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"Scoperto il vero marziano: è il robot, si chiama Curiosity", di Vittorio Emiliani

Il vero marziano, lì sul Pianeta rosso, in questo momento è lui, Curiosity. Il robot costruito dall’uomo che, con i suoi 899 chilogrammi semoventi, non è solo il più grosso, ma anche il più autonomo che si muova nello spazio lontano dalla Terra. Ha ragione Barack Obama: quel rover che rulla su Marte costituisce un grosso exploit tecnologico. Curiosity costituisce un vanto e un’opportunità per gli Stati Uniti non solo per i suoi obiettivi scientifici, che pure ci sono e sono importanti: studiare l’abitabilità di Marte. Ovvero verificare se sul più pianeta roccioso più esterno del sistema solare esista o sia esistita la vita (in forma microbica) o, almeno, se esiste o siano esistite le condizioni che noi riteniamo essenziali per la presenza della vita. Almeno della vita così come la conosciamo. E, infine, capire se ci sono le condizioni minime necessarie per una futura presenza umana su Marte.
Ma Curiosity costituisce un vanto e un’opportunità per gli Stati Uniti anche (e, allo stato, soprattutto) per due ragioni, legate entrambe allo sviluppo della robotica. Curiosity un robot avanzato. Non solo perché, come spiega la Nasa in un’abile campagna di comunicazione, ha una testa pensante, oltre che degli occhi, un collo, delle ginocchia e persino, come usa in molti fumetti di fantascienza, di un braccio che si trasforma in trapano. Quella testa pensante è costituita da un computer e da un software capaci di conferire al robot notevole autonomia di movimento. Il software di Curiosity è l’evoluzione di quello in dotazione ai suoi fratelli minori, Pathfinder, Spirit, Opportunity che hanno già esplorato la superficie marziana.
La vera novità di Curiosity risiede nel fatto che la sua capacità di muoversi in un ambiente sconosciuto senza intervento umano si estende per una ventina di chilometri. Insomma, è come se i robot spaziali fossero cresciuti nel corpo e nella mente e dall’età neonatale – con la possibilità di gattonare in casa o in giardino – fossero passato all’età pre-adolescenziale, con la possibilità di girare da soli e magari anche di notte in tutta la città. Questa evoluzione spalanca, come dicevamo, almeno due porte. Una nello spazio. Perché consente alla Nasa – ma, anche all’intera umanità – di «fare di più con meno». Ovvero di esplorare lo spazio fuori dal nostro giardino terrestre con grande efficienza e poco costo. Per intenderci: la missione Mars Science Laboratory ha portato Curiosity su Marte al costo di 2,5 miliardi di dollari. Si calcola che una missione con uomini a bordo costerebbe oltre 100 miliardi di dollari.
Il suo successo costituisce, forse, motivo di rallentamento dello sbarco dell’uomo su Marte e dell’esplorazione umana degli spazi profondi. Ma costituisce anche un formidabile sprone alle missioni robotiche, che con pochi soldi ottengono straordinari risultati. E non solo d’immagine e/o di conoscenza scientifica. Eccoci, dunque, alla seconda porta spalancata da Curiosity. Una porta tutta terrestre. Portando quel grosso robot su Marte, infatti, gli Stati Uniti hanno dimostrato – a se stessi e agli altri – di essere all’avanguardia nel campo della robotica. E, in particolare, nella produzione di robot autonomi di servizio da impiegare in ambienti estremi. Ora è opinione che i robot costituiranno, insieme alle nanotecnologie, la grande sfide dell’innovazione del futuro. Chi possiederà queste tecnologie dominerà i mercati dell’economia reale del futuro.
In passato gli Stati Uniti hanno già vinto due volte queste gare economiche e geopolitiche segnate dalla tecnologia. La prima volta proprio con le tecnologie spaziali, quando dopo lo schiaffo dello Sputnik nel 1957, reagirono alla sfida a valenza più militare che economica dell’Unione Sovietica e portarono per primi l’uomo sulla Luna. Dimostrando al mondo e a se stessi di essere i primi sul fronte tecnologico. L’economia americana beneficia da allora di questo investimento strategico nell’hi tech. La seconda volta è stato negli anni ’80 e ’90, quando gli Usa si sentivano minacciati dall’aggressività economica e dalla capacità d’innovazione del Giappone e decisero di portare la sfida nel campo dell’elettronica più avanzata e della biomedicina (ricordate Richard Nixon che nel 1970, all’indomani dello sbarco sulla Luna, dichiarò la “guerra al cancro”)? La sfida con l’alleato giapponese fu vinta e oggi nessuno se ne ricorda più.
Oggi gli Stati Uniti si sentono minacciati dall’aggressività economica e anche dalla capacità d’innovazione della Cina. E, sebbene la scelta del campo di sfida non appaia ancora chiara, è molto probabile che intendano puntare sulla robotica (soprattutto spaziale) e sulle nanotecnologie per raccoglierla. Non è un caso che Washington freni su quasi ogni ipotesi di collaborazione con Pechino nello spazio, mentre accetta la piana collaborazione dell’Europa e persino della Russia. E non è solo retorica elettorale l’entusiasmo, un po’ sopra le righe secondo alcuni, manifestato ieri da Obama quando ha visto Curiosity toccare il suolo marziano.

L’Unità 07.08.12

"Docenti soprannumerari in organico ma senza regole", di Antimo Di Geronimo

Docenti soprannumerari in organico di fatto senza regole certe. Mancano disposizioni specifiche per individuarli. E i dirigenti scolastici sono costretti a navigare a vista. L’ordinanza 64 dell’anno scorso, che l’amministrazione sta applicando provvisoriamente in attesa del nuovo contratto sulle utilizzazioni e assegnazioni, non prevede, infatti una specifica disciplina. E anche il nuovo accordo, attualmente in itinere, non fa che ricalcare quel poco che c’è nell’ordinanza dell’anno scorso.

Il contratto che non c’è

Oltre tutto la bozza di contratto è stata trasmessa al ministero dell’economia e alla Funzione pubblica solo il 25 luglio scorso, a 47 giorni di distanza dalla prima sottoscrizione. E quindi non si sa ancora quale sarà il testo normativo al quale gli uffici scolastici dovranno fare riferimento all’atto della disposizione delle operazioni. Non si sa ancora, infatti, se via XX settembre palazzo Vidoni hanno qualcosa da dire. E se questo qualcosa sarà accettato oppure no dai sindacati.

L’ipotesi di una nuova ordinanza

Si profilano , dunque, 2 possibilità. La prima è che vada tutto liscio e che il contratto venga firmato. In questo caso il testo di riferimento sarebbe il nuovo contratto. La seconda è che i sindacati rispondano picche ad eventuali rilievi del mineconomia o della funzione pubblica. Nel qual caso il ministero dell’istruzione dovrebbe recepire unilateralmente i rilievi e procedere con una nuova ordinanza. L’unica cosa relativamente certa è che l’ordinanza dell’anno scorso non è il testo di riferimento delle operazioni. Anche se le domande fanno riferimento a tale provvedimento.

Se il posto non c’è

La questione è di estrema attualità. Perché le situazioni di soprannumero cominciano già ad intravedersi dopo gli esiti della mobilità a domanda (trasferimenti e passaggi). Non sono rari, infatti, i casi in cui la cattedra è disponibile sull’organico di diritto e, quindi, l’amministrazione procede al trasferimento. Ma poi, dopo avere rifatto i conti, si scopre che in organico di fatto manca uno spezzone, se non addirittura l’intera cattedra. Si pensi, per esempio, ai posti di sostegno, che possono sparire in organico di fatto, quando gli alunni disabili si trasferiscono da una scuola ad un’altra. Oppure alla scomparsa di spezzoni dovuta ad accorpamenti di classi per gli esiti degli esami di riparazione.

Soprannumerari in stand by

Tali fenomeni in organico di diritto determinano l’applicazione di una dettagliata disciplina, che regola il procedimento di individuazione dei soprannumerari e la loro ricollocazione. Ma in organico di fatto non trovano riscontro in analoghe disposizioni, salvo alcune scarne previsioni contenute nell’ordinanza 64/11. Previsioni che, però, non contemplano la procedura di individuazione dei soprannumerari. Oltre tutto il soprannumerario in organico di fatto può essere individuato come tale solo dopo l’effettiva formazione del relativo provvedimento. Che di solito avviene poco prima della disposizione dei movimenti. E quindi è quasi impossibile applicare in analogia le procedure previste per il trattamento dei perdenti posto in organico di diritto. Perché non c’è abbastanza tempo e il tutto si verifica quando i docenti sono in ferie.

Le norme sui trasferimenti

Oltre tutto, trattandosi di norme speciali e, in alcuni casi, addirittura eccezionali, l’applicazione in via analogica non risulta praticabile. Si vedano, per esempio, le disposizioni che prevedono il <> automatico del docente ultimo arrivato, contenute negli articoli 21, comma 9 e 23, comma 11 del contratto sui trasferimenti e i passaggi. Clausole che hanno natura di norme eccezionali e, quindi, sono insuscettibili di interpretazione analogica (si veda la sentenza 8825/2012 della sezione tributaria della Cassazione). Dunque, si naviga a vista.

Che fine fa chi perde il posto

Resta il fatto, però, che l’ordinanza sulle utilizzazioni consente, in alcuni casi, ai soprannumerari in organico di fatto di rimanere a disposizione nella scuola dove si verifica l’esubero. E questo, in qualche misura, da una parte tampona i disagi di un’utilizzazione dell’ultima ora e, dall’altra, previene il contenzioso. Si pensi per esempio, all’art.2 comma 5 dell’ordinanza, che consente di evitare l’utilizzazione d’ufficio se le ore si riducono solo di un quinto. Oppure l’art.4 comma 10, che consente ai docenti che vanno in soprannumero per effetto degli accorpamenti di rimanere a disposizione nella scuola di utilizzazione.

da ItaliaOggi 07.08.12

"Assunzioni, c'è posto per 22 mila", di Alessandra Ricciardi

Tesoro e Funzione pubblica hanno detto sì a Profumo, attesa già per oggi la firma al decreto. Le maggiori disponibilità al Nord e alle elementari e medie. Incassato il via libera di Tesoro e Funzione pubblica, la firma al decreto di autorizzazione alle immissioni in ruolo potrebbe arrivare già oggi, quando al ministero dell’istruzione è previsto un incontro tra i vertici dell’amministrazione e i sindacati. Oggetto: le vacanze in organico di diritto per il prossimo anno scolastico, provincia per provincia e per le diverse tipologie di posto.
Secondo le indiscrezioni che ha raccolto ItaliaOggi, il via libera dovrebbe riguardare 21.112 docenti e 1.113 dirigenti. A bocca asciutta ausiliari, tecnici e amministrativi che pagato pegno per la riconversione professionale degli insegnanti inidonei per motivi di salute. Sono circa 3500 i prof inidonei che dovranno transitare necessariamente tra gli assistenti, secondo quanto prevede il decreto di Spending review. Il dicastero del tesoro li ha classificati come nuove assunzioni, per cui vanno scomputati dalle disponibilità totali. E per evitare di assumere su più posti di quelli effettivamente liberi, il ministero guidato da Vittorio Grilli ha preso tempo: dopo il via libera definitivo alla legge di Spending, una volta definita l’operazione di trasferimento si rifaranno i conteggi e solo allora ci sarà l’autorizzazione per assumere dalle gradutorie degli Ata. Ma già adesso è possibile prevedere che gli inidonei copriranno tutti i posti di assistenti e amministrativi (anzi, potrebbe esserci un problema di esuberi su questa tipologia), avanzerebbero insomma solo 2 mila posti per i bidelli. Comunque, dell’operazione si riparlerà in autunno. Il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, ha preferito intanto mettere al sicuro le assunzioni a tempo indeterminato di docenti e dirigenti. Non è cosa da poco, in tempi di revisione (e riduzione) della spesa pubblica. A garantire la neutralità delle immissioni, la misura concordata dal precedente governo e dai sindacati (Cisl, Uil, Snals e Gilda) di azzerare il primo scatto di carriera. Una misura che, hanno rilevato le sigle sindacali, nei fatti produce effetti negativi sulle buste paga per poco, visto che i docenti precari in posizione utile per l’assunzione hanno molti anni di precariato alle spalle. Situazione che consentirebbe il passaggio al secondo scatto di anzianità in tempi ragionevoli. I tecnici di viale Trastevere hanno verificato una disponibilità di circa 30 mila posti vacanti nell’organico di diritto degli insegnanti, dai quali vanno defalcati gli 8 mila docenti in esubero, di cui 7.800 nella sola scuola secondaria superiore. A definire il contingente ha contributo anche la previsione del piano triennale di assunzioni definito nell’ultima manovra del governo Berlusconi: 67 mila immissioni lo scorso anno, non più di 22 mila per questo e il prossimo. A patto, ovviamente, di aver centrato tutti gli obiettivi di risparmio del decreto legge 112/2008 e sempre che ci siano disponibilità dopo i pensionamenti. Requisiti questi che l’Istruzione ha mostrato di avere, al punto da convincere Funzione pubblica e Tesoro, che invece per tutto il resto del pubblico impiego hanno stretto la cinghia. Sempre secondo le indiscrezioni, le maggiori disponibilità ci sarebbero al Nord, dove le piante organiche sono tradizionalmente più in sofferenza. Per quanto riguarda il grado di scuola, invece, risultano avvantaggiati i prof di elementari, con oltre 6.100 posti vacanti, e medie, con più di 13 mila cattedre scoperte.

Le immissioni in ruolo saranno fatte attingendo alle graduatorie ad oggi disponibili, vistoc he non c’è stato nessun nuovo concorso. Le procedure saranno avviate presumibilmente dopo la pausa di ferragosto, per concludersi entro il primo settembre. E per evitare ritardi e intralci nel rintracciare i papabili, il ministero si è portato avanti con il lavoro, consigliando ai precari di dotarsi nel frattempo di pec. Per poter avere la chiamata via mail.

da ItaliaOggi 07.08.12

"L'Ilva: se chiude Taranto addio anche a Novi e Genova", di Guido Ruotolo

Con il fiato sospeso si aspetta domani, quando il Tribunale del Riesame leggerà il dispositivo della decisione. Sapremo domani se l’Ilva vivrà o se, come ha detto ieri il suo presidente Bruno Ferrante alla Commissione parlamentare bicamerale sui rifiuti, «chiuderà Taranto e con Taranto gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure perché con lo spegnimento degli altoforni è un sistema che viene meno». È l’effetto domino dal primo giorno evocato e solo ieri esplicitato in una sede istituzionale. Ma il solo ricordarlo ha fatto gridare al «ricatto». Gaetano Pecorella, Pdl, presidente della Commissione sul ciclo dei rifiuti, non è tenero con Ferrante: «Non è accettabile il suo discorso. Ci ha detto che o gli lasciamo carta bianca oppure chiudono tutto. È stato deludente, ci aspettavamo un programma di rinnovamento profondo e invece nessuna discontinuità con il passato».

Saranno scarcerati gli otto indagati, e i sei impianti dell’area a caldo verranno dissequestrati o comunque saranno cancellati i custodi giudiziari e gli impianti riaffidati ai tecnici e manager Ilva? Se a Taranto, la difesa degli indagati si è mostrata fiduciosa sugli esiti del Riesame, a Roma il presidente Ferrante ha voluto giocarsi la carta della scelta dei Riva, del patron Emilio Riva. «Per i Riva Taranto è un impianto strategico. Dal ’95 sono stati investiti 4,5 miliardi di euro , e di questi 1,5 per l’ambiente. Ma se il Riesame dovesse confermare le misure decise dal gip, noi ci troveremmo in difficoltà, costretti a chiudere non solo Taranto ma anche gli altri impianti che trattano i semilavorati prodotti nell’acciaieria a caldo».

Il presidente dell’Ilva ha in più passaggi ribadito la linea della «discontinuità» con il passato, «non avendo condiviso» le scelte di «litigiosità giudiziaria» – i contenziosi aperti e ormai chiusi per rinuncia da parte di Ferrante di «non partecipazione» all’incidente probatorio con proprie controperizie, o «contestando» comportamenti di uomini della direzione, come Girolamo Archinà, licenziato tre giorni fa.

Ai componenti della Commissione bicamerale sui rifiuti, l’ex prefetto di Milano ha voluto sottolineare quanto quella della Procura sia stata «un’iniziativa meritoria», «per aver risvegliato le coscienze» su quel tema fondamentale che è il rapporto lavoro-salute. Ma nello stesso tempo, Ferrante ha preso le distanze dalle scelte del gip, dagli arresti domiciliari.

«È inaccettabile la minimizzazione da parte del governo del disastro ambientale e sanitario di Taranto». Mentre si sta creando uno schieramento politico – Idv, Verdi e Rifondazione – che chiede le dimissioni del ministro dell’Ambiente Corrado Clini, a Bari ieri si è riunito un tavolo tecnico per rendere ormai operativo il piano varato dal governo per le bonifiche di Taranto. I 336 milioni stanziati sono stati così ripartiti: 119 per le bonifiche, 187 per gli interventi portuali e 30 per il rilancio industriale e investimenti produttivi con elevati livelli tecnologici.

A Bari, governo, Regione ed enti locali stanno costruendo le condizioni per rendere Taranto ambiente vivibile e compatibile con le industrie. Ma tutto questo con la decisione del Riesame c’entra poco.

La Stampa 07.08.12

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LA PREOCCUPAZIONE DEGLI 800 OPERAI ALESSANDRINI “CON LE SCORTE ANDIAMO AVANTI SOLO FINO A OTTOBRE”, di GINO FORTUNATO

L’incubo della chiusura dello stabilimento Ilva di Novi è sempre più incombente fra i dipendenti, soprattutto dopo le dichiarazioni rilasciate ieri dal presidente dell’azienda Bruno Ferrante.

La notizia non ha colto di sorpresa i lavoratori: i sindacati avevano già previsto questa evenienza e se n’era parlato alle assemblee dei giorni scorsi. Ma poi erano filtrate delle notizie più rassicuranti: «Lo stabilimento di Novi sta per sospendere l’attività per circa tre settimane, per la consueta manutenzione agli impianti – dice Bruno Motta della Cgil – Si tratta di una procedura che sarebbe stata applicata anche senza l’esplosione del caso Taranto. Poi da settembre si dovrebbe ricominciare a lavorare sfruttando le scorte di acciaio in giacenza nella fabbrica novese. Comunque sono limitate e consentiranno di proseguire la produzione al massimo fino ad ottobre».

In passato l’Ilva aveva già acquistato rotoli di materia prima (che a Novi viene trasformata «a freddo» in lamierino) dalla Russia e altri Paesi dell’Est: fra l’altro a costi altamente competitivi. Un’operazione che in caso di prolungato blocco di Taranto potrebbe essere ripetuta. Ma allo stabilimento novese – i dipendenti sono quasi 800, con l’indotto superano i mille, quasi tutti della zona – sperano in un programma di bonifica graduale dell’area tarantina meno «severo e rigoroso» e soprattutto che l’eventuale inasprirsi della vertenza non imponga la chiusura degli altri impianti nazionali, fra cui quello cittadino. La fabbrica di Novi, in base ai rilevamenti effettuati dall’Arpa, non svilupperebbe polveri sottili o altri elementi nocivi grazie all’utilizzo di basse temperature nella lavorazione del «lamierino», principalmente destinato all’industria automobilistica. Sino al 2008 a Novi si producevano sino a 2 milioni di tonnellate di laminati all’anno. Sembrano però lontanissimi quei tempi.

La Stampa 07.08.12

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“SENZA IL LORO ACCIAIO NON POSSIAMO ANDARE AVANTI SERVONO INTERVENTI GRADUALI O PER NOI È LA FINE”, di ALESSANDRA PIERACCI

Con 1760 dipendenti, di cui 900 in regime di contratti di solidarietà, e altri duemila lavoratori dell’indotto, l’Ilva di Genova dipende dall’altoforno di Taranto. Lo stabilimento di Cornigliano ha chiuso i suoi impianti a caldo negli anni scorsi, in seguito a lunghe trattative con gli enti locali e il governo. Ora sopravvive la lavorazione a freddo, ma senza il materiale che arriva dalla Puglia il complesso è inutile. «Lo sappiamo tutti. Le dichiarazioni di ieri non aggiungono nulla. È un messaggio dell’azienda a chi forse fino a questo momento, forse anche la magistratura, non aveva idea di che cosa fosse il ciclo della siderurgia. Un modo per far presente a tutto il mondo quali sarebbero le conseguenze della chiusura» dice Franco Grondona, segretario provinciale della Fiom. «È come se a Taranto ci fosse il mulino – prosegue e qui il panificio: senza farina niente pane». Fa lo stesso esempio anche il segretario generale della Uil, Pierangelo Massa: «Qui facciamo il pane, l’impasto arriva da fuori». Per Massa, le dichiarazioni di Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva, «interpretano la posizione dura di un’azienda sotto schiaffo». La ragionevolezza vorrebbe «una bonifica con interventi graduali, c’è la possibilità di farlo».

«Speriamo che la ragionevolezza prevalga – si augura il presidente della Regione, Claudio Burlando – Il processo siderurgico si basa su lavorazione a caldo e a freddo, se si chiude l’altoforno salta l’intero ciclo produttivo. Speriamo che ci sia buonsenso, in un momento in cui anche la crisi dell’auto ha dato una mazzata all’industria dell’acciaio».

«In un momento di crisi planetaria, non si può mettere in ginocchio un settore strategico come questo. Si può trovare una mediazione. Sono passati decenni invano, mentre alcuni giocavano a rimpiattino, ora improvvisamente qualcuno spegne la luce e ci troviamo tutti al buio» conclude Massa.

La Stampa 07.08.12

"Nagel: io contro Ligresti", di Massimo Giannini

Una delle massime più famose di Enrico Cuccia vuole che «il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, mentre quello mortale è parlare». Ebbene, stavolta Alberto Nagel, nato e cresciuto nel Tempio della Finanza di cui Cuccia è stato il Gran Sacerdote, commette il peccato mortale. L’amministratore delegato di Mediobanca parla, perché l’atto d’accusa della Consob e le inchieste della magistratura sullo scandalo Ligresti-Fonsai lo chiamano in
causa pesantemente.
E Nagel non vuole passare per quello che ha tramato in gran segreto per tenere in vita a suon di milioni un “dead man walking” come Don Salvatore. Non vuole fare la parte di quello che tenta di salvare a tutti i costi il capitalismo di relazione, nasconde la polvere sotto il tappeto del Salotto Buono e scarica il conto della “bonifica” sul Parco Buoi di Piazza Affari.
«Lei ha ragione — mi dice dal suo fortino assediato di Piazzetta Cuccia — dalla scomparsa di Vincenzo Maranghi in poi, in Italia si è combattuta e si sta combattendo una guerra di potere. Ed è anche vero che questa guerra ha camminato di pari passo con le evoluzioni della politica…». Nagel allude chiaramente all’ascesa di Berlusconi e al tentativo di presa del potere delle sue truppe cammellate. «Tra il 2009 e il 2010 c’è stato un tentativo chiaro, da parte di un gruppo di azionisti e di manager, per acquisire una posizione di forza all’interno del circuito che fa capo a Mediobanca… ». Con il sostegno esplicito del Cavaliere, in quel momento capo di un governo che aveva stravinto le elezioni, Geronzi e Bollorè «hanno cercato di entrare da padroni» nella Galassia attraverso la testa di ponte della famiglia Ligresti. In quel momento anche con l’accordo di Profumo, che allora guidava Unicredit, e — aggiunge Nagel — «nel silenzio delle autorità di vigilanza, a quell’epoca assai compiacenti».
Su questa ricostruzione, che rappresenta il primo tempo della partita dei Poteri Forti, Nagel non ha nulla da obiettare. La conferma, e la considera l’ultimo “colpo di coda” di un sistema che non reggeva e non regge più. Quello che contesta è che, nel secondo tempo della partita che inizia nel 2011 e arriva fino ad oggi, la “sua” Mediobanca abbia cercato di riacquisire la sua centralità, con i vecchi metodi dell’Ancien Regime del capitalismo italiano: patti di sindacato, accordi segreti, conflitti di interesse, partecipazioni incrociate e assetti immutabili. «E’ successo l’esatto contrario », obietta l’ad di Mediobanca che spiega: «Il punto di svolta è il momento in cui siamo riusciti a mettere fuori gioco Geronzi. Quello è stato l’inizio di un cambiamento epocale, per Mediobanca e per la finanza italiana. Per la prima volta, noi manager, Renato Pagliaro ed io, abbiamo ristabilito il primato dell’autonomia e dell’indipendenza. Siamo noi che abbiamo fatto saltare gli equilibri di quello che voi, sui giornali, chiamavate e chiamate ancora il Salotto Buono dei Poteri Forti, o dei Poteri Marci…».
Faccio osservare a Nagel che di questo nessuno, e meno che mai il mercato, ha avuto la benché minima percezione. Lui replica: «Stiamo ai fatti. Siamo noi che abbiamo mandato via Geronzi. Siamo noi che abbiamo fatto tre passi indietro in Rcs. Siamo noi, unici nel panorama italiano, che abbiamo riformato radicalmente la governance dell’Istituto, introducendo il limite dei 65 anni per i manager. Siamo noi che, da allora, abbiamo cercato di traghettare Mediobanca nell’era moderna, facendola diventare una banca d’affari che ragiona in un’ottica di puro mercato ». Ma su Ligresti le logiche che hanno prevalso sembrano le solite: salvare il credito di Piazzetta Cuccia, quasi 1 miliardo, e buona notte a tutto il resto. Nagel ribatte: «Ma noi Ligresti lo abbiamo messo alla porta, con tanto di lettere ufficiali! E abbiamo cominciato a farlo già in quell’autunno del 2010, quando abbiamo capito che trattava con Bollorè e con i francesi. Veniva da noi, ci chiedeva la “sala 7” e ci diceva: devo incontrare alcuni operatori finanziari. Senza dirci nemmeno di cosa stava trattando ». Da quel momento, secondo la ricostruzione del manager, si consuma la rottura con il finanziere di Paternò e dai suoi famigli.
Anzi, secondo Nagel il distacco era iniziato già prima. «I giornali — dice — dovrebbero smettere di scrivere che abbiamo continuato a finanziare i Ligresti fino a pochi mesi fa. In verità i rubinetti si sono chiusi dal 2007…». Sta di fatto che oggi, con l’ingaggio di Unipol nell’operazione di acquisto/fusione di cui Mediobanca è regista, i problemi non sono ancora risolti. E qui l’ad insorge: «Sa che le dico? In qualunque altro Paese europeo, di fronte alla situazione dei Ligresti e al progetto industriale di Unipol, il governo avrebbe convocato Carlo Cimbri e gli avrebbe detto: di cosa avete bisogno? Siamo pronti ad aiutarvi, perché il vostro è un piano che tutela gli interessi del Paese. Vede, io non sono innamorato dei “campioni nazionali”, ma nessuno può dire che il progetto Unipol su Fonsai non ha una grande valenza strategica e industriale». Ma di aspetti critici, sul punto, ce ne sono diversi: dall’assenza di Opa al danno per i piccoli azionisti, dalla ricapitalizzazione diluitiva di Premafin alla “buonuscita” d’oro promessa a Don Salvatore.
Nagel ribatte colpo su colpo: «Danni ai piccoli azionisti? Ma di che parliamo? Faremo gli aumenti di capitale, e l’inoptato lo ce lo prenderemo in carico noi e Unicredit, com’è giusto che sia. Poi è chiaro che io devo preoccuparmi di difendere il mio credito, ma sa perché? Perché anche Mediobanca ha i suoi piccoli azionisti da tutelare! E poi che senso ha parlare di aumento di capitale “diluitivo”? Tutte le ricapitalizzazioni lo sono, per definizione». Il bonus da 45 milioni per Ligresti merita un discorso a parte: è l’oggetto dell’inchiesta della Procura di Milano, che vede Nagel indagato per “ostacolo alle attività di Vigilanza”. C’è il famoso documento di due cartelle, in cui Ligresti chiede ampie garanzie economiche per sé e per i suoi rampolli. Nagel lo sottoscrive: oggettivamente, è una prova a suo carico. «Niente affatto — risponde lui — e l’ho spiegato ai pubblici ministeri. Ho messo una sigla sui “desiderata” della famiglia, tutto qua. Altro che patto parasociale! Nessuna delle cose scritte su quei due fogli di carta si è verificata. I 45 milioni di cui si parla non sono affatto una “buonuscita”, ma il corrispettivo della quota Premafin che Ligresti doveva cedere a Unipol…».
Eppure, l’impressione che con i Ligresti i rapporti non siano mai stati interrotti rimane. «E’ una falsità, anche questa. E’ chiaro che in una vicenda del genere siamo costretti a parlare anche con i Ligresti. Ma il criterio è: ti chiedono 20 incontri, tu rispondi 19 no ma alla fine devi dire un sì, se vuoi risolvere questa crisi». Dunque, a sentire Nagel, nessuna “intelligenza col nemico”. Solo il normale lavoro di mediazione di una grande banca d’affari. Ma è un fatto che la guerra di potere è tuttora in corso. E l’indebolimento di Mediobanca è oggettivo, com’è oggettivo il fatto che sia partita una strana “caccia” nei confronti del suo amministratore delegato. Perché? E’ davvero una vendetta postuma, dopo la cacciata di Perissinotto dalle Generali, “reo” di aver sostenuto su Fonsai la cordata alternativa a Unipol, quella guidata da Arpe e Meneguzzo? «Senta, quella di Arpe e Meneguzzo è una pura azione di disturbo. E quanto a Perissinotto, la verità è semplice: è stato messo a riposo dopo tanti anni perché in cda si è convenuto che i risultati della sua gestione non fossero performanti com’è giusto attendersi da un gruppo con il potenziale delle Generali. E questa valutazione è stata condivisa da tutti: anche da Pellicioli, Caltagirone e perfino Bollorè ».
Si può obiettare all’ad di Piazzetta Cuccia che, se il criterio per cacciare un manager è questo, allora anche lui è ad altissimo rischio, visto che Mediobanca in un anno ha perso il 60% del suo valore. «Io sono sereno — riflette — e ho fiducia nei magistrati, che sono persone serie. Non so se rischio qualcosa, all’assemblea dei soci di ottobre. Per ora non mi pare che da parte degli azionisti ci sia il desiderio di consumare chissà quali vendette. So solo che ho agito con assoluta correttezza, e che in questa vicenda su Fonsai i veri innovatori siamo noi, e i restauratori sono altri. Noi vogliamo voltare pagina, accompagnando fuori dalla scena i Ligresti… ». Dunque, lascia intendere Nagel, se oggi è in corso un secondo tempo della partita del potere questa vedrebbe gli “alani” della “nuova Mediobanca” nel ruolo dei modernizzatori, aperti al mercato, alla contendibilità delle aziende e alla creazione di valore. E i loro “nemici”, nascosti ancora nell’orbita geronziana niente affatto in disarmo, nel ruolo dei garanti del vecchio sistema e dei vecchi metodi.
E’ una versione credibile, quella di Nagel? La risposta verrà dai fatti delle prossime settimane. Dalle cronache finanziarie, che diranno se l’affare Unipol va in porto e se i Ligresti escono davvero per sempre dalla scena. E dalle cronache giudiziarie, che diranno se il quarantasettenne erede di Cuccia dice la verità, o è anche lui parte di un capitalismo in declino, che resiste e fa di tutto per non perdere quella modesta fetta di torta che c’è ancora da spartire.

La Repubblica 07.08.12

"Un’altra strada è possibile", di Michele Prospero

È sempre più evidente che la crisi economica rimane fuori da ogni controllo anzitutto per una ragione politica. C’è un nervo scoperto nel progetto europeo, ed è la mancanza di un centro di decisione comune. Gli investitori e gli speculatori internazionali (il confine tra i due mondi è sempre più sfuggente) hanno ben individuato questa stranezza istituzionale e approfittano con cinica determinazione del palpabile vuoto di potere. Senza alcun scrupolo, gli acquirenti di titoli del debito sovrano giocano pericolosamente sul filo del rasoio.
Osano spingersi fino a lambire l’impensabile per ogni attore razionale, cioè sino a coltivare la incredibile vocazione al peggio che spinge un creditore a favorire la morte cruenta del debitore strozzato per insolvenza.
Sperare in un operoso rinsavimento degli speculatori, che li induca a preferire giochi meno rischiosi, è un atto sin troppo illusorio. La consapevolezza della possibile rovina comune che potrebbe colpire gli attori del gioco competitivo arriva, ma purtroppo sempre in ritardo. È inutile scommettere in un soprassalto di razionalità che si ripresenta in prossimità del baratro e convince gli speculatori ottusi ad adottare mosse più responsabili. Servono comunque a poco anche le invettive morali contro l’avidità della finanza. E proprio a nulla vale rivendicare con puntiglio che i compiti a casa sono stati eseguiti con diligenza e dunque è giusto adesso elemosinare un trattamento più riguardoso. Il problema è che i manovratori del denaro non si lasciano mai incantare dai gridi di dolore e non si commuovono dinanzi ai sacrifici umani che provocano le loro spavalde gesta egoistiche.
Occorre perciò, con estremo realismo, puntare su altro. Una moneta che circola senza il comando di un potere sovrano, e priva della copertura di una Banca centrale con facoltà analoghe a quelle dei governatori dei vecchi Stati nazionali, appare qualcosa di campato in aria. Si tratta di una enorme debolezza di tipo strutturale che autorizza ogni speculatore a coltivare gigantesche aspettative di lucro. Rimediare a questa strabica condizione europea, che costringe ad avere una moneta comune quando però la condotta degli Stati rimane fortemente competitiva nel mercato, è la condizione politica per affrontare di petto la crisi. Il guaio è che questa strada efficace richiede del tempo mentre dinanzi a un impazzito debito pubblico di Stati aggrediti, gli speculatori con insolenza si accaniscono sulla preda e non mollano la presa fino alla completa rovina di un Paese.
È possibile uscire da questo orribile circolo vizioso (di debiti onerosi, di sacrifici recessivi per appianarli e di un debito ancor più insostenibile) che mette in ginocchio le nazioni, banalizza il gioco democratico svuotandolo di ogni senso? Dal disastro che incombe si può stare alla larga purché si abbia la forza di costruire un forte movimento europeo capace di cambiare le politiche continentali e di rivedere i meccanismi istituzionali che hanno venerato il dogma della stabilità monetaria affidata a una autoreferenziale Banca centrale. Il fattore di resistenza costituito dalla Germania deve essere sfidato con l’apparizione di un incisivo movimento politico e culturale europeo che mostri come il contagio, che dapprima colpisce un paese marginale e poi passa ad altri paesi più centrali, disegni un paesaggio spettrale per tutti.
È difficile che un Paese rinunci spontaneamente ai vantaggi corposi che nel breve termine sono offerti dall’Euro (una autentica protezione dorata, rispetto alla rigidità del vecchio marco, che permette alla Germania di navigare trionfale nelle esportazioni senza più l’insidia di svalutazioni competitive escogitate dalle monete più fragili). Occorrerebbero degli statisti, che anche in Germania difettano, per scrutare oltre il mero tornaconto immediato. E però se la ragione politica è offuscata nel cogliere le tendenze di più lungo corso, anche le prosaiche cifre delle compravendite dovrebbero indurre a una maggiore accortezza. Le ultime statistiche svelano che le esportazioni tedesche in Italia nel primo trimestre del 2012 sono crollate del 18 per cento. Un Paese esportatore, che scommette sul tracollo dei Paesi che dovrebbero acquistare le proprie merci e prodotti ad alta tecnologia, costituisce una completa assurdità politica ed economica.
Su questa insenatura deve penetrare la politica prima che sia troppo tardi. La sinistra europea deve essere con sempre maggiore determinazione la protagonista principale di una fuoriuscita dalla crisi che viene sempre più aggravata dalla cecità delle destre tedesche. La politica conta, come è emerso con trasparenza quando la Francia di Hollande ha spezzato l’asse di Parigi con Bonn, incrinando la solidità della dittatura del santo rigore.
Al vecchio progetto europeo affidato alla asimmetria di potenza degli Stati (che invocano per i Paesi in difficoltà misure di intervento finanziario in cambio di drammatici impegni pluriennali a sostenere sacrifici che di fatto spingono fino alla terribile eutanasia della democrazia) occorre ormai contrapporre con coerenza il percorso di un’altra integrazione europea che confida nel valore costituente dei grandi partiti continentali. Non gli Stati, con la loro inestirpabile volontà di potenza e di assoggettamento, ma i partiti, con il loro spirito di inclusione, devono essere gli artefici di una nuova Europa politica, capace di omogeneità sociale e fiscale, di decisione sulle grandi emergenze. Solo dalla sinistra e dai progressisti può venire una risposta alla drammatica fine dell’Europa.

L’Unità 07.08.12

"La difesa dell'acqua e la sentenza della Corte", di Stefano Rodotà

In un momento in cui si manifestano diversi “intenti” politici e si discute intensamente di legalità costituzionale, conviene tornare sulle indicazioni date dall’importantissima sentenza della Corte costituzionale su referendum e servizi pubblici. Ad essa dovrebbero rivolgere un’attenzione particolare i partiti, perché in quella decisione sono affrontate con chiarezza non usuale questioni che riguardano il complessivo funzionamento del sistema politico-istituzionale. Infatti, restaurando la legalità violata da norme che cercavano di cancellare i risultati dei referendum di un anno fa, la Corte ha pure dato indicazioni significative su temi oggi al centro della discussione: i rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta; tra governo, regioni e comuni; tra ordinamento europeo e ordinamento nazionale; tra mercato e “missione” degli enti pubblici. Tutto questo avviene grazie ad una ricostruzione della trama istituzionale che riconosce alla Costituzione il ruolo che le compete e che, di questi tempi, viene invece continuamente vilipeso dalle iniziative più varie e sgangherate, dalle proposte di assemblea costituente o di referendum di indirizzo fino agli aggiramenti dettati da un estremismo liberista che vuole liberarsi anche dei principi costituzionali. La Corte ha restituito l’onore alla Costituzione, mostrando al tempo stesso di non essere subalterna a pressioni e convenienze e smentendo così la pericolosa vulgata che, diffusa ora da una parte ora dall’altra, la rappresenta come una istituzione non affidabile.
Nella sentenza si ricorda che, ad appena un mese dai referendum, il governo Berlusconi aveva approvato una norma che, fingendo di dare attuazione alla volontà referendaria, in realtà riproponeva, addirittura in maniera più restrittiva, le stesse norme, spesso con le stesse parole, che ventisette milioni di cittadini avevano abrogato con il loro voto. Il governo Monti si è mosso secondo la stessa logica, troppi enti locali hanno continuato a comportarsi come se il referendum non vi fosse stato, i partiti hanno spesso accompagnato questa deriva con silenzi o complicità. Vane, fino al giorno dell’intervento dei giudici costituzionali, erano state le denunce di questa situazione di palese illegalità. Ora la Corte ha detto senza mezzi termini che quelle norme sono costituzionalmente illegittime, perché non si può “ledere” la volontà popolare. La legalità costituzionale è stata ristabilita. Già salvaguardata l’acqua come bene comune, viene ora meno il sostanziale obbligo dei comuni di privatizzare i servizi pubblici locali. Questo era l’intento dei promotori dei referendum, e dei cittadini che li hanno votati, mentre le norme dichiarate illegittime intendevano tener ferma “l’identica ratio” che stava alla base delle norme abrogate.
Risulta ormai evidente che Governo e Parlamento avevano cercato di realizzare una vera e propria frode legislativa a danno dei cittadini, partendo dalla disinvolta premessa che un istituto di democrazia diretta, qual è appunto il referendum, potesse essere trattato come un qualsiasi sondaggio o, com’è stato scritto con notevole impudenza, come un semplice “consiglio” al legislatore. La sentenza della Corte spazza via questa proterva subcultura, chiarendo con precisione quali siano gli effetti dell’abrogazione referendaria e, di conseguenza, i limiti che il legislatore deve rispettare quando vuol tornare sulla stessa materia. E così, portando
alle loro logiche conseguenze anche indicazioni contenute in sentenze precedenti, ribadisce con nettezza quali siano i criteri ai quali ci si dovrà attenere in futuro. In questa sua operazione la Corte è stata sostenuta da una forte consapevolezza culturale. La sentenza, infatti, sottolinea la necessità di considerare la “prospettiva di integrazione di strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa”. Proprio perché la tradizionale democrazia rappresentativa è da tempo in profonda difficoltà, si è fatto insistente il richiamo ai più diversi istituti della democrazia diretta, al referendum in primo luogo, di cui deve essere considerata la mutata funzione in questo diverso contesto. Una riflessione costituzionale seria non può eludere questo punto, perché solo l’integrazione nel sistema rappresentativo può evitare la trasformazione dei referendum nello strumento tipico del populismo. È per questo che i risultati referendari devono essere non solo rispettati, ma presi terribilmente sul serio da Governo e Parlamento. La Corte, dunque, coglie uno spirito del tempo, che si ritrova peraltro nel modo in cui il Trattato europeo di Lisbona configura il rapporto tra rappresentanza e partecipazione dei cittadini.
Ma i giudici costituzionali individuano un’altra questione ineludibile quando ricordano che una applicazione esclusiva del principio di concorrenza può far sorgere “ostacoli in diritto o in fatto alla ‘speciale missione’ dell’ente pubblico”. È evidente l’intento di reagire alla pretesa di usare l’emergenza come occasione o pretesto per travolgere qualsiasi principio costituzionale, quasi che l’unica salvezza possa venire dalla legge del mercato, divenuta davvero il nuovo “diritto naturale”. Ma la cura di interessi generali non può essere affidata al solo meccanismo della concorrenza, quasi che l’esistenza di soggetti pubblici come i comuni, nascenti anch’essi dall’investitura popo-lare, debba essere considerata un inciampo dal quale sbarazzarsi. Anche qui bisogna misurarsi con un cambiamento culturale, che parte dai diritti delle persone e li mette in relazione con i beni e i servizi necessari per la loro soddisfazione, individuando le situazioni per le quali la tradizionale mediazione del mercato si rivela distorcente. Non dimentichiamo che, tra le norme abrogate con referendum, vi è anche quella che prevedeva modalità di remunerazione del profitto per la fornitura dell’acqua. Liberati dall’ossessivo vincolo privatistico, i comuni potranno ora esercitare più liberamente la loro responsabile facoltà di scelta, che tuttavia deve essere, come per il legislatore, coerente con le indicazioni referendarie.
Tutto questo crea difficoltà? Certamente. Ma queste nascono dalla testardaggine con la quale ci si è chiusi nella cieca difesa delle vecchie logiche, senza voler fare i conti con il nuovo, con il fatto che è comparsa un’altra politica, figlia di un’altra cultura. La cattiva politica, anche economica, di questi anni discende proprio da una regressione culturale. Non è tanto l’invecchiamento del personale politico a dover preoccupare, quanto l’invecchiamento delle loro idee. Quando in Italia sono state fatte politiche davvero innovative, erano ben visibili i canali di comunicazione con le elaborazioni culturali che avevano preparato l’innovazione. Forse la sentenza della Corte costituzionale convincerà qualcuno della necessità di riaprirli.

La Repubblica 07.08.12