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"Siamo un popolo di santi, navigatori e furbi", di Francesco Merlo

Non sappiamo se compatirlo o fargli i complimenti, se Mario Monti è un illuso o e se il vero furbo è lui che, con un’astuzia semantica, aggredisce la furbizia che fa fessi gli italiani. Il presidente del Consiglio vuole che mai più in radio e in televisione vengano chiamati furbi gli evasori fiscali. CHE sono invece delinquenti, malfattori, mascalzoni e fondamentalmente ladri. E se è difficile dargli torto, è forse ancora più difficile dargli ragione. Si può infatti sorriderne, ripassando la lunga storia della lotta alla furbizia come natura italiana prima ancora che umana, e dunque paragonare Monti a Marinetti che propose di abolire gli spaghetti, a Mussolini che pretendeva il voi al posto del lei, a Cavour che si proponeva di ‘fare’ gli italiani, a San Francesco d’Assisi che li immaginava tutti innamorati di Madonna Povertà, a Dante che li spingeva ad essere fieri e ghibellini, a Mazzini che indicava come antidoto all’astuzia il pensiero e l’azione, a Garibaldi che li voleva tutti garibaldini. E Berlinguer ci voleva austeri, Pannella ci vuole libertari e libertini. … Solo Machiavelli pensava che non si può abolire la malizia italiana ma che bisogna domarla con il terrore; il bastone del comando contro il sotterfugio e l’intrigo; il timore al posto dell’amore per scansare tutte le trappole e le miserie della furbizia, tra le quali oggi c’è certamente l’evasione fiscale. E mi viene in mente quel film di Dino Risi che smonta ‘i mostri’ della furbizia non con la semantica ma con l’immagine terribile di Tognazzi che accompagna su una sedia a rotelle Gassman pugile suonato. Gassman fu suonato come gli evasori beccati a Cortina, come i divi dello spettacolo che nascondono il cachet, come i finti imprenditori che predicano il liberismo ma esibiscono la volgarità gaglioffa alla Briatore e intanto nascondono il gruzzolo nei caveau svizzeri o del Lussemburgo.
Sappiamo che Mario Monti, con la Guardia di Finanza, ha dichiarato una guerra militare all’evasione fiscale e dunque ora, come sempre accade ai generali combattenti, sogna di militarizzare l’informazione imponendole di rinnovare anche il linguaggio. Quel che manca all’Italia sono i soldi e quei pochi che ci sono se li godono illecitamente gli evasori. Sono furbi? Dobbiamo ancora chiamarli furbi?
Diciamo la verità: è impossibile non condividere il senso di un appello che svela l’inghippo di un linguaggio che non è innocente perché con la sua potenza è servito e serve a far crescere il pelo sullo stomaco a generazioni di italiani e a far credere che sia quella — appunto, la furbizia — la vera virtù da perseguire, in luogo del senso civico. Monti ha ragione: se non siano mai riusciti a diventare cittadini la colpa non è del cattolicesimo o della disomogeneità dell’Italia o della mancanza di senso dello Stato, o del familismo e delle mamme…. Noi siamo marchiati perché ci siamo innamorati di questa natura ribalda della furbizia italiana che è una potentissima ideologia con un solo comandamento: amare Dio e fottere il prossimo. E però la
guerra semantica non funziona perché il linguaggio non muta per decreto e lottare contro le parole è inutile oltre che ridicolo e mi vengono in mente le veline di ‘Striscia la notizia’ che vorrebbero dare all’espressione velina il significato di virtuosa, e la lotta che fu lanciata nel Pd contro il sostantivo compagno, e le ridicolaggini della lingua al femminile: ministra sì ma meglio ‘signora segretario’ dell’ancillare segretaria, e «dal nostro inviato/a» scrisse una volta l’Unità di Veltroni che sullo stesso argomento aveva un giornalista e una giornalista.
Giorgio Manganelli, per combattere la natura italiana, pensava di abolire i concorsi. Prezzolini, nelle sue ‘modeste proposte’, proponeva di abolire le tesi, Pasolini la scuola, il gruppo 63 la sintassi e Nanni Balestrini addirittura la ‘a’ e la ‘b’. Secondo Natalia Ginzburg, gli italiani hanno sempre cercato di sostituire le parole vive con cadaveri semantici che ne attenuino i significati. Tra gli orrori del politicamente corretto ci sono il cieco che diventa ‘non vedente’ e lo spazzino ‘operatore di pulizia’. In ‘Amici miei’ questo vezzo dell’eufemismo viene preso in giro così: «Non si dice impotente ma ‘non trombante’». Berlusconi, che è maestro di commedia all’italiana, ha inventato per noi ‘utilizzatore finale’, ‘cena elegante’, ‘burlesque’ e sono, per dirla con la Ginzburg cadaveri semantici che sostituiscono parole vive che invito il lettore a indovinare. E stavo per dimenticare la ‘escort’ al posto di …e che dire dei furbetti del quartierino: per gli italiani sono eroi o malfattori, oprure eroici malfattori?
E però vero che certe invenzioni linguistiche, come la goccia cinese, hanno bucato la roccia dura del significato e modificato i più radicati punti di vista. Ci sono parole politicamente corrette che sintetizzano rivoluzioni epocali. Il negro per esempio è diventato davvero nero. E non è stata solo semantica la trasmutazione alchemica del frocio in gay. Persino il velleitario Mussolini riuscì a ribattezzare per sempre i pompieri in vigili del fuoco.
Diamo dunque a Monti la solidarietà, ma anche la sferzante ironia degli italiani. Forse, per sfasciare la retorica del furbo, Monti dovrebbe restare nel codice italiano invece di dare alla sua guerra linguistica l’urto e l’impeto tedesco, lo Sturm und Drang. Insomma, anziché chiamare l’evasore gaglioffo e ladro (in tanti ancora sceglierebbero Barabba) potrebbe ispirarsi al genio italiano e fregarlo elevandolo ad un’altra nobiltà, quella di Ettore Petrolini. Con la furbizia dei suoi ragionieri e dei suoi tecnici potrebbe scovarlo e intrappolarlo, smontarne tutte le astuzie e alla fine dimostrare non che il furbo è un malfattore ma che gli evasori non sono furbi perché, come diceva appunto Petrolini, appartengono alla nobile razza dei cretini.

La Repubblica 20.08.12

"Va respinto l'attacco al Capo dello Stato", di Claudio Sardo

Vogliamo la verità sulle stragi di mafia degli anni Novanta e sulle ragioni che portarono al depistaggio delle indagini su via D’Amelio. Siamo solidali con i magistrati che indagano e con tutti gli uomini dello Stato che combattono in prima linea le organizzazioni criminali. Proprio perché crediamo nei principi di legalità e nel diritto, riteniamo che la divisione dei poteri sia un caposaldo irrinunciabile della democrazia (e questo va detto a presidio dell’autonomia della magistratura come del Parlamento o del governo).
Ma della campagna promossa da il Fatto quotidiano ci pare del tutto inaccettabile l’attacco al Capo dello Stato.

Un attacco per delegittimarlo, associando il conflitto di attribuzione da lui promosso con il proposito di colpire l’inchiesta giudiziaria sulla «trattativa» Stato-mafia. La circostanza che la stessa Procura di Palermo abbia a più riprese assicurato l’irrilevanza delle intercettazioni telefoniche, su cui ora insiste il conflitto presso la Corte costituzionale, non ha mai minimamente influito sulla rotta e gli obiettivi della campagna. Che, appunto, è dimostrare una contrapposizione istituzionale, politica e morale tra i magistrati e gli altri poteri dello Stato. E di conseguenza coinvolgere, con il presidente della Repubblica, tutte le istituzioni rappresentative nel medesimo giudizio di complicità e di infamia.
La solidarietà tra e con chi si batte contro le mafie è un sentimento costitutivo, irrinunciabile dei democratici italiani. Anche perché nel nostro Paese la criminalità è un cancro diffuso, è l’ostacolo primo alla ricostruzione, e troppe verità nel tempo sono state occultate. Ma, proprio perché questa solidarietà è una pietra angolare, non può essere sequestrata e utilizzata per una costruzione politica manichea, settaria. Il Bene assoluto rappresentato dai magistrati, e il Male assoluto rappresentato da tutti gli altri, anche da coloro che si interrogano sulla crisi della legge, sugli equilibri instabili tra i poteri democratici, sui limiti della politica e del diritto: questo schema consente ai demagoghi di sfuggire dalla complessità del reale, ma la storia ci insegna che è la premessa di ideologie autoritarie.
Di certo non è un caso ciò che sta accadendo. Non è un caso che, partendo dal giusto sostegno ai magistrati anti-mafia, il cuore della campagna sia diventato l’attacco al presidente della Repubblica, cioè la personalità politica che più di ogni altra gode della fiducia degli italiani, il garante della Costituzione, l’uomo che ha guidato senza traumi (nelle istituzioni e con l’Europa) la transizione oltre il governo Berlusconi e che ora cerca, nei limiti dei suoi poteri, di guidare il Paese oltre la cosiddetta seconda Repubblica. Non è un caso neppure che i promotori della campagna, dopo la solidarietà espressa da Monti al presidente, si scaglino ora contro il premier con una radicalità che fin qui mai avevano usato quando il Paese soffriva delle conseguenze sociali delle politiche concrete del governo in carica.
Del governo Monti siamo da sempre osservatori critici. In qualche passaggio siamo stati molto critici. Per quel decifit di equità sociale che rende ancora meno sopportabili gli errori politici dell’Unione europea. Mentre invece ai manichei che ora assaltano il Quirinale le questioni sociali interessano assai poco. Noi viceversa non abbiamo mai confuso i dissensi politici con la legittimità del governo Monti: non abbiamo mai neppure pensato che Monti fosse la continuità o peggio di Berlusconi. È piuttosto la chances che i democratici hanno di uscire dalle macerie della seconda Repubblica e arrivare al voto.
Il tema dello scontro è esattamente questo: uscire o no dalla seconda Repubblica. Quando la bufera di Tangentopoli travolse la vecchia classe politica, prevalsero i demagoghi: l’esito fu la vittoria di Berlusconi e, se non fosse nato l’Ulivo, l’inerzia di allora avrebbe presto travolto la Costituzione nata dalla Resistenza.
Il centrosinistra oggi è chiamato a una sfida molto difficile, anche per il discredito che circonda la politica. L’opportunismo spinge ad assecondare le semplificazioni, a non andare controcorrente. Ma chi si propone di governare la ricostruzione deve tenere la schiena dritta e comprendere i passaggi cruciali. L’attacco al Capo dello Stato non è una questione di stile. Alla fine non conta neppure se Napolitano deciderà di procedere sul conflitto di attribuzione o meno, se la Consulta gli darà ragione oppure no.
Il tema è se la Costituzione repubblicana e le istituzioni che hanno resistito alle torsioni della seconda Repubblica siano ancora capaci di sostenere un governo politico di ricostruzione. Il tema è la legittimità del Parlamento a cambiare il Porcellum. Il tema è l’autorevolezza dell’esecutivo che nascerà dal voto. Per questo la difesa del Capo dello Stato e del suo ruolo di garante è condizione vitale della strategia del centrosinistra. Per questo è il discrimine di ogni alleanza futura. Per questo i demagoghi e gli oligarchi sono alleati in difesa dello status quo: pensano che bisogna ancora e sempre demolire. Invece è arrivato il tempo di ricostruire: basta uomini soli al comando, basta corporazioni e lobby che vogliono limitare la politica democratica. Democrazia è equilibrio e divisione dei poteri, ed è anche coscienza del limite.

L’Unità 19.08.12

"Decrescita e felice socialismo utopistico", di Guido Ceronetti

Potrei definirlo così, il Pil, lodato quando e dove cresce (non importa il come), deplorato unicamente quando e dovunque non cresca: un fantasma che infesta le menti (dalle più semplici alle meglio fornite di strumenti per dominare). Se lamente se ne libera, e apre le finestre alla verità, il pensiero liberato arriverà a ragionamenti diversi, a conclusioni finora non pensabili. Come questa: che l’idea della Decrescita del Pil èmigliore dell’idea fissa, cara a tutti i poteri che ci opprimono – dai governi alle mafie – che la Crescita (del Pil, funesto infestatore) non abbia nessuna alternativa possibile.

Ne parlo con Maurizio Pallante, inventore del movimento e della formula alternativa della Decrescita Felice, senza riportare nulla dal suo libro con questo titolo (Edizioni per la decrescita felice, 2005) perché con quest’uomo singolare, romano di nascita, abitante nella zona più verde della provincia astigiana, sessantacinquenne, ho l’occasione di un rapporto di amicizia e di un colloquio diretto.

Voglio ancora osservare, prima di interpellarlo, come in questa formidabile crisi del pensiero, cominciata molto tempo prima di quella della Lehman Brothers, siano presenti molti segni indicati con premonizione in tutte le trattazioni sul significato della Tecnica, di Martin Heidegger: basterebbe a «qualcosa di più alto» allacciare tutti i discorsi obbligatori e facili (talmente facili che li abbiamo imparati amemoria dai giornali) che si fanno dappertutto sull’economia, vista come un soffocante assoluto senza il minimo scrupolo di obbiettività.Ma dove tutto si relativizza, dove tutto è visto come puramente relativo e dissacrabile, ha senso assolutizzare il Pil, le cifre aziendali, le pensioni, le tasse, i conti della spesa, la Crescita di merci che non portano per niente a diminuzioni di infelicità o a più ricchezza nei rapporti umani?

Emendate il linguaggio e avrete trovato una chiave. Liberate la mente da una formica di falso e vi toglierete dallo stomaco il peso di un elefante.

Quel che va dicendo da qualche anno Maurizio Pallante in Italia èmolto semplice, e nello stesso tempo implica una rivoluzione del pensiero alla quale aderisce sempre più gente, incredula nelle prediche del Potere legale, sempre più distaccata dalla politica, e una quantità di giovani intelligenti che l’enorme pallone di menzogne sospeso sul mondo allontana da tutto, disperatamente. Sulla copertina dell’Espresso del 2 agosto leggevo «In vacanza con lo Spread»: ed è con questo tipo di attrazioni triviali che si vende svago ai lettori?

In vacanza andateci con Isaac Singer, Georges Simenon, Wells, Dostoevskij, per cui non è necessario ungersi la pelle, e pestate lo Spread sul bagnasciuga, con un disinfettante pronto.

Più formale, Pallante mi spiega così la Decrescita, come la va raccontando nelle sale e nei libri: «Vedi, per capire che cos’è la decrescita e come possa aiutarci a contrastareuna crisi che resiste a tutte lemisuredipolitica economica, dobbiamo bene distinguere tra oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio (definibili come beni) e oggetti e servizi che si scambiano con e per il profitto in denaro (definibili comemerci). Il Pil e la Crescita non possono considerare altro che lemerci e la loro produzione incessante. Merci però non sono beni.La Decrescita, che nessun politico ammetterebbe come un’opportunità felice, non è una diminuzione indiscriminata del Pil,ma selettiva, e totalmente da reimpostare. Introduce elementi di valutazione qualitativa del fare umano e consentirebbe di creare occupazione utile, non distruttiva per l’ambiente. Aprirebbe una fase più evoluta della storia umana…».

APallante non è difficile persuadere ame – ecologista dal tempo delle bombe diBikini – le sue buone ragioni.Ma la tendenza, in Italia e dovunque, è implacabilmente l’altra, che risponde al pensiero unico dominante.Ame, ormai vecchio, vien voglia di gettare la spugna.È la boxe di un nano disperato contro un gigantesco bruto!

«Guarda che il cambiamento di rotta, vogliano o no saperne i poteri dominanti, sta diventando sempre più inevitabile. Abbiamo esempi che nessun analista può fingere di ignorare. Crollata l’Unione Sovietica, che comprava a Cuba tutta la produzione di zucchero, la salvezza di Cuba fu l’autoproduzione di beni, per mangiare non per acquistare il superfluo. Accadde lo stesso in Argentina. In Grecia, oggi, si salvano dalla crisi tutti quelli che invece di urlare sulle piazze riscoprono il lavoro dellemani e producono per se stessi i beni corrispondenti ai bisogni. In Italia è già così in parecchi settori di economia silenziosa: la famiglia che autoproduce i beni non conosce disoccupazione. È l’offerta di merci sumerci tutte prodotte qua e là nelmondo, a rendere folle l’economia dei potenti. Il profitto perdente sta creando panico e suicidi.Ma il tuo nano disperato ha delle possibilità di sottrarsi ai pugni del bruto, e senza gettare la spugna! Perciò la popolarità dell’idea di decrescita è alta».

Da questo colloquio amichevole emerge «chi per lungo silenzio parea fioco»: le grandi ombre premarxiane dei Thoreau, dei Fourier, dei Saint-Simon, dei Gandhi, della società fabiana, dei Malthus, dei Tolstoij, che tuttora indicano altri cammini, altre vie… E il primo kibbuzismo sionista che cos’è stato? Non ha più nulla da insegnare almondo? Era un’idea grande, una rivoluzione portatrice di pace…

Il socialismo disprezzato come utopistico da Marx, apostolo della mercificazione e della violenza, risorge anche nelle parole chiarificatrici e nei volti nuovi della Decrescita Felice.

da www.lastampa.it

Samia, l’atleta somala di Pechino 2008 morta su un barcone per raggiungere l’Italia

Il racconto di Abdi Bile, oro nei 1500 metri ai mondiali di Roma del 1987: «È morta per raggiungere l’Occidente»

«Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar?». La platea riunita per ascoltare i membri del comitato olimpico nazionale resta in silenzio. Un silenzio spezzato solo dalle parole e dalla commozione di Abdi Bile, che dopo il trionfo di Mo Farah (atleta britannico di origine somale) alle Olimpiadi di Londra 2012, chiede di Samia.
L’EROE – Anche Abdi è un atleta, un eroe per i somali, visto che a Roma, nel 1987 ha vinto un oro nei 1500 metri ed è stato il primo atleta somalo a farsi notare nell’atletica leggera. Abdi ha parlato di una sua connazionale, Samia Yusuf Omar, la più grande di sei figli di una famiglia di Mogadiscio cresciuta, come i suoi fratelli, in povertà. Nel 2008, questa ragazza piccola e gracile, partecipò alle Olimpiadi proprio in rappresentanza della Somalia. Nata nel ’91, figlia di una fruttivendola e di un uomo ucciso da un proiettile d’artiglieria, questa ragazza era riuscita con molti sacrifici a partecipare alla gara dei 200 metri femminili di Pechino 2008. Era arrivata ultima, 32 secondi di sforzo a cui nessuno fece caso, ma che la riempirono di gioia e soddisfazione. Tornò a Mogadiscio felice: «È stata un’esperienza bellissima, ho portato la bandiera somala, ho sfilato con i migliori atleti del mondo». Quattro anni dopo, il destino le ha riservato una storia completamente diversa.
LA STORIA – «Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? – ha chiesto Abdi nei pochi giorni che mancano alle elezioni presidenziali somale -. La ragazza è morta… morta per raggiungere l’Occidente. Aveva preso una carretta del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta. Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza». Su Youtube, nel video della sua gara a Pechino, i messaggi di cordoglio degli utenti come unica conferma di una storia crudele e difficile da verificare, ma che la scrittrice italiana di origine somala Igiaba Scego ha scelto di raccontare su Pubblico, mettendola in parellelo con i trionfi di un altro somalo dal diverso destino. Mo Farah, arrivato da rifugiato in Inghilterra, é diventato oggi un eroe nazionale dopo aver dominato a Londra le sue due discipline, i 5 e 10 mila metri. «Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio – ha aggiunto Abdi Bile – ma non dimentichiamo Samia».

da corrieredella sera.it

"Sono musulmana e non porto il velo. Ma non mischiate religione e violenza", di Rania Ibrahim

Velo o non velo? Sarà questo il problema della Umma musulmana? Credo proprio di no. Come al solito la strumentalizzazione avviene sempre sulla pelle e sulla dignità delle donne, da sempre in tutti i secoli e in tutte le religioni e civiltà.
“Rania, a te manca solo il velo e saresti una musulmana completa”.
Questo è quello che mi dicono molte amiche, per di più integrate e occidentalissime nuove italiane, nate e cresciute sempre ininterrottamente in Italia. Un po’ meno le coetanee del mio Paese d’origine. Il velo è divenuto negli ultimi decenni uno “strumento” di appartenenza palesemente sfoggiato da una comunità. Almeno, io lo interpreto così. Se di quella comunità vuoi fare parte, se vuoi essere accettata, devi sottostare a queste “piccolezze” . Per quanto mi riguarda il velo sta all’Islam quanto il crocifisso sta a una cristiana.

Non è certo indossando un crocifisso al collo che si diventa buoni cristiani, fedeli impeccabili. Io prego, digiuno durante il Ramadan, faccio le mie zakat, beneficenza, mi occupo dei bisognosi e sono sempre disponibile quando gli amici lo chiedono. Purtroppo per molti questo non basta, per completare l’opera, dovrei indossare qualche centimetro di stoffa in testa. Coprirmi di più.

Eppure sono cresciuta in una Italia dove le donne appena arrivate non indossavano chador, hijab o niqab, erano semplicemente donne, arabe, musulmane e basta, non dovevano dimostrarlo, lo erano. E molte di queste donne erano le mamme di quelle stesse ragazze che sono nate e cresciute nelle scuole italiane e che oggi mi invitano ad indossarlo. Il velo. Ogni donna è libera di indossarlo, nessuna imposizione, nel Corano non c’è scritto da nessuna parte “niqab” o “chador”.

Ammetto che nella mia vita non mi è mai capitato di incontrare una donna costretta al velo. Allo stesso tempo non posso negare che vi siano uomini che impongono questa scelta alle proprie mogli e figlie: purtroppo i casi riportati dalle cronache dimostrano come queste realtà siano spesso borderline e degradanti per le donne al di là della questione del solo velo/non velo. E’ doveroso che tutta la comunità islamica condanni sempre e in ogni caso queste manifestazioni di violenza. Così come è doveroso sottolineare che la religione non c’entra. Si tratta di violenza, nuda e cruda, intollerabile. La violenza non ha connotati, non corrisponde a una specifica latitudine geografica, non appartiene ad una comunità particolare, MAI. La violenza sulle donne purtroppo è universale, trasversale, infima, e le conseguenze per le donne sono ferite che si porteranno tutta la vita sulla pelle e nell’anima. Non so se un giorno mi metterò il velo, non nego di averci pensato, anzi: di pensarci spesso. Ma se lo farò non sarà certo per sentirmi completa: una musulmana completa. Non me la sento ancora. O forse non lo indosserò mai, non credo cambierà il mio amore, non credo renderà più forte la mia fede nell’Islam.

Da piccola, nei miei primi viaggi a Il Cairo, il velo non era mai stato tanto diffuso né per strada né tantomeno tra le donne della mia famiglia: mia nonna non è mai stata velata, solo un leggero velo trasparente, le mie zie, cugine, amiche, parenti, vicine di casa non lo indossavano. E neppure si vedeva nei film o in televisione. Eppure la mia amata nonna era una donna meravigliosa che pregava e che era stata alla Mecca più di 6 volte nella sua vita. Durante gli ultimi viaggi, invece, mi sono accorta che la situazione stava cambiando, troppi veli e solo veli.

Sul fatto di cronaca che ha fatto discutere negli ultimi giorni, vorrei stendere – come si dice in italiano – “un velo pietoso” e confido nella certezza della pena per quest’uomo. E per chiunque, come lui, dovesse cercare in futuro di utilizzare la religione quale capro espiatorio per giustificare e sopperire alla propria impotenza e frustrazione di persona fallita.

Davvero è tempo di togliersi il velo, ma quello dell’ipocrisia: è tempo di sentirsi bene con se stessi senza bisogno di accessori o status simbol.

Il Corriere della Sera 19.08.12

"La vocazione all’auto-commissariamento", di Francesco Cundari

La tesi secondo cui per modernizzare e riformare l’italia ci sarebbe sempre bisogno di un qualche «vincolo esterno» ha una storia nobile e antica. Simili convinzioni sono state alla base dell’europeismo di gran parte delle nostre classi dirigenti. Si può non condividere il tratto elitario di quell’approccio, la scarsa fiducia nelle risorse politiche, culturali e civili dell’Italia e degli italiani, la diffidenza verso la stessa democrazia rappresentativa e le sue capacità di riformarsi. Ma non si può sottovalutarne l’importanza.
L’impressione, però, è che negli ultimi tempi questa linea di pensiero sia evoluta in una sorta di vocazione al commissariamento, da parte di intellettuali, politici e commentatori di cultura liberale. L’impressione, insomma, è che si sia andati un po’ in là. Paradossalmente, dopo che l’Italia ha disciplinatamente accettato di mettere il vincolo al pareggio di bilancio addirittura in Costituzione, si direbbe che la fame di sempre nuovi vincoli e imposizioni (interne o esterne, auto o etero-imposte) sia addirittura cresciuta.
Non annoiamo il lettore con il lungo elenco di proposte e appelli che in questi mesi sono venuti dai più diversi gruppi, associazioni e giornali. Dall’idea di far approvare le nostre finanziarie direttamente al parlamento tedesco alla richiesta (formulata due giorni fa da Nicola Saldutti sul Corriere della Sera) che il governo si impegni a non aumentare più le tasse fino alla fine del suo mandato. Il che, dopo aver messo il vincolo al pareggio di bilancio, equivale sostanzialmente a dire che esiste un’unica politica economica possibile, cioè un’unica politica possibile nel pieno della crisi.
La proposta più radicale è però quella venuta ieri, sempre sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi. «I partiti che si contendono le elezioni della prossima primavera – scrive Giavazzi – dovrebbero firmare tutti insieme un memorandum d’intesa (prima del voto, non ora) che vincoli le scelte economiche di chiunque vinca». Una proposta che ha senza dubbio il pregio della chiarezza, ma che suscita almeno una domanda: a cosa servirebbero, a quel punto, le elezioni? Una volta che i partiti si siano preventivamente accordati (anzi, di più: «vincolati») a precise scelte di politica economica, per quale ragione e con quali argomenti si dovrebbero disturbare i cittadini, pregandoli di recarsi ai seggi e votare per l’uno o l’altro dei suddetti partiti? Tanto più che a quel punto, come osserva giustamente Giavazzi, «la scelta razionale dopo le elezioni sarebbe di chiedere a Monti di continuare: se il programma è predeterminato per libera scelta, perché non affidarne l’esecuzione alla persona più adatta che abbiamo a disposizione?».
Sul nesso tra libertà e necessità la filosofia occidentale si è interrogata per millenni, ma il concetto di programma «predeterminato per libera scelta» appare un’innovazione decisamente radicale, almeno in un sistema democratico.

L’Unità 19.08.12

"All'Italia serve l'import di cervelli", di Giovanna Zincone

Non sono tempi felici. La crisi colpisce l’occupazione e si restringono le prospettive di nuove assunzioni, non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Gli stranieri, però, se la cavano relativamente meglio. Questo almeno è quanto emerge dalle previsioni per il 2012 dell’indagine Unioncamere–Ministero del Lavoro. La domanda complessiva di lavoratori immigrati (stagionali inclusi) dovrebbe diminuire quest’anno del 18% rispetto al 2011, quella degli italiani del 31,6%. Quindi l’incidenza degli stranieri sulle assunzioni complessive dovrebbe salire ulteriormente (dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno).
Si consolida, insomma, il carattere strutturale della forza lavoro immigrata nella nostra economia: si tratta di una componente che anche di fronte alla crisi perde colpi, ma resiste relativamente meglio. Le sue caratteristiche confermano, però, alcune pesanti debolezze del sistema Italia, che è bene non continuare a trascurare. La nostra economia attrae un’immigrazione meno istruita rispetto a quella che raggiunge altri paesi europei. Nel 2010 i laureati rappresentavano solo il 10% degli immigrati in età lavorativa residenti in Italia.

Decisamente meno non solo delle incidenze che troviamo in Francia, Inghilterra e Svezia, ma anche in Portogallo e Spagna. In compenso questi ultimi paesi, i soliti nostri compagni degli ultimi banchi, «battono» l’Italia per la consistenza di lavoratori con livelli di istruzione minimi. Ma la cosa non consola. Perché anche se i nostri immigrati sono nell’insieme abbastanza istruiti, sebbene non quanto quelli che si dirigono verso economie più solide della nostra, lo sono meno degli italiani. Quindi non arricchiscono il nostro capitale di competenze. Come se non bastasse, la quota di stranieri con un titolo di studio più elevato è diminuita tra il 2001 e oggi. Si aggiunga che l’investimento formativo degli stranieri, quando c’è, spesso non è messo a frutto. Specie le lavoratrici straniere – mediamente più qualificate delle loro controparti maschili – fanno lavori assai poco qualificati rispetto alle loro capacità.
Il fatto è che in Italia la domanda di addetti con alte competenze è scarsa in generale. Non solo: come ci segnala il Rapporto Isfol 2012, è pure in calo. Nel nostro paese la quota di professioni ad elevata specializzazione rappresenta solo il 18% del totale, contro il 23% della media Ue. E, mentre in Europa la percentuale di occupazione in quel tipo di professioni aumenta costantemente, in Italia invece negli ultimi 5 anni si è contratta dell’1,8%, contro un aumento che ha raggiunto il 4,3% in Germania, il 4,4% nel Regno Unito e il 2,8% in Francia.

Insomma, non solo aumenta la disoccupazione e diminuiscono le opportunità di nuove assunzioni, ma la qualità della forza lavoro presente sul nostro territorio nel suo insieme peggiora. Certo, la crisi degli ultimi anni contribuisce ad accentuare il problema, ma non lo ha creato. È lo stesso sistema produttivo italiano, fatto di piccole imprese in molte delle quali si investe poco in innovazione e sviluppo, dove si fa scarso uso di lavoro specializzato, che spiega sia l’impoverimento qualitativo della nostra forza lavoro, sia la sua scarsa e decrescente produttività, sia la complessiva debolezza e inadeguata competitività della nostra economia. È apprezzabile il tentativo di attrarre lavoratori super specializzati, ma – rebus sic stantibus, cioè con questa economia reale – non sappiamo quanto successo possa avere.

A favorire l’ingresso di immigrati istruiti mira il decreto, entrato in vigore da pochissimi giorni, che attua la Direttiva Europea sulla cosiddetta «carta blu», un permesso speciale attribuito proprio ai lavoratori stranieri specializzati (almeno una laurea triennale): per loro non si prevedono limiti di quote, purché dispongano di un’offerta di lavoro. Ma quanti ne faranno uso per venire a lavorare proprio in Italia? Temo pochi.

Si può presumere che, invece, numeri più consistenti siano il risultato di un altro provvedimento; anch’esso recente. A metà luglio 2012, partendo dall’attuazione di una Direttiva Europea contro lo sfruttamento del lavoro immigrato irregolare, è stato votato un decreto legislativo che in pratica consentirà un’altra sanatoria. Assai probabilmente questa misura farà emergere un’ulteriore quota di lavoro immigrato destinato per lo più a mansioni poco qualificate. A completare questo quadro poco roseo per le prospettive del sistema Italia, si inserisce non solo un generico aumento (+4%) dell’emigrazione italiana, ma la costante perdita di giovani qualificati e di ricercatori. Secondo il centro studi «La fuga dei talenti» il 70% degli oltre 60.000 giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. Come porvi rimedio? Qualche anno or sono, una ricerca finanziata della Commissione Europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard. La stessa logica si dovrebbe applicare alle imprese. Occorre premiare fusioni o reti tra imprese che consentano di raggiungere economie di scala tali da incentivare investimenti in ricerca e sviluppo; si devono, al contrario, evitare trattamenti che disincentivino il superamento di un certo numero di addetti. La riforma Fornero si è mossa in questa direzione, ma non senza difficoltà, ostacoli e forzosi arretramenti.

Il governo Monti sta facendo molto per evitare il disastro nei nostri conti pubblici. Non si può negare che stia pure tentando di riformare il sistema economico nel suo insieme, impresa non facile dato il contesto politico. Ma è necessario che continui con maggiore decisione su questa strada. Non si evita il disastro vivacchiando nel vecchio, come troppi pseudo innovatori politici vorrebbero. Abbiamo bisogno di riforme tali da rassicurare i mercati e i partner europei perché possano diminuire interessi sul debito, onerosi quanto ingiustificati. Ma non bisogna mai dimenticare che al centro della nostra attenzione e dell’azione dei governi italiani deve restare l’economia reale. Per non restare intrappolati in un presente ansiogeno, abbiamo bisogno di regalarci un futuro economico credibile.

La Stampa 19.08.12