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"Affile, il mausoleo al fascista Graziani scandalizza anche New York Times e Paìs", da repubblica.it

Dopo il Daily Telegraph e la Bbc, entrambi i quotidiani esteri hanno dedicato un articolo alla vicenda del monumento inaugurato l’11 agosto nel comune vicino Roma ricordando l’investimento di soldi pubblici per realizzarlo, la sanguinaria biografia del ministro della guerra mussoliniano e la sua partecipazione alla Repubblica di Salò. Non solo il Daily Telegraph e la Bbc. Dopo essere approdato sui giornali inglesi, ora il caso del monumento che il Comune di Affile, in provincia di Roma, ha dedicato lo scorso 11 agosto al generale Rodolfo Graziani, ministro della guerra di Mussolini, finisce anche sulla stampa spagnola e americana. Sia il New York Times che il Paìs hanno dedicato ampio spazio alla vicenda. Due pagine dall’estero che non sono passate inosservate al capogruppo del Pd in Regione Esterino Montino che su Twitter ha nuovamente bollato la vicenda scrivendo “Vergogna”.

Il quotidiano a stelle e strisce ricorda la biografia di Graziani, accusato e condannato per crimini di guerra alla fine del secondo conflitto mondiale dopo aver “guadagnato” il titolo di “macellaio” nelle due campagne italiane di colonizzazione del Nord Africa negli anni Venti e Trenta, in Etiopia e in Libia. Poi, l’esperienza nella Repubblica di Salò, le rappresaglie anti-partigiani e infine la condanna a 19 anni. Impossibile non citare poi il finanziamento utilizzato per tirare su il sacrario: “160mila euro di soldi pubblici” scrive il Nyt che poi riporta le dichiarazioni di Donatella Meschini, insegnante di 52 anni eletta nel 2003 nell’unica giunta di centrosinistra insediata ad Affile negli ultimi 50 anni: “Dopo questo monumento, cosa dobbiamo aspettarci? Che ci chiamino il sabato a fare ginnastica sul piazzale come si usava ai tempi del fascismo? Il 25 aprile qui non è mai arrivato”. Il quotidiano si stupisce inoltre del fatto che comunque, tra , un centinaio di persone abbiano partecipato all’inaugurazione.

“La questione era archiviata: un criminale. Ma forse la storia non era così chiara” commenta all’inizio dell’articoloil Paìs. Anche il giornale spagnolo ripercorre la storia di Graziani soffermandosi poi sulle polemiche scatenate attorno al monumento tra l’entusiasmo del sindaco di Affile Ercole Viri e le dure critiche del mondo antifascista e del Partito democratico, che aveva votato e stanziato i fondi sotto la presidenza Marrazzo ma per investirli nella riqualificazione del parco di Radimonte.

da repubblica.it

"Il Cavaliere e la paura di nuove sentenze", di Carmelo Papa

Berlusconi chiede il voto a novembre. «Non abbiamo scelta, il 2013 è troppo lontano, le procure mi perseguitano, i giudici vogliono condannarmi prima della campagna elettorale». L’accelerazione matura nel giro di 24 ore. Maturas otto una coltre di palude apparente nelle trattative tra Pdl e Pd sulla legge elettorale.
Prende corpo nel fortino di Palazzo Grazioli, dove il Cavaliere si precipita dalla Sardegna chiamando d’urgenza a rapporto i suoi: Alfano, Verdini, Ghedini, Bonaiuti. Ed ecco la svolta: bisogna fare in fretta, approvarla subito, la riforma. Sul leader — ed è la novità che l’avvocato dell’ex premier porta al gabinetto di guerra — incombe il rischio assai concreto di una condanna in primo grado tra novembre e dicembre. La mannaia del processo Ruby. La maledizione che lo perseguita. L’incubo di una campagna elettorale da condurre da gennaio a marzo, da candidato presidente del Consiglio, con il fardello di una sentenza funesta per quei reati infamanti. Ai timori per il caso Ruby si aggiungono inoltre — come ha raccontato nei giorni scorsi il Giornale — quelli per nuove inchieste che, secondo il Cavaliere, sarebbero in procinto di essere formalizzate contro di lui a Napoli e a Bari.
Impiegano poco tempo, i fedelissimi seduti nel salotto di via del Plebiscito, per comprendere che passa adesso l’unico treno per evitare la catastrofe. Approvare in pochi giorni la legge elettorale, anche alle condizioni degli avversari del Pd, a patto di convincere Monti alle dimissioni e Napolitano ad anticipare il voto a novembre. È un cambio di prospettiva repentino, un’inversione totale nella strategia Pdl. Gli sherpa Quagliariello e Verdini si preoccupano di informare la segreteria dei democratici, Bersani, Migliavacca. Ma viene affidata a Gianni Letta la missione più delicata. Perché nulla può maturare se il Quirinale è all’oscuro, se non acconsente alla svolta. L’ex sottosegretario informa il Colle in via informale nello stesso pomeriggio. Fa sapere che il Pdl è disponibile alla bozza quasi concordata col Pd: piccoli collegi, premio di maggioranza del 15 per cento al partito che ottiene più voti. A una condizione, però, che tutto avvenga nel giro di pochi giorni e si vada al voto entro novembre. Condizioni, paletti che la presidenza Napolitano non potrebbe mai accettare. Dopo molteplici appelli ai partiti caduti nel vuoto, occorre che si faccia la legge elettorale. E al più presto. Quel che verrà dopo sarà frutto della concertazione tra i partiti, ma mai il Colle potrebbe avallare un condizionamento di quel genere. È un netto rifiuto di cui al quartier generale berlusconiano devono prendere atto. Tanto più che della «strana intesa» ai vertici dei democratici, impegnati nella festa di Reggio Emilia, dicono di non sapere nulla. In ogni caso, Pier Luigi Bersani sarebbe nettamente contrario. «A quel capestro il partito non può sottostare ». Nulla ne sa Pier Ferdinando Casini: «Nessuno ci ha interpellati e siamo contenti di essere fuori da questo gioco binario, in cui non intendiamo entrare».
Le notizie di quanto sta maturando nei palazzi romani raggiungono indirettamente il presidente del Consiglio Mario Monti. Giusto nelle ore in cui sta lasciando Roma alla volta di Berlino. Le indiscrezioni accrescono le tensioni della delicata vigilia del vertice con Angela Merkel. Il Professore è convinto di poter raggiungere un’importante intesa dal confronto a quattr’occhi con la collega, proprio sul tetto antispread al quale lavora da almeno tre mesi, nonostante le ostilità della Banca centrale tedesca. Dalla Germania i timori sono legati proprio al futuro italiano dopo Monti. E un voto anticipato con l’incognita di una nuova frammentazione all’italiana all’indomani delle elezioni, viene considerata una iattura per la stabilità della stessa moneta unica. Palazzo Chigi fa sapere di non essere stato informato delle trattative
sulla riforma elettorale. Ma «interrompere il percorso adesso farebbe saltare tutto», è il messaggio che filtra, si rischia di compromettere tutto quanto è stato fatto finora.
Giusto oggi tornerà a riunirsi a Palazzo Madama il comitato ristretto che avrebbe dovuto presentare una bozza di accordo sulla legge voto. Ma tutto è destinato a saltare. Uno dei relatori, Enzo Bianco (Pd), in una nota lo anticipa a chiare lettere: ‘‘Non arrivano a tutt’ora indicazioni definite su alcuni punti qualificanti della riforma della legge elettorale, da parte delle maggiori forze politiche’’. Così, nel pomeriggio Bianco e Lucio Malan (l’altro relatore del Pdl) metteranno sul tavolo un ‘‘documento che evidenzia sia i punti di intesa, sia quelli in cui permangono differenti valutazioni, in modo che i lavori possano proseguire il più speditamente possibile». Ma è un bluff, un gioco delle parti. Sarà l’ennesimo rinvio per prendere altro tempo. Il presidente del comitato, Carlo Vizzini, ne è consapevole e passa alle contromisure. «A questo punto prenderò atto dello stallo e comunicherò l’immediata convocazione dell’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato e della stessa commissione nella sua interezza per martedì o mercoledì prossimo. All’ordine del giorno: la discussione della nuova legge elettorale. Allora, tutti i giochi andranno fatti alla luce del sole e ogni partito si assumerà la responsabilità di dichiarare il perché dei propri veti in un verbale parlamentare».
Ma basterà questo monito per convincere partiti e leader laddove nemmeno il Quirinale è riuscito? Il comitato ristretto, che avrebbe dovuto garantire una corsia preferenziale alla riforma, intanto, si è trasformato nell’ennesima trappola.

La Repubblica 29.08.12

Le Paralimpiadi più grandi «Guardate le nostre abilità», di Claudio Arrigoni

Pancalli guida i 97 azzurri: «Fare meglio di Pechino». Sono le star ad aprire i festival del cinema. Tappeto rosso per Oscar Pistorius ai Giochi Paralimpici di Londra che cominciano oggi con una grandiosa cerimonia di apertura. Arriva a Londra e la illumina con un sorriso di quelli che fanno innamorare. Fa capire cosa è la Paralimpiade: «Mostra le abilità, non la disabilità». Un concetto che ripete tre volte in mezz’ora. Ogni volta con maggiore convinzione. E un sorriso. È l’uomo più atteso, ma le grandi storie saranno dietro ogni angolo. Bastano i numeri: 11 giorni di competizione (da domani le gare sino al 9 settembre), 20 sport, quasi 4280 atleti di 166 Paesi, 503 eventi da medaglia, 2,2 milioni di biglietti venduti. Sì, venduti: per la prima volta il cartello sold out, tutto esaurito, sarà in tutti i palazzi. Biglietti venduti davvero, non regalati a scuole o aziende, come è successo in passato. E un’audience televisiva potenziale di 3 miliardi di persone. Con l’Italia in prima fila. È l’unico Paese al mondo ad avere due televisioni che hanno acquisito i diritti dell’evento (Rai e Sky) e dedicheranno intere reti ai Giochi dalla mattina alla sera. Se si vuole un termine di paragone, si pensi che Nbc, negli Stati Uniti, dedicherà cinque ore e mezza totali nel corso dell’evento e uno speciale di 90 minuti quando si concluderà.
La gara da seguire: i 100 metri per amputati di gamba sotto il ginocchio. Non solo per la presenza di Pistorius. Le sue parole lo spiegano meglio: «Se arrivassi fra i primi tre sarei felice». La crescita del movimento paralimpico così velocemente è anche suo merito. Magari in futuro si arriverà a gare insieme anche all’Olimpiade: «Difficile per problemi logistici, ma sarebbe bello. Nuoto, ciclismo, atletica: si può fare. Sarebbe meraviglioso se alla Diamond League ci fosse anche una gara in carrozzina. Sono fiero di essere un atleta olimpico come un atleta paralimpico». Forse Londra può aiutare anche in questo: «La Paralimpiade cambia la percezione della disabilità».
Gli azzurri hanno la delegazione più numerosa di sempre: 97 atleti. Con una defezione dell’ultima ora: il ciclista Fabrizio Macchi, amputato di gamba e campione mondiale, fermato dalla Procura antidoping, per aver frequentato il dottor Ferrari, alla viglia della partenza. Luca Pancalli, presidente del Cip, ha dovuto prendere «una decisione dolorosa e inevitabile. Chi veste la maglia azzurra deve avere un rispetto dello sport e dell’etica anche superiore agli altri. Non siamo indenni da questo problema. Facciamo anche un discorso culturale, non solo di controlli».
Diversi i personaggi di primo piano, anche mondiale: Alex Zanardi con la sua handbike e tutta la squadra di ciclismo, prima nel ranking; Assunta Legnante, ex campionessa europea di getto del peso divenuta cieca, guida la pattuglia dell’atletica, dove ci sono anche Annalisa Minetti, cantante prestata ai 1500 fra i non vedenti, guidata dall’ex azzurro Andrea Giocondi, insieme alla giovane Martina Caironi, fra le migliori del mondo nella corsa per amputati. E poi il nuoto, dove Cecilia Camellini, ventenne studente di psicologia, è fra la migliori fra i non vedenti. E poi il tiro con l’arco, con il portabandiera Oscar De Pellegrin, il tennis tavolo, il canottaggio e la scherma.
Pancalli non nasconde aspettative: «Quattro anni fa a Pechino abbiamo vinto 18 medaglie. Bello sarebbe ripetere questo bottino. E magari aumentarlo. Un numero? Gli ottimisti possono parlare di 22 medaglie, anche se la concorrenza è durissima. Ora ancora di più. Ma non sono le medaglie e i primati a interessarmi maggiormente. Attraverso la Paralimpiade tanti ragazzi e ragazze con disabilità scoprono di non essere costretti a isolarsi dal mondo. E che lo sport può cambiare la vita». Tornano le parole di Pistorius: «Abilità, non disabilità». Pancalli non manca una Paralimpiade da Seul ’88: «Vedere quanto è cresciuto questo movimento è meraviglioso. Incredibile per certi versi».

Il Corriere della Sera 29.08.12

Una legge incompatibile con i diritti", di Vladimiro Zagrebelsky

La legge italiana che disciplina l’utilizzo delle procedure mediche di fecondazione assistita e più particolarmente le limitazioni che essa impone, sono oggetto di critiche e polemiche fin dalla sua approvazione nel 2004. Critiche e polemiche che riguardano sia la legge in sé, sia le linee guida emanate dal ministero della Salute per specificarne, integrarne e aggiornarne le previsioni. Come si ricorda un referendum parzialmente abrogativo venne fatto fallire nel 2005 con il non raggiungimento del quorum di votanti.

E’ recente la decisione dalla Corte Costituzionale di restituire ai giudici che l’avevano prospettata, la questione di costituzionalità del divieto di ricorso alla fecondazione con ovocita o gamete di persona esterna alla coppia (la fecondazione eterologa). La questione verrà certo riproposta e la Corte Costituzionale deciderà. In passato, nel 2009, la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale perché irragionevole e in contrasto con il diritto fondamentale della donna alla salute, la limitazione a tre degli embrioni da impiantare contemporaneamente, senza possibilità di produrne un maggior numero da utilizzare nel caso che il primo impianto non avesse avuto esito positivo.

Ora è un diverso aspetto della regolamentazione, che una diversa Corte ritiene incompatibile con i diritti fondamentali della persona. Ancora una volta si tratta dell’irragionevolezza di un impedimento posto dalla legge italiana all’accesso a una tecnica che è frutto del progresso medico. In proposito va ricordato che il Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, riconosce a tutti la possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». Limiti e condizioni sono possibili, ma, come per tutte le deroghe a diritti fondamentali, essi devono essere ristretti al minimo indispensabile per la tutela di altri diritti fondamentali confliggenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso di una coppia italiana protagonista (e vittima) di una vicenda esemplare dell’irragionevolezza della legge, che li esclude dalla possibilità di utilizzare le tecniche di fecondazione medicalmente assistita. I due ricorrenti avevano generato una figlia malata di mucoviscidosi. Fu così che essi appresero di essere entrambi portatori sani di quella malattia. Nel corso di una successiva gravidanza, la diagnosi prenatale rivelò che il feto era anch’esso malato. Ricorrendo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, essi procedettero all’aborto. Poiché tuttavia desideravano un secondo figlio e naturalmente volevano evitare che fosse malato, richiesero di procedere alla fecondazione artificiale, per conoscere lo stato dell’embrione prima di impiantarlo, escludere quello malato e utilizzare quello sano.

La legge che disciplina la materia limita il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita al solo caso in cui la coppia è sterile o infertile. Le linee guida ministeriali del 2008 hanno ritenuto che sia assimilabile al caso d’infertilità maschile quello in cui l’uomo sia portatore delle malattie sessualmente trasmissibili derivanti da infezione da Hiv o da Epatite B e C. Ma non hanno considerato altre situazioni di genitori malati. E così alla coppia restò negata la possibilità di superare l’infermità e dar corso, con la fecondazione medicalmente assistita, a una gravidanza che si sarebbe conclusa con la nascita di un bimbo sano.

La Corte europea ha rilevato che la legge italiana nel caso in cui la diagnosi prenatale riveli che il feto è portatore di anomalie o malformazioni, consente di procedere all’interruzione della gravidanza. In effetti proprio a ciò aveva fatto ricorso la coppia, nella gravidanza successiva alla nascita della figlia malata. Vi è dunque, secondo la Corte, un’evidente irragionevolezza della disciplina, che, permettendo l’aborto e invece proibendo l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, autorizza il più (e il più penoso), mentre nega il meno (e meno grave). La Corte ha così rifiutato gli argomenti del governo italiano, che sosteneva che la legge tende a proteggere la dignità e libertà di coscienza dei medici e a evitare possibili derive eugenetiche. Argomenti contraddetti dal fatto che la legge consente di procedere all’aborto in casi come quello esaminato dalla Corte. In più ha pesato il fatto che la grande maggioranza dei Paesi europei consente la fecondazione medicalmente assistita per prevenire la trasmissione di malattie genetiche (solo l’Italia e l’Austria la vietano e la Svizzera ha in corso un progetto di legge per ammetterla). Irragionevole nel sistema legislativo italiano e ingiustificato nel quadro della tendenza europea, il divieto ha inciso senza ragione sul diritto della coppia al rispetto delle scelte di vita personale e familiare, garantito dalla Convenzione europea dei diritti umani.

La sentenza non è definitiva. Il governo italiano può chiederne il riesame da parte della Grande Camera della Corte europea. Se diverrà definitiva, sarà vincolante per l’Italia, una modifica della legge sarà inevitabile e saranno inapplicabili le linee guida ministeriali. La Corte Costituzionale ha già più volte detto che la conformità alla Convenzione europea dei diritti umani, «nella interpretazione datane dalla Corte europea», è condizione della costituzionalità delle leggi nazionali. Una revisione della legge potrebbe convincere il legislatore ad abbandonare l’ambizione di disciplinare il dettaglio, con ammissioni ed esclusioni particolari che inevitabilmente creano disparità irragionevoli. Questa è una materia in cui occorrerebbe lasciar spazio alle scelte individuali (in questo caso quella di non rinunciare a procreare un figlio, un figlio sano) e alla responsabilità dei medici nel fare il miglior uso possibile del frutto della ricerca e dell’avanzamento delle conoscenze e possibilità umane. La Corte Costituzionale ha già ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali.

La Stmapa 29.08.12

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“La rivincita del progresso sull’ideologia”, di UMBERTO VERONESI

La sentenza della Corte di Strasburgo è per il nostro Paese una rivincita culturale ed etica molto significativa. Il referendum che nel 2004 avrebbe dovuto sondare l’opinione degli italiani circa 4 punti della legge 40, fra cui quello relativo al divieto di diagnosi reimpianto, è stato uno sforzo purtroppo inutile, perché la forte spinta ideologica all’astensionismo ha impedito di capire il reale pensiero dei cittadini.

A noi promotori sembrava naturale mettere a disposizione della società una grande conquista della scienza, che permette a chi è portatore di una malattia ereditaria di non trasmetterla ai propri figli. Va sottolineato che, sia dal punto di vista medico che logico, la diagnosi preimpianto non è altro che l’anticipazione di quella diagnosi prenatale che viene effettuata frequentemente in gravidanza. Ora, in base alla legge italiana è possibile verificare la salute del feto nell’utero della madre, ma non quella dell’embrione nella provetta. Inoltre, la legge 194 dice che, in presenza di malattie genetiche, è possibile interrompere la gravidanza ricorrendo all’aborto. Ma poiché esistono le tecniche di diagnosi embrionale, perché dover aspettare la formazione del feto? Perché ricorrere a un aborto, più traumatico per la donna, quando basta decidere di non impiantare l’embrione che presenta un danno genetico? Questi danni, all’origine di malattie molto gravi – come la fibrosi cistica, di cui i due italiani che hanno fatto ricorso a Strasburgo sono portatori sani -, sono purtroppo molto frequenti, e il fatto che lo studio del Dna permetta di sapere, prima dell’impianto nell’utero della madre, se l’embrione presenta geni alterati oppure no, è un progresso che nessuna ideologia e nessuna religione possono negare. L’azione stessa della medicina oggi è sempre più un’azione predittiva. La decodifica del Dna ci ha permesso di risalire sempre più indietro nei processi di origine e sviluppo delle malattie e di poter intervenire prima che la patologia si manifesti. Addirittura prima della nascita, appunto.

Per fortuna in Italia accade sempre più spesso che la magistratura corregga con le sue sentenze le incongruenze del Parlamento e interpreti più fedelmente i bisogni e il pensiero dei cittadini. E’ curioso come i quattro divieti, oggetto del referendum del 2004, siano stati di fatto sorpassati dai ricorsi dei cittadini e dai giudizi delle Corti. Segno che, indipendentemente dalla politica, progresso e Diritto proseguono insieme sulla stessa via.

La Stampa 29.08.12

"La vera sfida per i giovani", di Alfredo Reichlin

Gli attacchi a Napolitano, le dispute su Togliatti, gli insulti di Grillo, i giovani contro i vecchi: vor-rei solo attirare l’attenzione dei democratici (quali che siano le loro differenziazioni) sul contesto. Ovvero su quali interrogativi pesano oggi sul destino del Paese. Io non sono pessimista ma ho l’impressione che la partita delle prossime elezioni sia un po’ più complicata di una normale alternanza tra una destra in crisi e una sinistra con la vittoria in tasca. Gli equilibri politici sono incerti e tutti in movimento. Su di essi pesano molte incognite, a cominciare dal fatto che le cose non si decidano solo in Italia, ma dipendono da fattori globali e da una lotta feroce tra grandi potentati intorno agli assetti dell’Europa e del mondo. Chi comanda? C’è un Fondo di investimenti americano, il quale da solo muove una massa di capitali pari a tutta la ricchezza che gli italiani producono in un anno. Ecco perché deve preoccupare molto la debolezza del nostro sistema politico, anche se io misuro su questo stesso scenario con un certo orgoglio il ruolo del Pd. Il quale cerca di fare da perno di uno schieramento in grado non solo di vincere per sé ma di difendere la democrazia e il regime parlamentare. Essendo questo la sola alternativa democratica al populismo e al ritorno in campo di nuovi capi carismatici.

È questo lo scenario (non dimentichiamolo) nel quale il Pd si candida a governare l’Italia. Con quale proposta? Quella di Bersani mi sembra chiara. Una alleanza non tattica tra le forze riformiste che vengono dalla lunga storia di lotte, e al tempo stesso di responsabilità democratica e nazionale delle sinistre di stampo cattolico e socialista, con forze moderate e con un vasto mondo che viene dall’Italia profonda dell’impresa, del lavoro, dell’intelligenza creativa, delle professioni. Un nuovo blocco non solo politico, ma sociale. Con un obiettivo altrettanto chiaro: riformare profondamente l’Italia nel senso di ricostruire questo Paese ponendo il suo sviluppo su basi più larghe. Basi sociali ma anche territoriali (il Mezzogiorno) e soprattutto etico-politiche. Il che però presuppone – diciamolo chiaro – partiti diversi dagli attuali. Molto diversi. Allora che cosa manca alla proposta di Bersani? Manca ancora, io direi, almeno in parte proprio questo: la percezione della grande radicale diversità del soggetto politico che si propone come guida e che afferma non solo una politica ma una sua visione delle cose. Una forza che non è solo un elettorato ma una comunità di cittadini che crede in certi valori e ha il sentimento di un comune destino. Forse la mia riserva è ingenerosa ed è inopportuna. Ma io guardo allo smarrimento che c’è soprattutto tra i giovani e voglio reagire.

Questa estate si è parlato molto di De Gasperi e di Togliatti. Però tranne qualche eccezione (Gianni Cuperlo) non mi pare che si sia detto con sufficiente chiarezza che dati i cambiamenti del mondo (una cesura epocale da allora anche antropologica, un’altra epoca storica) il loro insegnamento ancora vivente consiste solo in ciò: nel fatto che di colpo essi aprivano una pagina nuova. Fecero vedere a noi giovani le enormi novità delle cose. I loro disegni erano molto diversi, ma essi voltavano pagina. Parlavano addirittura un’altra lingua. Una lingua nuova, mai sentita fino allora. Usavano altre parole. Davano nome alle cose, alle grandi cose che stavano accadendo. L’Italia era coperta di macerie ma la speranza rinasceva non perché De Gasperi o Togliatti fossero più giovani di Mussolini, ma perché ciò che cambiava era il fatto che l’individuo anonimo e significante diventava una persona. Era la fondazione di una nuova democrazia.

Torno così all’oggi. All’estremo bisogno che abbiamo di un rinnovamento di classe dirigente. Il che comporta però la risposta a una domanda cruciale su che cosa possa fondarsi nella situazione storica di oggi la nascita di questa classe dirigente nuova. Su che cosa? Vi prego di credermi. Non si tratta del ricambio delle cariche pubbliche. Credetemi: è penosa questa disputa tra vecchi (sessanta anni e passa) e giovani (quaranta anni e passa) su come distribuire i mandati parlamentari e financo i futuri ministeri. È avvilente.

È da anni che siamo di fronte a una crisi devastante non solo dell’economia ma della democrazia a livello mondiale, tale da mettere in discussione perfino il diritto delle persone a non ridursi a variabile dipendente da un gioco di borsa. Come non si capisce che è semplicemente vitale il bisogno che ritorni in campo la forza, la creatività, il potere delle politica? Però della grande politica che si misura col fatto essenziale e cioè col fatto che il capitalismo finanziario è alla fine del suo percorso. La crisi dura ormai da cinque anni, ma nessuno dice ancora come se ne esce.

È semplicemente anacronistica questa disputa italiana su governi tecnici o politici. È evidente che la soluzione potrà venire solo dalla politica, essendo il tema dello scontro ridotto all’osso semplicemente questo: come ridurre lo strapotere della finanza. Un evidente problema politico, di potere. Come dimostra la lotta feroce intorno alla costruzione di un’Europa politica. Un difficile passaggio storico che richiede quella che è la vocazione essenziale della politica, cioè la capacità di ridefinire il rapporto tra economia e società, tra soggettività individuale e beni comuni, tra vecchi partiti e nuovi bisogni associativi. Io non chiedo più sinistra, penso anzi che la vecchia cultura della sinistra storica sia fuori gioco. Siamo di fronte a fenomeni grandiosi che hanno cambiato il mondo, hanno raddoppiato in venti anni il Pil mondiale, hanno ampliato i confini dello sviluppo umano e moltiplicato lo spazio per l’iniziativa individuale al tempo stesso. Al tempo stesso il mondo è stato inondato di debiti e l’economia di carta si è mangiata le cose, il lavoro, l’industria, i diritti sociali il sentirsi parte di una società, responsabili di un destino comune. Ma tutte queste cose non si cambiano con uno sciopero generale o un colpo di Stato. Occorre ridefinire il rapporto tra economia e società. La tragedia più grande è che l’economia del debito ha scaricato sui giovani tutti i prezzi di questo sistema, ha tolto loro il futuro, ha creato un’Europa di vecchi, ha determinato una frattura drammatica mai vista prima tra generazioni. Che concretezza c’è nel discutere di pensioni se alla gente non è chiaro questo scenario. Ai giovani parlerei così. Le ambizioni vanno benissimo ma che esse siano all’altezza della situazione.

L’Unità 29.08.12

"I dilemmi che dividono l'Italia", di Barbara Spinelli

Tra le molte maledizioni di cui soffre l’Italia, ce n’è una che a intervalli regolari la insidia: ogni scelta cruciale si presenta sotto forma di dilemma tragico, irrisolvibile. Nella Grecia classica si direbbe: di aporia. Uno scontro mortale tra principi egualmente forti, e spesso egualmente validi. Solo che da noi manca la catarsi, che snoda i nodi. I nostri grovigli, tendiamo a viverli come ineludibili fatalità. Nel caso dell’acciaieria Ilva, il dilemma consiste nella scelta, inconcepibile in altri paesi europei, tra la morte di fame per il lavoro perduto e la morte per i tumori che la fabbrica ha continuato a espandere lungo gli anni, per inadempienza e corruzione. Nel caso della disoccupazione giovanile, il dilemma viene addirittura presentato come cruento gioco della torre. Visto lo stato di necessità che traversiamo, chi buttare giù dagli spalti: la generazione dei 30-40 anni o quella successiva? Non so cosa abbia pensato il Presidente Monti, nell’intervista del 27 luglio a Sette, quando ha pronunciato, con la leggerezza dell’apatia, un verdetto anch’esso poco immaginabile altrove in Europa: «Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni (…) ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (…) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute».
Più grave ancora il dilemma – l’aporia tragica – che è all’origine della pubblica discussione attorno alle inchieste della magistratura di Palermo e Caltanissetta, e all’intervento del Presidente della Repubblica che ha deciso di sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani a seguito di telefonate intercettate con l’ex ministro dell’Interno Mancino, non ancora inquisito per falsa testimonianza. Non credo che Napolitano voglia ostacolare le inchieste siciliane sulle trattative fra mafia e parti dello Stato: più volte ha assicurato anzi il contrario. Ma condivido il timore espresso su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky: il rischio esiste che l’iniziativa presidenziale assuma «il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia».
Se mi soffermo su questo caso è perché tra i nostri dilemmi mi pare il più significativo, e il più periodico. Tra le critiche rivolte agli inquirenti dell’antimafia ce n’è una, che ricorre da vent’anni: l’accusa di protagonismo.
L’epiteto resiste a tutte le intemperie: chi ha letto il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere 2012), ne constaterà l’inossidabile natura, il suo ripetersi ossessivo. Ecco un altro nostro nodo che non si snoda. I magistrati sono sospettati di intromettersi nella politica e di farla, invece di lavorare in silenzio e risparmiare ministri e deputati: usano rilasciare interviste, impartire lezioni, e soprattutto denunciare l’irresponsabile non-presenza dello Stato. Non da oggi, ma dagli anni del maxiprocesso istruito dal pool di Palermo. Né Falcone né Borsellino bramavano le luci della ribalta. Se si esponevano con tanta frequenza, con accuse così esplicite, è perché percepivano l’isolamento cui erano condannati, l’insabbiamento che minacciava l’operazione verità. Non accade dappertutto, che un magistrato definisca se stesso un morto che cammina.
Lo stesso accade oggi a Antonio Ingroia, quando rilascia interviste colme di inquietudine. O a Roberto Scarpinato, Procuratore generale di Caltanissetta: il culmine l’ha raggiunto il 19 luglio, anniversario della morte di Borsellino, quando ha letto una lettera immaginaria all’amico ucciso dalla mafia vent’anni fa. Una lettera dura per i politici che ogni anno commemorano la strage di via d’Amelio: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà».
A causa di queste parole, il Consiglio superiore della magistratura presieduto da Napolitano ha aperto un fascicolo sul trasferimento d’ufficio del procuratore, rendendo perigliosa la sua nomina ai vertici della procura di Palermo. Lo stesso Csm ha attivato il procuratore generale della Cassazione, affinché verifichi se Scarpinato abbia utilizzato, nella lettera, parole censurabili con provvedimento punitivo. È il motivo per cui Zagrebelsky parla, rivolgendosi a Napolitano, di «eterogenesi dei fini»: sollevando un conflitto di poteri con i giudici di Palermo, Napolitano si inserisce, non intenzionalmente, in un contesto che vede i magistrati siciliani fortemente screditati, in difficoltà.
Non fu sollevato lo stesso conflitto nel ’93, quando il Presidente Scalfaro fu intercettato nell’ambito di un’inchiesta sulla Banca Popolare di Novara (la Procura di Milano depositò agli atti l’intercettazione, contrariamente alla telefonata Mancino-Napolitano). O quando nel 2009 fu intercettata una telefonata a Napolitano di Guido Bertolaso, indagato per gli appalti. L’intervento del Quirinale è legittimo, Scalfari ha ragione e Ingroia lo conferma. Così come sono comprensibili le preoccupazioni istituzionali espresse da Scalfari in una serie di articoli. Ma è legittima anche la domanda: perché proprio oggi, e non prima? Cosa c’è di così allarmante nelle inchieste siciliane, da smuovere le pubbliche istituzioni e da dividere fra loro giornali seri? È segno della ricchezza di questo giornale il fatto che ambedue le inquietudini siano presenti e conversino tra loro civilmente.
Forse tutto questo accade perché siamo alla vigilia di elezioni. Perché i partiti temono l’avanzare del Movimento 5 stelle. Forse, più semplicemente, perché l’Italia fin dal dopoguerra passa da un dilemma emergenziale all’altro, e mai arriva a quella che Zagrebelsky chiama la
tranquillità del diritto.
Anche sull’antimafia l’aporia resta irrisolta, dunque tragica: o vuoi sapere finalmente come ha funzionato il tuo paese – se sulla base di compromessi con la malavita oppure no – o convivi con misteri italiani eternamente inconoscibili. O la morte della verità, o la morte della politica e delle sue istituzioni.
Il problema è sapere come mai non sia possibile uscire da simili emergenze, e ritrovare la tranquillità politica in cui ciascuno fa la sua parte, e non quella dell’altro. Come mai, per imporre l’austerità in tempi di crisi, da noi sia necessario annunciare che esiste, nientemeno, una generazione perduta.
Come mai sia obbligatorio parlare di Grillo come di un «fascista del web». Come mai se critichi una mossa del Quirinale sei accusato (per quale malinteso o cortocircuito?) di voler abbattere Napolitano e Monti.
L’incapacità di stare responsabilmente al proprio posto – il politico per governare, il partito per fare programmi, il giudice per giudicare, il giornalista per scrutare e analizzare – è certamente all’origine dell’odierno sfacelo. È un’altra conseguenza non voluta delle azioni del Quirinale: il suo desiderio di blindare la carica (con quali conseguenze future?) influenza l’intera classe dirigente, di destra e sinistra, quasi che l’articolo 90 della Costituzione sull’irresponsabilità presidenziale divenisse prerogativa d’ogni politico. Segretamente, si direbbe che ciascuno, schivando il compito che gli compete, voglia Monti in eterno. Se qualcuno non è d’accordo, si fa una legge elettorale per impedirgli di sedere in Parlamento. Intanto si dibatte, all’infinito, su destra e sinistra. Sempre deliberatamente operando in modo che non venga mai l’ora delle responsabilità, dell’azione: della tranquillità del diritto e della politica.

La Repubblica 29.08.12

"Ora liberi dalle ideologie", di Stefano Rodotà

Ieri è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza che ha ritenuto illegittimo il divieto di accesso alla diagnosi preimpianto da parte delle coppie fertili di portatori sani di malattie genetiche. Si tratta di una decisione di grandissimo rilievo per diverse ragioni, che saranno meglio chiarite quando ne sarà nota la motivazione. Viene eliminata una irragionevole discriminazione tra le coppie sterili o infertili, che già possono effettuare la diagnosi grazie ad un intervento della nostra Corte costituzionale, e quelle fertili. Viene rilevata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la vita privata e familiare. Viene constatata una contraddizione interna al sistema giuridico italiano, che permette l’aborto terapeutico proprio nei casi in cui una diagnosi preimpianto avrebbe potuto evitare quel concepimento. Viene messo in evidenza il rischio per la salute della madre, quando viene obbligata ad affrontare una gravidanza con il timore che alla persona che nascerà potrà essere trasmessa una malattia genetica (è questo il caso della coppia che si era rivolta alla Corte di Strasburgo perché, dopo aver avuto una bambina affetta da fibrosi cistica e dopo un aborto determinato dall’accertamento che nel feto era presente la stessa malattia, intendeva ricorrere alla diagnosi preimpianto per procreare in condizioni di tranquillità).
È bene sapere che tutte queste obiezioni erano state più volte avanzate nella discussione italiana già prima che la legge 40 venisse approvata, senza che la maggioranza di centrodestra sentisse il bisogno di una riflessione, condannando così la legge al destino che poi ha conosciuto, al suo progressivo smantellamento. La Corte costituzionale, già nel 2010, aveva dichiarato illegittime le norme che indicavano in tre il numero massimo degli embrioni da creare e accompagnavano questo divieto con l’obbligo del loro impianto. Vale la pena di ricordare quel che allora scrissero i nostri giudici: “la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali” (così la sentenza n. 151 del 2010). Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire quali siano le tecniche ammissibili, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vennero esplicitamente dichiarate illegittime.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si colloca lungo questa linea. Quando si parla del rispetto della vita privata e familiare, si vuol dire che in materie come questa la competenza a decidere spetta alle persone interessate. Quando si sottolineano contraddizioni e forzature normative, si fa emergere la realtà di un contesto nel quale le persone sono obbligate a compiere scelte rischiose proprio là dove dovrebbe essere massima la certezza, come accade tutte le volte che si affrontano le questioni della vita. Vi sono due diritti da rispettare, quello all’autodeterminazione e quello alla salute, non a caso definiti “fondamentali”. Di questi diritti nessuno può essere espropriato. Questo ci dicono i giudici, che non compiono improprie invasioni di campo, ma adempiono al compito di riportare a ragione e Costituzione le normative che investono il governo dell’esistenza. Né si può parlare di una deriva verso una eugenetica “liberale”, proprio perché si è di fronte ad una specifica questione, che riguarda gravi patologie.
Ma la sentenza della Corte di Strasburgo è una mossa che apre una complessa partita politica e istituzionale. Saranno necessari passaggi tecnici per far sì che tutte le coppie a rischio di trasmissione di malattie genetiche possano effettivamente accedere alla diagnosi preimpianto. Passaggi che potranno essere ritardati dal fatto che il governo ha tre mesi per impugnare la decisione davanti alla “Grande Chambre” di Strasburgo. Questa impugnativa è invocata dai responsabili di questo disastro legislativo e umano. Il ministro Balduzzi, prudentemente, parla della necessità di attendere le motivazioni della sentenza: Ma può il Governo scegliere una sorta di accanimento terapeutico per una legge di cui restano soltanto brandelli, di cui le giurisdizioni europea e italiana hanno ripetutamente messo in evidenza le innegabili violazioni della legalità costituzionale?
Questa sarebbe, invece, la buona occasione per uscire finalmente dalle forzature ideologiche. In primo luogo, allora, bisogna prendere atto, come buona politica e buon diritto vorrebbero, che bisogna riscrivere la legge davvero sotto la dettatura, non dei giudici, ma delle indicazioni costituzionali, obbedendo alla logica dei diritti fondamentali. Ma, in tempi di carte d’intenti e di programmi elettorali, sarebbe proprio il caso di abbandonare fondamentalismi e strumentalizzazioni. Il dissennato conflitto intorno ai “valori non negoziabili” dovrebbe lasciare il posto ad una attitudine capace di riconoscere che vi sono materie nelle quali l’intervento del legislatore deve essere in primo luogo rispettoso della libertà delle persone e della loro dignità, che non possono essere sacrificate a nessuna imposizione esterna.

La Repubblica 29.08.12