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"Il garante dell'Europa", di Gian Enrico Rusconi

Il Mario Monti «tedesco» è ridiventato «italiano». Era da qualche settimana che i commenti dei giornali tedeschi avevano abbandonato i toni benevoli verso il nostro premier. In sintonia con le crescenti insofferenze di molti uomini politici, avevano aggiustato il tiro contro l’attivismo «europeista» del presidente del Consiglio. Affiancandolo naturalmente all’altro Mario «italiano», il Draghi presidente della Bce.
Ma è stata la maldestra affermazione di Monti nella intervista a «Der Spiegel» («ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento») a offrire ai politici tedeschi l’occasione di presentarsi come una compatta classe politica che difende la sovranità del Parlamento in una democrazia funzionante. Una lezione di democrazia parlamentare impartita al premier italiano e agli italiani in generale. Gettare sulle proposte economico-finanziarie di Monti l’ombra di un comportamento che delegittima la democrazia parlamentare è l’arma più insidiosa contro di lui. Rilancia l’antica diffidenza tedesca verso l’Italia come perenne anomalia politica. Non a caso qualcuno ha aggiunto che si sente ancora l’eredità del berlusconismo.

Per contrasto la posizione tedesca sull’intera questione del sostegno dell’euro viene presentata come l’unica democraticamente ineccepibile, anche e soprattutto contro la Bce «che rischia i soldi dei contribuenti (tedeschi) senza essere democraticamente legittimata». Per un paio di giorni la classe politica tedesca ha nascosto – dietro le questioni di principio – le differenze reali che esistono e crescono al suo interno. Saggiamente Angela Merkel, ritirata nella sua vacanza altoatesina, non si è lasciata coinvolgere dalle polemiche dando l’impressione di aver capito il vero senso delle parole di Monti.

Come si è creato tutto l’equivoco? E come si supera? L’affermazione del premier italiano, che ha scandalizzato i tedeschi, è che «se i governi seguissero esclusivamente le decisioni dei Parlamenti la rottura dell’Europa sarebbe più probabile della sua integrazione». Presa alla lettera questa affermazione sembra un invito a limitare la sovranità del Parlamento. Ma non era questa l’intenzione di Monti. La sua era in realtà una impropria generalizzazione fatta dalla sua personale esperienza di governo. «Se avessi dovuto tenere in considerazione le posizioni del Parlamento italiano, dal quale avevo avuto indicazioni di far passare gli eurobond, non avrei dovuto dare il consenso italiano nell’ultimo consiglio europeo di fine giugno». Il premier ha aggiunto, sempre nell’intervista a «Der Spiegel», che se la moneta unica diventasse un fattore disgregante, «allora i fondamenti del progetto di Europa sono distrutti».

Sono parole gravi che mettono a fuoco la non risolta contrapposizione tra «competenza tecnica» e «responsabilità politica» che è alla radice delle difficoltà attuali del governo italiano. Soltanto in questo contesto si spiega la tesi incriminata che «ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento». «Guidare» non è concetto felice e si presta a molti fraintendimenti. Neppure per il Cancelliere tedesco che gode di notevoli prerogative e competenze decisionali, è appropriato il concetto di «guida» del Bundestag.

Non credo che dietro all’improprietà del linguaggio di Monti sia latente l’idea di una qualche infrazione istituzionale/costituzionale per il rafforzamento dell’esecutivo. Monti fa semplicemente riferimento alle competenze tecniche per le quali è stato chiamato al governo, in supplenza di una classe politica, apparentemente priva di tali requisiti. In questo senso per «guidarla». Ma si tratta di competenze che avranno il loro peso irreversibile, anche quando si tornerà alla «normalità politica» con le prossime elezioni. Temo invece che i partiti, che stanno litigando sul nuovo sistema elettorale, non abbiano ancora percepito che la grande sfida del prossimo Parlamento sarà il nuovo rapporto tra competenze tecniche, rappresentanza popolare e responsabilità decisionale.

Per il momento dobbiamo quindi accontentarci della «stranezza» di questo governo o della sua «anomalia». «Un leader non eletto, chiamato a realizzare impopolari cambiamenti nei cui confronti i politici del Paese erano riluttanti. Monti fa affidamento sulla tolleranza dei principali partiti politici italiani e non ha un suo potere di base, ad eccezione della sua credibilità personale». Sono parole del «Wall Street Journal», un altro protagonista delle polemiche di questi giorni. Naturalmente per fare questa constatazione non c’era bisogno dell’autorevole giornale americano che, lungi dal porsi il problema dell’uscita dall’anomalia attuale, si accontenta di ripetere lo stereotipo che «la natura disciplinata di Monti è più tedesca che italiana».

E’ tempo di abbandonare questo stereotipo. I tedeschi hanno un’idea di «disciplina politica» diversa da quella di Monti – in corrispondenza alla diversità dei due sistemi politici. Il sistema tedesco è funzionante, quello italiano è in emergenza. I tedeschi sono giustamente soddisfatti del loro circuito istituzionale virtuoso tra Parlamento, governo, Corte Costituzionale e Bundesbank. Esso ha accompagnato lo sviluppo della Germania nel passaggio cruciale della riunificazione e attraverso la serie di decisioni che hanno costruito l’Unione europea. E lo ha fatto insieme agli altri partner europei. Oggi si trova davanti ad una prova imprevista, apparentemente contraria alla lettera di talune normative comunitarie. I tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano loro di fare qualcosa che contraddice profondamente la loro «disciplina politica», mentre dovrebbero essere gli altri (in particolare i paesi del Sud) ad imitarla. In realtà le cose non stanno esattamente così. I politici tedeschi più attenti e riflessivi (non solo dell’opposizione socialdemocratica) lo sanno benissimo. E si stanno convincendo che è in gioco lo stesso destino della Germania.

Monti chiede ai tedeschi «maggiore elasticità». E’ quasi un eufemismo: per i tedeschi si tratta di qualcosa di molto più impegnativo. Nessuno chiede loro di rinunciare al loro invidiabile sistema istituzionale e alle sue regole. Si tratta di riadattarlo alla nuova imprevista, grave situazione. I veri amici della Germania sono convinti che se apre il suo sistema alle esigenze degli altri partner europei, diventerà la garanzia più solida per l’Europa.

La Stampa 10.08.12