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"L'anomalia italiana: lavora solo 1 su 3, persi 450 mila posti", di Federico Fubini

L’anomalia italiana: lavora solo 1 su 3, persi 450 mila postidi FEDERICO FUBINILa crisi globale che dura ormai da 5 anni ha cambiato in profondità la condizione del lavoro in Italia. Secondo Eurostat gli occupati nel nostro Paese sono attualmente (al primo trimestre di quest’anno) 450 mila in meno che nel 2007, quando esplose quella che allora si chiamava la crisi dei subprime.
Oggi, in Italia, su una popolazione che l’Ufficio statistico europeo valuta in 60,8 milioni di persone, in base alle definizioni dello stesso ufficio, ne lavorano 22,3 milioni. È una quota del 36,8%, superiore (di poco) solo a quella della Grecia. Nello stesso periodo la Germania ha creato il 6,3% dei posti di lavoro in più.
Sono passati, rispettivamente, cinque e dieci anni. È tempo di un bilancio: l’Europa sta offrendo una dimostrazione di potenza produttiva e allo stesso tempo attraversa qualcosa di simile alla Grande depressione. Quanto all’Italia, queste tendenze bipolari convivono in modo se possibile più estremo.
Sono passati cinque anni — siamo appena entrati nel sesto — da quando Jean-Claude Trichet interruppe le sue vacanze in Bretagna per compiere il gesto che simbolicamente certificò l’ingresso nella crisi finanziaria. Nell’agosto del 2007, l’allora presidente della Banca centrale europea lanciò le prime operazioni straordinarie di liquidità a favore degli istituti privati del continente. Presto sarebbe fallita Lehman Brothers, affondando l’economia dell’intera area euro.
Ma cinque anni prima di quella svolta di Trichet in Bretagna, a dieci anni esatti dalla settimana che inizia oggi, si svolgeva un po’ in sordina un altro episodio di svolta. Il 16 agosto 2002 il direttore del personale della Volkswagen, Peter Hartz, consegnava all’allora cancelliere Gerhard Schröder una nuova proposta sul welfare e il lavoro in Germania. Si chiamava «Agenda 2010». Hartz suggeriva di ridurre e poi togliere il sussidio ai disoccupati che rifiutassero un’offerta di lavoro; il manager della più grande casa automobilistica europea, cogestita con i sindacati, consigliava al cancelliere di rifondare l’intero sistema di tutele sul punto di lavoro. Centinaia di migliaia di persone sarebbero scese in piazza contro Schröder nei due anni seguenti, al punto che il cancelliere non sarebbe stato rieletto.
Il bilancio a due facce
A un decennio da quella visita di Hartz nel palazzo della Cancelleria, tutto sembra cambiato. Forza e devastazione economica convivono nello stesso spazio geografico. Basta guardare ai numeri, elaborando i dati armonizzati di Eurostat sul lavoro in Europa e quelli del Fondo monetario internazionale sulla crescita. La Germania ha attraversato la peggiore crisi finanziaria dagli anni 30 continuando a creare posti su una traiettoria di crescita: più 6,3% cumulato dal 2007 per il prodotto interno lordo, benché nel solo anno dopo il crac di Lehman, il 2009, l’economia tedesca sia caduta del 5%. Nello stesso periodo la Spagna ha visto la disoccupazione salire dal 9% fino al 25% circa, lo stesso livello che raggiunse la quota di senza lavoro negli Stati Uniti al culmine della Grande depressione.
Ma il dato più sorprendente riguarda l’Italia: nel Paese la disoccupazione ufficiale resta relativamente contenuta al 10,8%, meno della metà che in Spagna. Eppure ha un posto regolare appena un italiano ogni tre, meno che in quasi tutti gli altri Paese europei. Spagna inclusa.
Secondo Eurostat gli occupati in Italia sono (al primo trimestre di quest’anno) 450 mila in meno che nel 2007, quando esplose quella che allora si chiamava la crisi dei subprime. Oggi su una popolazione che l’ufficio statistico europeo valuta in 60,8 milioni di residenti, lavorano solo 22,3 milioni di persone. È una quota del 36,8%, superiore — di poco — solo a quella della Grecia, un altro Paese con valori di disoccupazione e di caduta del Pil (meno -15% dal 2007) in tutto simili a quelli della Grande depressione americana. L’economia italiana somiglia a una piramide rovesciata, la cui base formata da chi produce si restringe sempre di più. Se si eliminasse l’apporto degli stranieri, fra i quali svolge un’attività una quota più elevata di persone (circa il 44%), emergerebbe che i cittadini italiani effettivamente al lavoro sono poco più di uno su tre. Di rado gli economisti guardano a queste cifre, che fotografano i produttori di reddito in proporzione al totale dei consumatori di ogni età. Ritengono più rilevante la disoccupazione in senso tradizionale (data da chi cerca un posto) o il tasso di occupazione rispetto alla potenziale manodopera fra i 15 e i 65 anni.
L’anomalia storica
Ma il dato dei lavoratori sul totale dei residenti rivela più chiaramente l’anomalia italiana, che viene da lontano e ha molte cause. In una fase di recessione prolungata, diventa solo più acuta e difficile da sostenere. Una delle ragioni di fondo della «base stretta» della piramide è l’età media decisamente elevata della popolazione. La quota di pensionati è alta non solo perché nei decenni scorsi molti si sono ritirati in anticipo. Semplicemente, nel Paese vivono molti più anziani che in Spagna o in Grecia. L’italiano «di mezzo», quello più giovane di metà della popolazione e più vecchio dell’altra metà, oggi ha 43,8 anni. È uno dei livelli più alti al mondo con il Giappone (45,4 anni) e la Germania (45,3).
Nel frattempo però, per effetto delle riforme di Hartz, nell’economia tedesca lavora il 47,3% della popolazione totale a dispetto della quota di capelli bianchi più elevata che in Italia. Ciò segnala che una delle cause di fondo della sproporzione italiana fra chi lavora e chi no è nelle regole: in Germania attraggono sempre più persone verso l’impegno professionale, mentre in Italia è successo il contrario e ora resta da vedere quale sarà l’impatto della riforma Fornero. Si fa poi sentire anche un’ulteriore, ben nota, anomalia italiana: la partecipazione delle donne al lavoro è fra le più basse dei Paesi avanzati.
Tutto ciò spiega perché non appena la recessione morde, la quota di persone attive scende a livelli assoluti da Grande depressione. Scoraggiati, cassaintegrati, prepensionati, falsi invalidi, donne a casa per assenza di asili nido dove lasciare i figli: è questa la popolazione che non emerge nei dati di disoccupazione ufficiale e li fa apparire molto migliori che in Spagna o in Grecia.
In attesa del recupero
La ferocia del virus che ha colpito il lavoro nasconde un’altra particolarità del Paese, questa in parte positiva. L’intensità dell’impegno professionale (per chi può svolgerlo) è più forte che nella media europea, se non altro in termini di ore lavorate. È anche per questo che l’export italiano nel mondo nella prima metà di quest’anno è cresciuto, in proporzione, circa quanto il «made in Germany».
Non è detto però che ciò basti ad avvicinare una ripresa che non appare dietro l’angolo. Il confronto europeo e l’esperienza di questi anni suggerisce che l’export da solo, per il momento, non basta a trainare l’economia. Malgrado il relativo dinamismo delle vendite all’estero dal 2007 l’Italia è decresciuta circa come Irlanda e Portogallo, due Paesi sotto la tutela di un programma di salvataggio di Europa e Fmi. Se il Pil fosse caduto solo come in Spagna (-0,6%), l’economia nazionale oggi sarebbe di circa 45 miliardi più ricca; se l’Italia fosse cresciuta come la Germania, oggi sarebbe più ricca di 150 miliardi. Uno spreco di creatività umana e risorse produttive di proporzioni colossali, che può far riflettere chi è tentato di indietro sulle riforme del lavoro o delle pensioni. Ma per loro, forse, la base della piramide rovesciata non è ancora abbastanza stretta.

Il Corriere della Sera 20.08.12

"Più Stato nel mercato: il modello è l'Eni, non l'Iri", intervista a Giulio Sapelli di Marco Ventimiglia

«Per salvaguardare il patrimonio industriale del Paese è bene che, laddove serve, intervenga direttamente lo Stato, rilevando quote di aziende private ed investendo in grandi progetti industriali». Nell’intervista pubblicata ieri, Susanna Camusso ha riportato in vita un concetto che sembrava sepolto in lunghi anni di liberismo: il capitale pubblico al servizio della crescita come antidoto alla crisi. Giulio Sapelli raccoglie quella che non reputa affatto una provocazione. «Tutt’altro – dice il docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano – le parole della Camusso hanno il grande pregio di sottolineare la necessità di una svolta rispetto al pensiero a lungo dominante, quello che reputa la presenza dello Stato nell’attività economica un nemico della crescita. Mi permetto invece di dissentire relativamente alla modalità con cui bisognerebbe agire».

Per quale ragione? «Se ho ben capito le parole del segretario della Cgil, l’idea è quella di un’azione duplice: da un lato l’assunzione da parte dello Stato di un ruolo attivo in grandi progetti industriali, dall’altro l’ingresso nel capitale di aziende in difficoltà con l’obiettivo di traghettarle fuori dalla crisi. Ecco, se il primo punto mi vede assolutamente d’accordo, sul secondo ho una diversa visione delle cose».

Partiamo allora da questa divergenza di vedute. «L’idea dello Stato che prende il timone di aziende alla deriva appartiene ad un passato neppure recente. Non è pensabile, per capirci, dare vita ad una nuova Iri, quella che nel pieno della Grande crisi fra le due guerre salvò fabbriche e banche dal fallimento, creando allo stesso tempo i presupposti per la creazione di vari “carrozzoni” assistiti ed infiltrati dalla politica che tanti danni hanno fatto al Paese nei decenni successivi. Con questo non voglio dire che il governo si debba girare dall’altra parte rispetto alle società in difficoltà, ma gli strumenti per intervenire sono altri».

Vale a dire? «Uno strumento forte è sicuramente il varo di provvedimenti mirati di defiscalizzazione con i quali concedere ossigeno finanziario alle imprese che non hanno liquidità sufficiente per l’attività ordinaria e/o per gli investimenti».

E in casi drammatici, come quello attualissimo dell’Ilva di Taranto, che cosa si fa? «Di fronte ad un’azienda che ha bisogno immediatamente di un grande finanziamento, nel caso in questione per procedere ad un’enorme bonifica, la via maestra per fornire le risorse che il privato non è in grado di reperire è semplicemente quella del prestito. Pensiamo ad un esempio che ci è molto familiare, quello della Chrysler salvata da Obama con i soldi dei contribuenti americani e poi rilevata dalla Fiat».

Ritorniamo all’evocazione di uno Stato imprenditore… «Ecco, su questo Susanna Camusso ha il merito, come ho detto, di aver riproposto una questione finita colpevolmente nell’oblio ed invece di stretta attualità. Il problema è che nelle grandi economie mondiali coloro che prendono le decisioni spesso non leggono testi storici dai quali avrebbero molto da imparare. Si renderebbero conto che nei momenti di grande crisi, come quello che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio, ben prima del fallimento della Lehman Brothers, l’intervento dello Stato nell’imprenditoria non è una bestemmia ma una necessità. Diro di più, è il vero volano per fare ripartire la crescita».

Ma se è sbagliato rilevare le aziende in crisi, in quale modo deve svolgersi quest’intervento? «In un modo consono ai tempi che stiamo vivendo, un’epoca di grande trasformazione sotto la spinta dell’incessante rinnovamento tecnologico. Ed allora il modello è quello di uno Stato imprenditore che dà vita a nuove aziende in settori con un’elevata potenzialità di sviluppo, ad esempio le attività all’interno della cosiddetta “green economy” piuttosto che quelle legate all’adozione della banda larga su scala nazionale. Tutto questo agendo con degli inderogabili principi di governance grazie ai quali evitare gli errori del passato».

Che cosa significa? «Occorre che alla guida di queste nuove aziende vengano nominati degli amministratori delegati dotati di un potere monocratico. Manager che devono rispondere del loro operato unicamente sulla base dei risultati ottenuti e non certo per la loro sensibilità alle convenienze della politica».

Non stiamo parlando di un libro dei sogni? «Non credo, sia perché ritengo che i tempi, a partire dalla consapevolezza di un profondo cambiamento, sono maturi, sia perché la stessa storia italiana ci fornisce un esempio illuminante dello Stato che si fa imprenditore sulla base di principi giusti e vincenti».

Qual è? «L’Eni di Enrico Mattei. Voglio però aggiungere che, oltre al ritorno dello Stato imprenditore, nell’economia italiana è necessario anche il rafforzamento di quello che è un nostro patrimonio peculiare. Mi riferisco alla presenza di imprese la cui priorità d’azione non è il raggiungimento del profitto, in primis le cooperative che vanno in qualche modo “restituite” alla loro missione».

Perché? «Perché compito di una cooperativa non è certo quello di evitare il fallimento della famiglia Ligresti, bensì svolgere un’indispensabile azione di sussidiarietà nel contesto economico. È tempo che il movimento cooperativo si scrolli di dosso la subalternità creatasi negli anni rispetto al modello capitalistico».

L’Unità 20.08.12

"Prima che sia tardi: il coraggio di una nuova Europa", di Giuliano Amato

Vedo i passi che si fanno nelle sedi europee per rendere più integrate, e quindi più efficaci, le politiche volte a stabilizzare l’euro e a raddrizzare i bilanci nazionali dai quali tale stabilizzazione oggi dipende. E vedo le reazioni che ciò suscita tra i nostri cittadini, in un crescendo di ostilità reciproca tra le opinioni pubbliche nazionali e di ostilità comune verso l’Europa. Chi reagisce a misure di austerità che sente imposte dagli altri, chi al vincolo di pagare per gli altri e tutti protestano per le lesioni delle rispettive sovranità. Lorenzo Bini Smaghi ha scritto il 7 agosto sul Financial Times che è la sopravvivenza dell’euro a richiedere queste interferenze nelle sfere nazionali, conseguenze naturali della maggiore integrazione politica. Perciò politici e commentatori – così concludeva – non possono chiedere più Europa e poi lamentarsi per le perdite di sovranità. Sembra una conclusione inesorabile, ma a me pare assurdo che l’integrazione politica ricercata e promossa per anni da molti di noi per dare più strumenti comuni e quindi più forza agli europei sia fonte invece di ostilità fra di loro.

Davvero non può essere che così? Davvero ciò che i padri fondatori avevano pensato per costruire un tessuto di interessi condivisi fra i nostri popoli va invece nella direzione opposta? Siamo noi, candidi e ingenui europeisti, che ci accorgiamo troppo tardi degli interessi nazionali, oppure c’è qualche errore che si sta facendo? Siamo sicuri, insomma, di essere sulla strada giusta?
Mi scuseranno i lettori se torno su un tema sul quale li ho già intrattenuti più volte, ma non possiamo non risalire alla scelta che fu fatta quando venne deciso, sul finire degli anni 80 e poi con il Trattato di Maastricht, che avremmo avuto una moneta comune, l’euro, una politica monetaria da affidare a una banca centrale europea, ma per il resto la cornice istituzionale dell’euro sarebbe stata non un più forte governo sovranazionale, bensì il solo coordinamento intergovernativo delle politiche nazionali.

Non riprendo ora le critiche suscitate da quella scelta, né ignoro l’argomento dei suoi autori, secondo i quali o si faceva così o l’euro non lo avremmo avuto. Mi limito a constatare che la scelta, checché si dicesse per darle un fondamento razionale, fu fatta per l’unica e fondamentale ragione che si vollero salvaguardare le prerogative e le responsabilità nazionali in materia economica e fiscale.
In questo modo, diversamente da quanto accade negli assetti di tipo federale, la stabilità dell’euro venne fatta dipendere dalla solidità dei singoli bilanci nazionali. E a garanzia di tale solidità si inventò un sistema di sorveglianza, pre-allarmi, valutazioni comuni, raccomandazioni, eventuali sanzioni da decidere collegialmente, che venne presto violato (con il consenso di tutti) proprio dai due Paesi maggiori, Francia e Germania, e che mostrò anche per questo tutta la sua fragilità.Ma questo era ormai il binario sul quale ci eravamo immessi e quando le cose hanno cominciato ad andare davvero male, l’unica opzione che quel binario ci offriva è stata quella di irrigidire i meccanismi di coordinamento e di trasformare le raccomandazioni in vincoli e le proposte in obblighi.

A quel punto era inevitabile che l’eurozona venisse percepita dai nostri cittadini come un sistema interconnesso di Stati, che tutelano la loro moneta distribuendo oneri e sacrifici in modo da erodere la libertà e le responsabilità di ciascuno a beneficio degli altri. In un assetto fondato sul coordinamento coatto, essere uniti significa essere prigionieri l’uno dell’altro.
È facile replicare che non è così, perché tutto questo lo facciamo a tutela di un bene comune. La realtà è che il bene comune è percepito da ciascuno come un cappio al proprio collo, che reca benefici agli altri e che gli altri sono in grado di stringere ancora, tant’è che si chiede (e si ottiene) sempre di più che le decisioni comuni siano convalidate dai Parlamenti nazionali. È insomma una vera e propria nemesi storica. Una scelta fatta per salvaguardare i poteri propri degli Stati si sta risolvendo nel suo contrario e distrugge non solo quei poteri, ma anche le autonomie regionali e locali.

No, non era questo ciò a cui pensavano i padri fondatori, né era questa l’integrazione politica perseguita dopo di loro. Era la creazione di una più forte istanza sovranazionale, che non si limitasse a coordinare le politiche nazionali, ma avesse poteri sufficienti a garantire la solidità della sua moneta. Anche San Tommaso avrebbe oggi la prova che gli Stati membri sarebbero così più liberi e più responsabili di quanto non lo siano con l’attuale coordinamento irrigidito. Certo, liberi anche di fallire, perché il loro fallimento non metterebbe a repentaglio la moneta comune, ma allo stesso tempo gravati da minori stress e oneri finanziari, visto che metà dello spread che pesa ora sui nostri Stati debitori è dovuta al rischio che essi rappresentano per l’euro.
È un confronto che non lascia dubbi e il dubbio è caso mai se siamo ancora in tempo a farlo il salto di binario, dotando il nostro livello sovranazionale di competenze e di risorse capaci di dargli la forza e la credibilità tipiche dei sistemi di tipo federale. Non è facile, lo so, specie sul terreno delle risorse, che dovrebbero portare il bilancio comune ben al di sopra dell’attuale 1% del Pil europeo. Detto questo, la domanda rimane ineludibile: se non ora, quando?

Il terreno sotto di noi sta bruciando. L’uscita dell’eurozona dalla sua crisi è tuttora problematica, mentre crescono gli umori contrari all’euro, alla convivenza forzata con gli altri, all’Europa. E in questo clima si parla sempre più di referendum sull’euro, lo fa la stessa Spd tedesca, sia pure con motivazioni ancora segnate dal suo tradizionale europeismo. Qualcuno pensa che l’euro e gli assetti che oggi lo circondano possano essere difesi con successo davanti agli elettori?
C’è un solo modo di affrontare i referendum che si profilano ed è quello di precostituirne i quesiti, andando senza remore nella “zona rossa” delle modifiche che investono le stesse costituzioni interne, delimitata dal Tribunale costituzionale tedesco. Si affidi a una Convenzione costituente il compito di preparare il disegno di una unione integrata, che abbia un volto e chiare responsabilità, e lo si sottoponga poi agli elettori, chiedendo loro: che cosa volete, una unione di popoli che si danno un forte governo comune, ma rimangono nelle loro sfere liberi e responsabili, o una unione di governi che senza gran costrutto si pestano i piedi l’uno con l’altro?
È un cimento arduo, ma potremmo pentirci troppo tardi di non averlo affrontato. Dai leader europei dobbiamo esigere il coraggio di farlo.

Il Sole 24 Ore 19.08.12

Intercettazioni, la mediazione del Csm “Faremo una autoregolamentazione”, di Liana Milella

Se lo dicono riservatamente tutti nella maggioranza. «Ormai il tempo delle intercettazioni è scaduto. Una riforma non è più possibile». La stessa certezza corre al Csm come tra i magistrati. Tra i quali, con sempre maggiore insistenza, si fa strada la strategia dell’autoregolamentazione, del rispetto rigido e rigoroso delle regole che già esistono. Che, se applicate in modo puntiglioso, metterebbero al riparo sia gli inquirenti che la stampa dal rischio di qualsiasi legge bavaglio.
Al Csm non si parla che di questo. La verifica partirà a settembre. Riguarderà il rispetto delle norme già in vigore sia per chiedere di registrare una conversazione, sia per utilizzarla nel processo. Ci lavorerà la sesta commissione che si occupa di studiare leggi e riforme. La proposta arriva da Aniello Nappi, esponente della sinistra del Movimento giustizia, toga votata in Cassazione.
Proprio alla Suprema corte ecco “girare” in queste ore una sentenza scritta nel febbraio 2009 dall’attuale segretario generale Franco Ippolito sul processo Federconsorzi in cui un passaggio colpisce sugli altri: «L’intercettazione può essere disposta solo quando (come scrive il codice,
ndr) è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini, requisito essenziale di legittimità che deve costituire specifico oggetto di motivazione. E per giustificare l’indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, la motivazione deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata utenza telefonica che fa capo a una specifica persona e perciò non può omettere di indicare il collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando». L’ostico linguaggio giuridico, tradotto per tutti noi, significa che il pm, per chiedere e ottenere l’assenso all’ascolto di una singola utenza telefonica, deve dimostrare che ciò è assolutamente necessario per proseguire l’indagine e deve produrre già delle “ragioni valide” per farlo.
Lo stesso Ippolito ritiene “attualissima” la sentenza perché se il pm rispetta rigorosamente i presupposti per poter intercettare, quindi evita gli ormai famosi ascolti “a strascico” (che quella sentenza bocciò nel caso Federconsorzi), ciò fa venir meno le ragioni stesse di un nuovo intervento legislativo, ne svuota le premesse, ne rivela anche la strumentalità politica. Nel codice attuale, è convinto Ippolito, «c’è già tutto quello che è necessario ci sia» per garantire un corretto uso delle intercettazioni.
Al Csm la pensano allo stesso modo. Per questo il vice presidente Michele Vietti, a fine luglio, ha visto assai di buon occhio la proposta di Nappi, l’ha subito vistata nel comitato di presidenza, l’ha passata alla sesta commissione. L’ha sponsorizzata con la stampa. Il Csm studierà come funziona il
meccanismo delle intercettazioni, verificherà eventuali anoma-lie, soprattutto si concentrerà su quante conversazioni diventano pubbliche perché fatte trascrivere dai pm, comprese quelle che riguardano persone non coinvolte nelle indagini.
Dice Nappi: «Sono convinto che se magistrati e avvocati rispettassero rigorosamente le norme vigenti il problema delle intercettazioni non si porrebbe neppure» . Con questo spirito si è mosso al Csm per sollecitare l’ormai prossimo accertamento. A spingerlo è stato il caso di Paolo Mancuso, l’attuale procuratore di Nola che è stato in corsa per la procura di Napoli e sul quale è “piombata” un’intercettazione registrata a Palermo di un suo colloquio con l’ex capitano dei Cc De Donno. Secondo Nappi quell’intercettazione, investigativamente non utile, non avrebbe mai dovuto essere trascritta, né tantomeno sarebbe dovuta circolare. Nappi la pensa come Ippolito: “Per ottenere l’autorizzazione a un intercettazioni è necessario che già esista un vicenda criminale ben specifica e determinata, tant’è che il codice parla di gravi indizi di reato. Questo già restringerebbe di molto il campo delle telefonate intercettabili”. E ancora: «Pm e gip devono fare una selezione che non leda il diritto alla riservatezza di persone estranee alle indagini quando le conversazioni non sono rilevanti» . In autunno il Csm dirà che le intercettazioni devono essere fatte se davvero necessarie, si devono usare quelle indispensabili per provare un’innocenza o una colpevolezza, bisogna tutelare chi, estraneo alle indagini, finisce nei nastri della polizia. Le regole ci sono già, basta rispettarle.

La Repubblica 20.08.12

"Chi perde tanto e chi guadagna nella lunga crisi giovani, famiglie, ceto medio sono impoveriti", di Carlo Buttaroni

L’altra faccia della crisi è in chi ci guadagna. Una contraddizione in termini per i più ma, in realtà, nulla di più concreto. Per alcuni, infatti, la situazione che stiamo vivendo è un vero affare. Pensiamo al tanto temuto spread, spada di Damocle per banche e imprese: esso misura sì lo stato di salute economica dei Paesi dell’Eurozona (Grecia, Spagna e Italia in testa), ma rappresenta anche una straordinaria opportunità di arricchimento per i grandi investitori. Chi ha elevate quantità di denaro liquido può farle fruttare molto più che in altri periodi, ad esempio prestando il proprio denaro a tassi d’interesse più alti. Oppure, sfruttando la crisi della liquidità che colpisce Stati e imprese, si possono fare affari straordinari acquistando grandi società e patrimoni immobiliari a prezzi molto più bassi rispetto al loro valore reale. Gli speculatori finanziari rappresentano un’altra categoria favorita dal momento attuale. I veri, grandi speculatori non sono tantissimi: una ventina, forse meno, in tutto il mondo. Ma con un potere molto forte: quello di indebolire fino al collasso l’economia di un Paese, di far perdere valore a una moneta, di mettere in ginocchio i governi, di far crollare le borse, di spingere alle stelle i prezzi delle materie prime, di portare al fallimento grandi società. Come i cacciatori, scelgono con cura la “preda” e applicano le loro strategie di aggressione sfruttando i molti coni d’ombra delle legislazioni nazionali, la paura dei piccoli risparmiatori e soprattutto le debolezze politiche di governi e organismi internazionali. Ci sono anche gli speculatori più piccoli, ma non per questo meno agguerriti. Essi si muovono agendo nei termini che la legge gli consente come, ad esempio, vendere ciò che in realtà non hanno. Se nella vita reale qualcuno vendesse qualcosa che non possiede (un’automobile o un appartamento) sarebbe considerato un truffatore. In termini finanziari si chiama, invece, short selling – vendita allo scoperto – e in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, è una pratica legale. Chi vende allo scoperto scommette sul ribasso successivo dei titoli, delle azioni o dei beni che offre. In pratica, il venditore mette sul mercato un prodotto (che in realtà non possiede) al prezzo di quello specifico momento (per esempio 100). Poco dopo acquista da chi ha realmente il titolo, l’azione o il bene quando il prezzo è sceso (per esempio a 80), incassando la differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto. Quella dello speculatore non è, però, una puntata al buio, sul ribasso futuro del titolo. In realtà immette sul mercato grandi quantità del prodotto che offre, per spingerne il valore ulteriormente in basso, alimentando la paura dei piccoli risparmiatori che, per timore di una perdita, si affrettano a vendere a prezzi inferiori rispetto alla quotazione di partenza. Ecco perché speculazione e crisi si alimentano a vicenda. la forbice si allarga Totalmente diversa la situazione della fetta più ampia della popolazione, che con la crisi è costretta a stringere la cinghia essendo diventata drasticamente più povera. Enormi quantità di ricchezza stanno, infatti, rapidamente passando da un’ampia fascia di popolazione a medio e basso reddito a una cerchia più ristretta ad altissimo reddito. In sostanza, con la crisi, chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio. La forbice socioeconomica, cioè, si è ampliata e la piramide della ricchezza, oggi, ha una basa più ampia rispetto al passato e un vertice notevolmente più stretto. Circa otto milioni di italiani, in questo momento, vivono in condizioni di povertà. Secondo l’Istat, i poveri rappresentano l’11% della popolazione e sono concentrati soprattutto nel Mezzogiorno (il 23%, contro il 5% del Nord e il 6% del Centro). Ciò che maggiormente preoccupa, però, è la linea di demarcazione tra i poveri e i non poveri: sempre più sottile e sempre meno visibile. Basta la perdita momentanea del lavoro, la cassa integrazione o il sopraggiungere di una malattia per compromettere seriamente questo già fragile equilibrio. Avere un lavoro non protegge più dai rischi dell’impoverimento. Oggi, circa il 10% degli occupati è sotto la soglia della povertà. Sono quelli che le statistiche definiscono i «poveri che lavorano». D’altronde, quasi 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese, e di questi circa 7 milioni hanno uno stipendio inferiore ai 1.000 euro al mese. Ultimi tra gli ultimi sono sempre i giovani: se sono fortunati, hanno un lavoro precario e spesso mal retribuito. Lo spettro della povertà, che ha sempre riguardato categorie “tradizionali” come i pensionati, i disoccupati e i sottoccupati, si sta ampliando a macchia d’olio travolgendo fasce di popolazione finora considerate al riparo dalle turbolenze dei mercati. Dopo anni di crescita, impiegati, commercianti, dirigenti e professionisti sono travolti dall’onda anomala della crisi e dalla conseguente messa in discussione degli standard di vita che sembravano acquisiti per sempre. Le prime conseguenze di questo effetto domino sono rappresentati dalla perdita di ruolo, dalla diminuzione del potere di acquisto, dalle incertezze rispetto al futuro. In quella che, per anni, è stata la spina dorsale dell’Italia si diffonde un sentimento di pessimismo. Un sentimento che si trasforma in disillusione politica e che assume i caratteri di un vero e proprio tradimento nel momento in cui, dopo tante parole, nessuno si occupa più di certe istanze. Perché il ceto medio paga, più di altre fasce di popolazione, la mancanza di seri interventi a favore della famiglia e subisce direttamente le debolezze del nostro Paese: nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca, nei servizi. Il rischio di tensioni Soprattutto nel momento in cui il nostro sistema politico si mostra prigioniero di se stesso e senza alcuna good reputation da spendere in campo internazionale, sostanzialmente incapace di governare i processi che prendono corpo in basso (avendo lasciato il campo al primato del mercato) e in alto (dove inevitabilmente prevale il potere finanziario). E così l’economia virtuale schiaccia progressivamente l’economia reale. Continuare a pensare che i poteri finanziari disegnino lo sviluppo è un’illusione, perché lo sviluppo si fa solo con le idee e con le mobilitazioni collettive. E, soprattutto, se si è in grado di governarne i processi con la politica. Il rischio è, invece, che la crisi diventi il terreno di coltura di tensioni e di conflitti sempre più aspri, alimentati dalle diseguaglianze e dall’emarginazione sociale. Per questo motivo c’è bisogno di più politica. Lo si intuisce nelle forme auto-organizzate ed eterodirette dei nuovi aggregati sociali capaci di supplire alle carenze del welfare (asili nido, mense scolastiche, esperienze mutualistiche) e nella partecipazione comunitaria a livello territoriale di tutti quei soggetti intermedi portatori di interessi o di istanze civili. La crescita economica dell’Italia, per mezzo secolo, è stata alimentata da processi di sviluppo che hanno visto protagonisti l’iniziativa imprenditoriale, la vitalità delle realtà territoriali, la coesione sociale, la forza economica delle famiglie, la diffusa patrimonializzazione, la copertura dei bisogni sociali. Questi fattori sono ancora oggi essenziali per evitare lo sviluppo del conflitto sociale e superare la crisi. Ma occorrono scelte politiche coerenti, capaci di recuperare chi è stato trascinato ai margini della società e dare respiro a quanti oggi vivono in apnea, sospesi tra il sogno della ripartenza e l’incubo della povertà.

Presidente Di Tecnè

L’Unità 20.08.12

"Più rigore istituzionale per poter crescere", di Alberto Bisin

Le sempre più frequenti ed intemperanti dichiarazioni riguardo alla possibilità che l’Euro perda dei pezzi, a partire dalla Grecia, suggeriscono che in questa fase i Paesi del Nord Europa stiano in qualche modo valutando l’opportunità e i costi di procedere da soli. All’ipotesi che il consolidamento fiscale del Sud possa essere controllato e guidato con successo per mezzo di un accordo (il fiscal compact) che implichi un passaggio di sovranità in materia di politiche fiscali, non crede ormai quasi più nessuno: anche le cicale sono gelose della propria sovranità

Vediamo quindi come appaiono, a noi ma anche ai tedeschi, le prospettive di consolidamento fiscale a medio termine, diciamo a 5-10 anni, dell’Italia. In questa prospettiva, il Paese ha due problemi fondamentali: non cresce e ha una struttura politico- istituzionale che si configura come una macchina per la produzione di spesa pubblica. Se è vero che crescere è di fatto condizione necessaria per rientrare dal debito, è anche vero che non è affatto sufficiente. Il Paese ha goduto di una crescita anche sostenuta in passato, ma la sua spesa pubblica è sempre cresciuta ad un ritmo ancor più elevato del reddito, accumulando così debito. Anche nel corso dell’ultimo decennio, quando l’Euro ci ha permesso un sostanziale risparmio nel servizio del debito, il paese ha destinato questo risparmio a nuova spesa, così che il rapporto debito-pil è rimasto essenzialmente invariato.
Per quanto quindi tornare a crescere richieda riforme profonde di liberalizzazione dei mercati e dei servizi pubblici che il Paese appare refrattario ad intraprendere, è forse ancor più urgente chiedersi come sia possibile intervenire su quei meccanismi della struttura istituzionale che storicamente hanno prodotto in modo sistematico spesa pubblica a fronte di crescita economica e/o di nuove entrate fiscali. Alcuni di questi meccanismi istituzionali sono evidenti: la moltiplicazione incontrollata dei centri di spesa locale, la struttura salariale dell’amministrazione pubblica, di fatto indipendente dalla produttività, la dimensione eccessiva del settore pubblico e del settore privato che al pubblico è legato da dipendenza istituzionale, come gran parte del settore bancario, molte imprese di servizi (locali e no) privatizzate solo sulla carta, ed anche quei settori industriali che sopravvivono grazie a commesse e sussidi pubblici.
A ben vedere, alla base di questi meccanismi istituzionali vi è la dispersione del potere politico ad ogni livello della struttura economica del Paese e le conseguenti politiche clientelari connaturate al controllo politico dell’attività economica. A costo di annoiare il lettore con un tono eccessivamente didascalico, voglio rimarcare che il consolidamento fiscale è possibile solo operando sui meccanismi istituzionali stessi; agire sugli effetti di bilancio di tali meccanismi non è sufficiente.
Solo rompendo questi meccanismi possiamo sperare di evitare che nuova spesa pubblica occupi a medio termine gli spazi di bilancio liberati da una contingente politica del rigore o anche dalla pioggia di Eurobonds e di liquidità salvastati (che non verrà).
Provo a spiegarmi con degli esempi scelti tra quelli assurti alla cronaca di recente. Il caso della Regione Sicilia è un buon esempio. Operare affinché il prossimo presidente della Regione sia un abile e onesto amministratore della cosa pubblica ha effetti limitati se non si agisce sull’Autonomia, il meccanismo istituzionale che permette alla Regione Sicilia un largo controllo della spesa senza che i cittadini siano chiamati a risponderne fiscalmente. Questo naturalmente non vale solo per la Sicilia (che è però caso eclatante), né solo per tutte le regioni autonome, ma bensì per tutti i centri di spesa locale non soggetti alla responsabilità della raccolta. Un altro buon esempio è la questione delle partecipazioni pubbliche in imprese definite strategiche. Garantire la scelta oggi di amministratori seri e preparati per queste imprese, lasciando però la responsabilità istituzionale di controllo al Tesoro, non elimina gli enormi incentivi che hanno portato in passato e ancora porteranno in futuro alla lottizzazione politica dell’impresa pubblica, con risultati devastanti sul bilancio. Trucchi amministrativi e contabili che permettano al settore pubblico di mantenere anche indirettamente il controllo di imprese privatizzate vanno nella stessa direzione, con l’aggravante della mancanza di trasparenza. Questo è stato il caso della riforma bancaria con la creazione delle Fondazioni. Questo è oggi il caso con i vari paventati trasferimenti di patrimonio pubblico alla Cassa Depositi e Prestiti. È necessario che il Paese si risolva a ridefinire e a salvaguardare altrimenti i propri interessi strategici.
Più in generale, la stessa analisi implica che operazioni di rigore di bilancio contingenti e di emergenza, come ad esempio un aumento condizionale dell’Iva, un rinnovato sforzo contro l’evasione, un condono, una patrimoniale, o un temporaneo blocco delle assunzioni pubbliche, sono destinate ad essere prontamente vanificate senza interventi sui meccanismi istituzionali di raccolta e di spesa. Lo sappiamo noi come lo sanno i tedeschi.

La Repubblica 20.08.12

"Istruzione priorità soltanto per i tagli", di Guido Rossi

Il 14 agosto l’Università Jiao Tong di Shanghai ha pubblicato la sua classifica annuale (Arwu-Academic Ranking of World Universities) sulle 500 migliori Università del mondo. I criteri adottati sono sei, tra i quali la presenza di premi Nobel nei professori e negli ex allievi, il numero dei ricercatori maggiormente citati nelle loro discipline, il numero delle pubblicazioni sulle riviste specializzate, il numero dei professori presenti nell’Università. Questa classifica, tra quelle elaborate annualmente, è certamente la più autorevole. Il rilievo maggiore è dato alle prime cento Università, fra le quali ben 53 sono statunitensi.
Quel che mi pare doveroso sottolineare è che fra le prime cento non figura nessuna Università italiana, mentre tra quelle europee sono presenti, in ordine decrescente, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, la Svezia, l’Olanda e la Danimarca. Qualche rilievo può essere fatto sui criteri di scelta, come ha sottolineato la ministra dell’Istruzione francese, precisando che le scienze umane e sociali appaiono postergate e che anche laddove ci sono dei centri di eccellenza, soprattutto nella ricerca, la lingua usata, il francese, «scientificamente una lingua morta», può aver giocato per ridurne la reputazione scientifica internazionale.

Cade subito in taglio un identico rilievo per quel che riguarda l’Italia, nella quale centri universitari di eccellenza certamente esistono, ma il complesso del sistema dell’educazione, nonostante ammirevoli eccezioni, è assolutamente degradato, né pare che pur parlando di crescita, ma finora privilegiando l’austerità, l’istruzione sia all’attenzione della classe politica e delle istituzioni.
Ciò è particolarmente grave se si considera che il risultato delle politiche di rigore, che tolgono ogni spazio a efficaci investimenti sull’istruzione, creano all’interno del Paese un incremento inarrestabile delle disuguaglianze, come già aveva paventato il grande illuminista Condorcet, quando nelle sue “Memorie sull’istruzione pubblica” sottolineava che per risolvere le ineguaglianze create dalla libertà dei commerci (diremmo ora dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario), l’uguaglianza dovesse essere garantita nella parità dell’istruzione dei cittadini.

Non diversa eco gli faceva allora Adam Smith, ed oggi per citare i più recenti, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo libro “The price of inequality”, piuttosto che Amartya Sen, che pone l’istruzione alla base della giustizia sociale e della libera partecipazione alla vita politica dei cittadini. Tutto sembra far propendere per l’icastico inizio della prima Memoria di Condorcet: «L’istruction publique est un devoir de la société à l’égard des citoyens».
Questo fondamentale e irrinunciabile principio è stato ripreso dalle più recenti teorie della giustizia, da John Rawls a Ronald Dworkin, e paiono invece completamente sconosciute o dimenticate dai vari governi italiani.

I problemi indubbi dell’economia, le cui regole eteronome sono dettate dal l’esterno, non dovrebbero mai avere il sopravvento sui diritti umani fondamentali, tra i quali quelli, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, di seconda generazione, dove primeggia il diritto all’istruzione, che segna il passaggio della priorità dei doveri dei sudditi alla priorità dei diritti dei cittadini: ciò che costituisce un ovvio ammonimento per chi governa.
Nella direzione corretta si muoveva invece questo giornale il 19 febbraio scorso, lanciando il “Manifesto per la Costituente della Cultura”.
La situazione attuale di tagli alla Cultura costituisce per le generazioni future un handicap che sarà impossibile superare. E tutto ciò giustifica fin d’ora l’esodo degli studenti migliori verso le Università straniere e l’aumento del male peggiore del Paese, costituito dalla disoccupazione giovanile.

A ciò si accompagna l’effetto distruttivo delle basi storiche della nostra civiltà culturale, che coi tagli e gli scandali rendono il Paese non competitivo neppure sulla base delle sue radici storiche. Gli scandali culturali e la loro riduzione a fatti economici o di bilancio tormentano, in un degrado sonnolento, il nostro futuro. Mi bastano qui due esempi significativi per stimolare l’attenzione del lettore. Il primo riguarda la sorte della Biblioteca Girolamini di Napoli, quella per intenderci di Giambattista Vico, oggetto di furti e falsificazioni che hanno meritato un lungo e dettagliato articolo sull’International Herald Tribune del 9 agosto. Il secondo, ancor più preoccupante esempio, è lo scempio che sta perpetrandosi a Venezia, la più bella città del mondo, con le navi che devastano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. E le presuntuose ristrutturazioni commerciali operate da altrettanto presuntuosi archistar, di edifici storici, o progetti di nuove opere, autorevolmente con vigorosa preoccupazione denunciate da Salvatore Settis. Viene spontaneo da chiedersi: di che si occupa allora il ministro Ornaghi?

Per tornare al nostro problema del l’istruzione, è pur vero che tra le tante previsioni vi è quella di un aumento di novanta milioni di euro per il Fondo di intervento integrativo per la concessione di prestiti d’onore e borse di studio. Ma è altrettanto vero che i prestiti d’onore agli studenti, decisivi per superare le inuguaglianze di cui ho sopra parlato, sono da tempo adottati negli Stati Uniti d’America, cioè dalle decisioni del presidente Kennedy. Il governo Obama, a sua volta, certo più dei nostri sensibile ai problemi dell’istruzione, ha comunque, pur pressato dal deficit pubblico, incentivato la richiesta di prestiti d’onore. Eppure, secondo una recente indagine della Federal Reserve di New York, l’ammontare che gli americani devono ancora restituire per i prestiti d’onore contratti per pagare le rette universitarie è pari a circa 36 miliardi di dollari, mentre alla fine del 2011 il complesso dei prestiti rilasciati agli studenti ha raggiunto l’incredibile cifra di 867 miliardi di dollari, tanto da aver indotto molti commentatori a classificare il mercato dei prestiti agli studenti simile alla bolla del disastro immobiliare, che mise in ginocchio il sistema bancario nel 2008.

Anche questo, scimmiottando il sistema americano, non si rivela dunque un modo per aiutare i giovani a costruire una società migliore. Non è attraverso l’indebitamento dei cittadini per soddisfare i loro diritti e salvare il bilancio dello Stato, creando un minor debito pubblico e un enorme indebitamento privato che crea incertezza e insicurezza sull’avvenire, che si può stimolare la crescita e l’uscita dalla depressione economica. Il sistema dell’istruzione e dei beni culturali si merita una priorità troppo trascurata per un Paese che ha una storia di grande civiltà.

Il Sol 24 Ore 19.08.12