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"Sono musulmana e non porto il velo. Ma non mischiate religione e violenza", di Rania Ibrahim

Velo o non velo? Sarà questo il problema della Umma musulmana? Credo proprio di no. Come al solito la strumentalizzazione avviene sempre sulla pelle e sulla dignità delle donne, da sempre in tutti i secoli e in tutte le religioni e civiltà.
“Rania, a te manca solo il velo e saresti una musulmana completa”.
Questo è quello che mi dicono molte amiche, per di più integrate e occidentalissime nuove italiane, nate e cresciute sempre ininterrottamente in Italia. Un po’ meno le coetanee del mio Paese d’origine. Il velo è divenuto negli ultimi decenni uno “strumento” di appartenenza palesemente sfoggiato da una comunità. Almeno, io lo interpreto così. Se di quella comunità vuoi fare parte, se vuoi essere accettata, devi sottostare a queste “piccolezze” . Per quanto mi riguarda il velo sta all’Islam quanto il crocifisso sta a una cristiana.

Non è certo indossando un crocifisso al collo che si diventa buoni cristiani, fedeli impeccabili. Io prego, digiuno durante il Ramadan, faccio le mie zakat, beneficenza, mi occupo dei bisognosi e sono sempre disponibile quando gli amici lo chiedono. Purtroppo per molti questo non basta, per completare l’opera, dovrei indossare qualche centimetro di stoffa in testa. Coprirmi di più.

Eppure sono cresciuta in una Italia dove le donne appena arrivate non indossavano chador, hijab o niqab, erano semplicemente donne, arabe, musulmane e basta, non dovevano dimostrarlo, lo erano. E molte di queste donne erano le mamme di quelle stesse ragazze che sono nate e cresciute nelle scuole italiane e che oggi mi invitano ad indossarlo. Il velo. Ogni donna è libera di indossarlo, nessuna imposizione, nel Corano non c’è scritto da nessuna parte “niqab” o “chador”.

Ammetto che nella mia vita non mi è mai capitato di incontrare una donna costretta al velo. Allo stesso tempo non posso negare che vi siano uomini che impongono questa scelta alle proprie mogli e figlie: purtroppo i casi riportati dalle cronache dimostrano come queste realtà siano spesso borderline e degradanti per le donne al di là della questione del solo velo/non velo. E’ doveroso che tutta la comunità islamica condanni sempre e in ogni caso queste manifestazioni di violenza. Così come è doveroso sottolineare che la religione non c’entra. Si tratta di violenza, nuda e cruda, intollerabile. La violenza non ha connotati, non corrisponde a una specifica latitudine geografica, non appartiene ad una comunità particolare, MAI. La violenza sulle donne purtroppo è universale, trasversale, infima, e le conseguenze per le donne sono ferite che si porteranno tutta la vita sulla pelle e nell’anima. Non so se un giorno mi metterò il velo, non nego di averci pensato, anzi: di pensarci spesso. Ma se lo farò non sarà certo per sentirmi completa: una musulmana completa. Non me la sento ancora. O forse non lo indosserò mai, non credo cambierà il mio amore, non credo renderà più forte la mia fede nell’Islam.

Da piccola, nei miei primi viaggi a Il Cairo, il velo non era mai stato tanto diffuso né per strada né tantomeno tra le donne della mia famiglia: mia nonna non è mai stata velata, solo un leggero velo trasparente, le mie zie, cugine, amiche, parenti, vicine di casa non lo indossavano. E neppure si vedeva nei film o in televisione. Eppure la mia amata nonna era una donna meravigliosa che pregava e che era stata alla Mecca più di 6 volte nella sua vita. Durante gli ultimi viaggi, invece, mi sono accorta che la situazione stava cambiando, troppi veli e solo veli.

Sul fatto di cronaca che ha fatto discutere negli ultimi giorni, vorrei stendere – come si dice in italiano – “un velo pietoso” e confido nella certezza della pena per quest’uomo. E per chiunque, come lui, dovesse cercare in futuro di utilizzare la religione quale capro espiatorio per giustificare e sopperire alla propria impotenza e frustrazione di persona fallita.

Davvero è tempo di togliersi il velo, ma quello dell’ipocrisia: è tempo di sentirsi bene con se stessi senza bisogno di accessori o status simbol.

Il Corriere della Sera 19.08.12