i consumatori, coordinamento e regia da parte dell’amministrazione pubblica.
L’elemento più importante di queste esperienze straniere è che, una volta decollati, i servizi «tirano» da soli. Secondo un recente rapporto del governo francese, l’incremento occupazionale dei prossimi dieci anni si concentrerà quasi tutto nel terziario. Sanità, assistenza, istruzione, cultura, turismo, servizi alle imprese potranno creare in dieci anni un milione e 300 mila posti. Serviranno medici, infermieri, insegnanti, tecnici, informatici, ingegneri «dei servizi», esperti di gestione (e anche qualche «creativo»). Industria, edilizia, trasporti apriranno poco più di 200 mila accessi. Certo, la struttura economica francese è diversa dalla nostra, qui l’industria pesa di più. Espandere i servizi non significa però affatto comprimere l’industria in termini assoluti (ci mancherebbe) ma solo relativi, come peraltro sta avvenendo in tutta Europa.
L’agenda per la crescita elaborata dal governo Monti contiene qualche misura indirettamente volta a far crescere il nostro arretrato settore terziario: liberalizzazioni, semplificazioni, piani per il turismo, coesione sociale, non autosufficienza, riordino delle agevolazioni. Ma servirebbe una strategia più mirata e sistematica. Se la nuova economia dei servizi non decolla, dobbiamo davvero rassegnarci a convivere molto a lungo con una disoccupazione giovanile a due cifre.
Il Corriere della Sera 01.09.12
"Scuola, serve equilibrio sul concorso", di Francesca Puglisi
Nella splendida cornice del cortile del Collegio Raffaello di Urbino abbiamo inaugurato la Festa nazionale scuola e università del Pd e il ministro Profumo, sollecitato dalle nostre richieste sull’annunciato concorso per gli insegnanti, ha offerto qualche chiarimento. Come è noto, dopo le 22.000 immissioni in ruolo di insegnanti dalle GAE per l’anno scolastico che sta per partire (siamo ancora in attesa delle 7000 stabilizzazioni del personale ATA), per il 2013/2014 il ministro intende dare avvio a nuovi concorsi, procedendo il 24 settembre con un bando per 11.000 posti, mentre altrettanti continueranno a essere assunti dalle graduatorie, rispettando la legge. Una doppia chance di assunzione per gli abilitati.
All’assemblea di Varese il Pd ha democraticamente votato che per la formazione e il reclutamento degli insegnanti «occorre rendere disponibili per l’immissione a tempo indeterminato i posti attualmente coperti con incarico annuale dagli insegnanti precari riprendendo il piano di stabilizzazioni intrapreso dal governo Prodi. In previsione del momento in cui cominceranno ad essere disponibili gli abilitati del nuovo sistema di formazione iniziale, va garantito un equilibrio tra immissioni dalle graduatorie e nuovo reclutamento attraverso un’opportuna relazione fra numero chiuso e fabbisogno». Il nostro proposito è sempre stato di svuotare le graduatorie con un nuovo piano pluriennale di immissioni in ruolo e di risolvere il precariato scolastico, dopo anni di riforme contradditorie, legando il momento della formazione iniziale al reclutamento.
Questa è stata la proposta che abbiamo avanzato al governo che, nella propria autonomia, può accettare o meno buoni consigli che arrivano dalle forze politiche che lo sostengono. Ogni giorno ascoltiamo le proposte che arrivano dalle associazioni professionali e studentesche e dalle parti sociali, convinti come siamo che in un momento di crisi occorra un di più di ascolto. Tra i “buoni consigli” che avevamo avanzato, respinti dal governo, c’era anche la richiesta di mandare in pensione con i criteri pre-riforma Fornero gli insegnanti che conseguono i requisiti al 31 agosto, poiché questo comparto segue i tempi dell’anno scolastico e non dell’anno solare. Per i poveri insegnanti praticamente è come se la Fornero fosse già ministro dalla scorsa estate! Un’occasione persa per liberare spazio per gli insegnanti più giovani. Inoltre nel decreto semplificazioni avevamo chiesto, dopo tre anni di tagli drammatici in cui sono stati cancellati 132.000 posti di lavoro, di sostanziare l’organico funzionale di 10.000 insegnanti in più per lavorare per la lotta alla dispersione scolastica, per l’inserimento dei ragazzi con disabilità e per la multiculturalità. La continuità didattica è gran parte della qualità della scuola, l’organico funzionale stabile è un notevole passo avanti per la scuola dell’autonomia, ora va fatto diventare realtà con i decreti attuativi. Il ministro sembra poi aver accolto altre due nostre richieste: che il concorso abbia solo vincitori senza istituire nuove graduatorie di merito e che le classi di concorso bandite siano soprattutto quelle esaurite e in via d’esaurimento nelle GAE. Sono le materie matematico scientifiche in cui sono particolarmente deboli i nostri studenti e per i quali vorremmo si riaccendesse la passione per lo studio.
Infine abbiamo notato con favore anche un nuovo tono di sobrietà che dovrebbe contraddistinguere sempre chi governa. Gli insegnanti delle graduatorie ad esaurimento che hanno superato concorsi, prove selettive e hanno frequentato scuole di abilitazione, hanno un’età media di 38 anni. Non sono meno meritevoli e motivati dei giovani che supereranno il prossimo anno il nuovo percorso abilitante. Anche noi, come il ministro, vogliamo soltanto lavorare per fare dell’Italia un Paese normale.
L’Unità 01.09.12
******
“Scuola, addio alle graduatorie d´ora in poi in cattedra per concorso”, di Corrado Zunino
Non faccio miracoli, sono solo riuscito a ripristinare il turn-over dopo anni di blocco: tanti insegnanti in pensione e tanti ne entrano Le selezioni che faremo noi saranno pulite e porteranno a una cattedra. Ventunomila nuovi docenti entrano in classe fra tredici giorni, presi dagli elenchi storici. Altri 24.000 a settembre 2013, metà dalle graduatorie, metà dalle nuove prove che stiamo organizzando. I prestiti d´onore? Sì ispirandomi ai paesi asiatici, da restituire in 5 anni quando si lavora Negli Usa sono troppo onerosi. Il ministro Francesco Profumo, 59 anni, savonese, già professore, già rettore, già presidente di Cnr, ha appena chiuso l´ultimo dibattito, alla Festa della scuola del Pd, nel cortile del Collegio Raffaello di Urbino. «In aprile», dice a Repubblica, «tornerò a fare il professore sperando di lasciare
un´Italia migliore di quella che ho trovato. Ritorneremo un grande Paese».
Come, ministro?
«Smettendo di vivere al di sopra delle nostre possibilità, di creare debito. Il nostro non è un governo ossessionato dallo spread, è un governo consapevole che cento punti di spread sono 15 miliardi tolti al paese».
Ministro Profumo, l´esecutivo taglia la funzione pubblica e riduce i dipendenti statali, lei nella stagione 2012-2013 porterà 55 mila nuovi insegnanti nelle scuole. Come riesce ad applicare politiche alla Hollande all´interno di un governo tutto rigore e liberismo?
«Il governo Monti sa che si esce dalla crisi mettendo al centro scuola, università e ricerca. Io non sto facendo miracoli, sono solo riuscito a ripristinare il turnover dopo anni di blocco: tanti insegnanti vanno in pensione e tanti ne entrano. E ho riattivato un antico modo di reclutare personale che trovo modernissimo: il concorso. Ecco, vorrei lasciare in eredità ai giovani una nuova fiducia nei concorsi di Stato. Quelli che faremo noi saranno puliti e porteranno i vincitori a una cattedra».
Dettagliamo i numeri, in tutti e tre i gradi di scuola.
«Ventunomila nuovi docenti entrano in classe fra tredici giorni, presi dalle graduatorie storiche. Altri ventiquattromila saranno insediati a settembre 2013, metà dalle graduatorie, metà dal nuovo concorso che stiamo organizzando. Altri diecimila insegnanti in primavera: metà assunti dalle graduatorie, metà con un bando».
In primavera avremo un nuovo concorso? Due nella stessa stagione dopo che il mondo della scuola è stato senza per tredici anni?
«Dobbiamo fare uno sforzo per recuperare i buchi del passato. Abbiamo due necessità: svuotare una graduatoria dove sono iscritti in 163 mila e dare continuità ai concorsi, farli tornare un´abitudine di questo paese. Dopo la primavera 2013 ogni due anni ci sarà una nuova prova».
I precari storici, che hanno vinto i concorsi del 1990, del 1994, del 1999, lamentano la lesione di un diritto e chiedono tutti i posti disponibili. E´ notizia di oggi che sono entrati in ruolo un precario di 63 anni e una di 65.
«Ho ereditato una situazione pesante e sto cercando di mettervi rimedio. E poi dobbiamo portare insegnanti giovani nelle scuole, questo si può fare solo con i bandi pubblici. Devo anche dire che abbiamo fatto un accordo con l´Inps che ci permetterà di valutare chi fra quei 163 mila iscritti alle vecchie graduatorie ha ancora bisogno di un posto di lavoro nella scuola. Alcuni, nel frattempo, si saranno sistemati altrove».
Per il prossimo concorso, quello che sarà reso pubblico il 24 settembre, si attendono 200 mila candidati per 11.892 posti. Gli altri 190 mila entreranno in una nuova graduatoria?
«Mai più graduatorie. Da adesso in avanti avremo vincitori pari ai posti disponibili. Chi non riuscirà a passare, ci riproverà in primavera e poi ogni due anni avrà un´occasione. Non formeremo più nuove graduatorie, cercheremo solo di svuotare quella esistente che tante frustrazioni ha creato».
Il test preselettivo sarà a quiz, i contestati quiz.
«Il test, che si terrà a inizio dicembre, serve come setaccio. E´ necessario avere un numero di esaminando non superiore ai 60-70 mila per preparare dei buoni orali e dei buoni scritti. Faremo i test con domande di carattere logico-deduttivo, alcuni in lingua, inglese, francese, tedesco e spagnolo, e le altre per misurare le competenze informatiche. Dobbiamo avvicinarci all´Europa».
Lei dovrebbe essere più severo con i suoi collaboratori: un concorso per presidi e una prova per i tirocini formativi sono diventati campi di battaglia. Un errore ogni cinque domande di test, impresentabile. E centinaia di ricorsi in tutta Italia.
«Ho ereditato anche la preparazione di quei test. Avrei potuto interromperli, ma avremmo perso un altro e fermato un ciclo virtuoso. La prossima prova sarà inattaccabile».
Ripartono le università con le tasse aumentate.
«Noi non le abbiamo aumentate, non so i singoli atenei».
Neppure per i fuori corso?
«Gli studenti lavoratori pagheranno meno degli altri, come sempre. Gli studenti che prolungano gli studi per vari motivi, e io non li chiamo bamboccioni, avranno un aumento di cento euro il mese solo se superano la soglia dei 90 mila euro familiari».
Porterà avanti la questione dei prestiti d´onore agli universitari?
«Sì ispirandomi ai paesi asiatici, negli Stati Uniti i prestiti sono troppo onerosi. Si inizierà a restituire dopo aver trovato lavoro e per cinque stagioni».
Ministro, come sarà la scuola del futuro?
«Presente nell´intera vita di una persona. Chi lavora deve tornare a studiare, aggiornarsi. Basta una volta a settimana. E dovrà usare di più gli strumenti del sabbatico, rappresentano il distacco, il rinnovamento».
La Repubblica 01.09.12
"Scuola, serve equilibrio sul concorso", di Francesca Puglisi
Nella splendida cornice del cortile del Collegio Raffaello di Urbino abbiamo inaugurato la Festa nazionale scuola e università del Pd e il ministro Profumo, sollecitato dalle nostre richieste sull’annunciato concorso per gli insegnanti, ha offerto qualche chiarimento. Come è noto, dopo le 22.000 immissioni in ruolo di insegnanti dalle GAE per l’anno scolastico che sta per partire (siamo ancora in attesa delle 7000 stabilizzazioni del personale ATA), per il 2013/2014 il ministro intende dare avvio a nuovi concorsi, procedendo il 24 settembre con un bando per 11.000 posti, mentre altrettanti continueranno a essere assunti dalle graduatorie, rispettando la legge. Una doppia chance di assunzione per gli abilitati.
All’assemblea di Varese il Pd ha democraticamente votato che per la formazione e il reclutamento degli insegnanti «occorre rendere disponibili per l’immissione a tempo indeterminato i posti attualmente coperti con incarico annuale dagli insegnanti precari riprendendo il piano di stabilizzazioni intrapreso dal governo Prodi. In previsione del momento in cui cominceranno ad essere disponibili gli abilitati del nuovo sistema di formazione iniziale, va garantito un equilibrio tra immissioni dalle graduatorie e nuovo reclutamento attraverso un’opportuna relazione fra numero chiuso e fabbisogno». Il nostro proposito è sempre stato di svuotare le graduatorie con un nuovo piano pluriennale di immissioni in ruolo e di risolvere il precariato scolastico, dopo anni di riforme contradditorie, legando il momento della formazione iniziale al reclutamento.
Questa è stata la proposta che abbiamo avanzato al governo che, nella propria autonomia, può accettare o meno buoni consigli che arrivano dalle forze politiche che lo sostengono. Ogni giorno ascoltiamo le proposte che arrivano dalle associazioni professionali e studentesche e dalle parti sociali, convinti come siamo che in un momento di crisi occorra un di più di ascolto. Tra i “buoni consigli” che avevamo avanzato, respinti dal governo, c’era anche la richiesta di mandare in pensione con i criteri pre-riforma Fornero gli insegnanti che conseguono i requisiti al 31 agosto, poiché questo comparto segue i tempi dell’anno scolastico e non dell’anno solare. Per i poveri insegnanti praticamente è come se la Fornero fosse già ministro dalla scorsa estate! Un’occasione persa per liberare spazio per gli insegnanti più giovani. Inoltre nel decreto semplificazioni avevamo chiesto, dopo tre anni di tagli drammatici in cui sono stati cancellati 132.000 posti di lavoro, di sostanziare l’organico funzionale di 10.000 insegnanti in più per lavorare per la lotta alla dispersione scolastica, per l’inserimento dei ragazzi con disabilità e per la multiculturalità. La continuità didattica è gran parte della qualità della scuola, l’organico funzionale stabile è un notevole passo avanti per la scuola dell’autonomia, ora va fatto diventare realtà con i decreti attuativi. Il ministro sembra poi aver accolto altre due nostre richieste: che il concorso abbia solo vincitori senza istituire nuove graduatorie di merito e che le classi di concorso bandite siano soprattutto quelle esaurite e in via d’esaurimento nelle GAE. Sono le materie matematico scientifiche in cui sono particolarmente deboli i nostri studenti e per i quali vorremmo si riaccendesse la passione per lo studio.
Infine abbiamo notato con favore anche un nuovo tono di sobrietà che dovrebbe contraddistinguere sempre chi governa. Gli insegnanti delle graduatorie ad esaurimento che hanno superato concorsi, prove selettive e hanno frequentato scuole di abilitazione, hanno un’età media di 38 anni. Non sono meno meritevoli e motivati dei giovani che supereranno il prossimo anno il nuovo percorso abilitante. Anche noi, come il ministro, vogliamo soltanto lavorare per fare dell’Italia un Paese normale.
L’Unità 01.09.12
******
“Scuola, addio alle graduatorie d´ora in poi in cattedra per concorso”, di Corrado Zunino
Non faccio miracoli, sono solo riuscito a ripristinare il turn-over dopo anni di blocco: tanti insegnanti in pensione e tanti ne entrano Le selezioni che faremo noi saranno pulite e porteranno a una cattedra. Ventunomila nuovi docenti entrano in classe fra tredici giorni, presi dagli elenchi storici. Altri 24.000 a settembre 2013, metà dalle graduatorie, metà dalle nuove prove che stiamo organizzando. I prestiti d´onore? Sì ispirandomi ai paesi asiatici, da restituire in 5 anni quando si lavora Negli Usa sono troppo onerosi. Il ministro Francesco Profumo, 59 anni, savonese, già professore, già rettore, già presidente di Cnr, ha appena chiuso l´ultimo dibattito, alla Festa della scuola del Pd, nel cortile del Collegio Raffaello di Urbino. «In aprile», dice a Repubblica, «tornerò a fare il professore sperando di lasciare
un´Italia migliore di quella che ho trovato. Ritorneremo un grande Paese».
Come, ministro?
«Smettendo di vivere al di sopra delle nostre possibilità, di creare debito. Il nostro non è un governo ossessionato dallo spread, è un governo consapevole che cento punti di spread sono 15 miliardi tolti al paese».
Ministro Profumo, l´esecutivo taglia la funzione pubblica e riduce i dipendenti statali, lei nella stagione 2012-2013 porterà 55 mila nuovi insegnanti nelle scuole. Come riesce ad applicare politiche alla Hollande all´interno di un governo tutto rigore e liberismo?
«Il governo Monti sa che si esce dalla crisi mettendo al centro scuola, università e ricerca. Io non sto facendo miracoli, sono solo riuscito a ripristinare il turnover dopo anni di blocco: tanti insegnanti vanno in pensione e tanti ne entrano. E ho riattivato un antico modo di reclutare personale che trovo modernissimo: il concorso. Ecco, vorrei lasciare in eredità ai giovani una nuova fiducia nei concorsi di Stato. Quelli che faremo noi saranno puliti e porteranno i vincitori a una cattedra».
Dettagliamo i numeri, in tutti e tre i gradi di scuola.
«Ventunomila nuovi docenti entrano in classe fra tredici giorni, presi dalle graduatorie storiche. Altri ventiquattromila saranno insediati a settembre 2013, metà dalle graduatorie, metà dal nuovo concorso che stiamo organizzando. Altri diecimila insegnanti in primavera: metà assunti dalle graduatorie, metà con un bando».
In primavera avremo un nuovo concorso? Due nella stessa stagione dopo che il mondo della scuola è stato senza per tredici anni?
«Dobbiamo fare uno sforzo per recuperare i buchi del passato. Abbiamo due necessità: svuotare una graduatoria dove sono iscritti in 163 mila e dare continuità ai concorsi, farli tornare un´abitudine di questo paese. Dopo la primavera 2013 ogni due anni ci sarà una nuova prova».
I precari storici, che hanno vinto i concorsi del 1990, del 1994, del 1999, lamentano la lesione di un diritto e chiedono tutti i posti disponibili. E´ notizia di oggi che sono entrati in ruolo un precario di 63 anni e una di 65.
«Ho ereditato una situazione pesante e sto cercando di mettervi rimedio. E poi dobbiamo portare insegnanti giovani nelle scuole, questo si può fare solo con i bandi pubblici. Devo anche dire che abbiamo fatto un accordo con l´Inps che ci permetterà di valutare chi fra quei 163 mila iscritti alle vecchie graduatorie ha ancora bisogno di un posto di lavoro nella scuola. Alcuni, nel frattempo, si saranno sistemati altrove».
Per il prossimo concorso, quello che sarà reso pubblico il 24 settembre, si attendono 200 mila candidati per 11.892 posti. Gli altri 190 mila entreranno in una nuova graduatoria?
«Mai più graduatorie. Da adesso in avanti avremo vincitori pari ai posti disponibili. Chi non riuscirà a passare, ci riproverà in primavera e poi ogni due anni avrà un´occasione. Non formeremo più nuove graduatorie, cercheremo solo di svuotare quella esistente che tante frustrazioni ha creato».
Il test preselettivo sarà a quiz, i contestati quiz.
«Il test, che si terrà a inizio dicembre, serve come setaccio. E´ necessario avere un numero di esaminando non superiore ai 60-70 mila per preparare dei buoni orali e dei buoni scritti. Faremo i test con domande di carattere logico-deduttivo, alcuni in lingua, inglese, francese, tedesco e spagnolo, e le altre per misurare le competenze informatiche. Dobbiamo avvicinarci all´Europa».
Lei dovrebbe essere più severo con i suoi collaboratori: un concorso per presidi e una prova per i tirocini formativi sono diventati campi di battaglia. Un errore ogni cinque domande di test, impresentabile. E centinaia di ricorsi in tutta Italia.
«Ho ereditato anche la preparazione di quei test. Avrei potuto interromperli, ma avremmo perso un altro e fermato un ciclo virtuoso. La prossima prova sarà inattaccabile».
Ripartono le università con le tasse aumentate.
«Noi non le abbiamo aumentate, non so i singoli atenei».
Neppure per i fuori corso?
«Gli studenti lavoratori pagheranno meno degli altri, come sempre. Gli studenti che prolungano gli studi per vari motivi, e io non li chiamo bamboccioni, avranno un aumento di cento euro il mese solo se superano la soglia dei 90 mila euro familiari».
Porterà avanti la questione dei prestiti d´onore agli universitari?
«Sì ispirandomi ai paesi asiatici, negli Stati Uniti i prestiti sono troppo onerosi. Si inizierà a restituire dopo aver trovato lavoro e per cinque stagioni».
Ministro, come sarà la scuola del futuro?
«Presente nell´intera vita di una persona. Chi lavora deve tornare a studiare, aggiornarsi. Basta una volta a settimana. E dovrà usare di più gli strumenti del sabbatico, rappresentano il distacco, il rinnovamento».
La Repubblica 01.09.12
