attualità, politica italiana

"Quirinale, le ragioni di un privilegio", di Ugo De Siervo

Le polemiche sempre più sgradevoli e sfilacciate, che si sono prodotte a causa dell’ascolto e dell’inopinata conservazione da parte della Procura di Palermo di alcune intercettazioni «casuali ed indirette» di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica possono contribuire a spiegare i motivi istituzionali del particolare privilegio che è attribuito al Presidente dalla nostra Costituzione. Ciò appare opportuno, anche perché la sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto sollevato dalla presidenza della Repubblica non potrà giungere prima del prossimo dicembre, pur con tutte le opportune accelerazioni del caso (mentre l’udienza del 19 settembre prossimo riguarda la mera ammissibilità del conflitto, che peraltro appare scontata).

Fino ad allora purtroppo si continuerà a operare in un contesto nel quale chiunque potrà cercare di trarre qualche vantaggio dalla irresponsabile asserzione dell’uno o dell’altro contenuto delle conversazioni intercettate ed i pochi – si spera – che quelle conversazioni davvero hanno ascoltato disporranno di un potere del tutto improprio e saranno sottoposti a molteplici pressioni per rivelarle o comunque farle conoscere.

In un contesto pre-elettorale in cui alcuni soggetti sembrano disposti, in modo del tutto irresponsabile, ad ogni presa di posizione che reputino per loro utile o comunque tale da indebolire (o vendicarsi di) presunti avversari, già sono emerse varie e pericolose campagne di stampa o politiche, che nel loro complesso possono creare oggettivi turbamenti all’esercizio delle delicatissime funzioni di cui dispone un organo individuale di «garanzia ultima» del sistema, come il Presidente della Repubblica.

Allora è bene cercare di chiarire le ragioni istituzionali che sono alla base del divieto di sottoporre il Presidente della Repubblica a controlli relativi alle sue conversazioni, salvo il caso limite che al Presidente si imputi da parte del Parlamento un delitto di attentato alla Costituzione o di alto tradimento. Nel nostro sistema costituzionale, gli altri organi politici sono sottoposti a maggiori controlli poiché sono revocabili da parte di chi li ha nominati, ma essi trovano la loro forza proprio nella permanenza del rapporto fiduciario: basti pensare al rapporto fiduciario della maggioranza parlamentare verso i componenti dei governi, che può portare alla sfiducia, ma più comunemente al superamento di eventuali fasi critiche sorte in riferimento a loro comportamenti. Il Presidente della Repubblica ha invece un incarico a durata fissa, non è di norma revocabile o sostituibile, e quindi la sua autonomia personale viene particolarmente tutelata poiché l’eventuale sistematica contestazione delle modalità di normale esercizio dei suoi poteri potrebbe portare ad un irrimediabile logoramento della sua persona e all’impossibilità di un libero esercizio dei suoi poteri.

Né si dica che questo vale solo nel quadro costituzionale, dove non è negabile che l’art. 90 della Costituzione afferma la normale irresponsabilità del Presidente relativamente agli «atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». Sul piano legislativo, invece, ci troveremmo dinanzi ad una lacuna incolmabile, se non ad opera del futuro legislatore, per tutto ciò che riguarda la disciplina dei suoi privilegi: a prescindere che – come molti hanno ricordato – una legge già esiste e permette le intercettazioni delle conversazioni del Presidente solo in ipotesi del tutto particolari ed in riferimento al presunto compimento da parte sua di due eccezionali delitti, si dovrebbe ben sapere che il nostro sistema giuridico è unitario e ricomprende, insieme alle leggi, anche la Costituzione, le norme comunitarie e quelle internazionali direttamente applicabili. Più in particolare, i magistrati italiani sanno bene che la Corte Costituzionale addirittura da vari anni esige che le questioni di legittimità siano sollevate dai giudici solo dopo aver cercato di eliminare il dubbio di costituzionalità della legge tramite una sua interpretazione fondata sulla Costituzione. Ma allora, come si fa a nascondersi dietro l’assenza di una norma specifica che dica come fare a distruggere le intercettazioni casuali di una conversazione di un Presidente della Repubblica senza coinvolgere ulteriori soggetti? E ciò mentre il fatto stesso della conservazione, oltre che la previa lettura, di quelle intercettazioni produce comunque danni oggettivi, come stiamo purtroppo constatando.

Ma se le cose stanno in questi termini, ben si capisce come sia del tutto improprio parlare della risoluzione del problema solo nell’ambito della tanto contrastata revisione della legislazione in tema di intercettazioni: mentre per tutti noi, cittadini comuni, il problema si riduce ad una migliore redazione ed efficace applicazione della disposizione relativa alla eliminazione delle parti penalmente irrilevanti delle registrazioni operate, il problema che sembra stare a cuore di tanti parlamentari è il destino di intercettazioni indirette o casuali di conversazioni telefoniche che coinvolgano i parlamentari, in assenza della previa autorizzazione parlamentare prevista dal terzo comma dell’art. 68 della Costituzione. Ma per il Presidente della Repubblica è lo stesso sistema costituzionale, nonché l’art. 7 della legge n. 219 del 1989, che vietano espressamente le intercettazioni salvo che nei casi specifici previsti, con tutto ciò che logicamente ne deve conseguire.

La Stampa 02.09.12

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“Ma il bersaglio vero è Monti”, di LORENZO MONDO

Non sappiamo se abbia ragione il procuratore antimafia Grasso quando afferma che contro il Quirinale sono scese in campo «menti raffinatissime». Raffinate o grezze che siano, rappresentano comunque l’ennesimo attacco a Napolitano. Tutto nasce, come noto, dalle intercettazioni delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte trattative tra lo Stato e la mafia. Ma raggiunge l’acme con la pubblicazione sul settimanale Panorama di quello che la Procura di Palermo definisce «un collage di indiscrezioni, notizie più false che vere», frutto di illazioni e abusive ricostruzioni. I magistrati non sembrano escludere tuttavia la fuga di notizie «vere», e manipolabili. Con tanti saluti alla proclamata riservatezza, mentre si prende tempo per la prevista distruzione dei nastri che vengono definiti peraltro di nessuna utilità per le indagini. E’ inevitabile allora che l’opinione pubblica si interroghi un’altra volta sugli oscuri meandri della giustizia italiana.

Quel che appare evidente è invece il tentativo pretestuoso di delegittimare la presidenza Napolitano, una delle poche istituzioni sopravvissute allo sfacelo della Seconda Repubblica. E’ un’offensiva che vede impegnati i manipoli della destra e trova alleati nelle frange radicali della sinistra. Perché accanirsi contro un Presidente che, al di là della comprovata correttezza, si trova al limite del suo mandato? In realtà, attraverso Napolitano si intende colpire Monti, visto come sua creatura e fiduciario. Si affilano cioè le armi in vista delle prossime elezioni.

Il capo del governo, se non personalmente, per la continuità della sua politica -da molti vagheggiata – è tutt’altro che fuori dal gioco. E Napolitano farà ancora in tempo a esercitare in merito la sua influenza. E’ la danza velleitaria e chiassosa dei pasdaran di varia coloritura davanti all’inconcludenza delle forze portanti, e nominalmente più responsabili, del comparto politico. Non c’è, anche per questo verso, da stare allegri. Monti si affanna, con viaggi defatiganti in mezzo mondo, a contrastare ed esorcizzare la grave crisi in cui si dibatte il Paese. Ma rischia di trovarsi come pietra d’inciampo la dibattuta questione Stato-mafia: che, per quanto importante, rimanda a una storia lontana, affidata peraltro ad un preciso percorso investigativo e giudiziario. Non appassiona, francamente, i cittadini. Che registrano semmai con inquietudine la pungente domanda rivolta da Angela Merkel all’amico Monti: «Ma dopo il voto (conclusa cioè la sua esperienza di governo) che cosa succederà in Italia?».

La Stampa 02.09.12