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"Non è un derby Italia-Germania", di Antonio Silvano Andriani

Il futuro dell’euro non può essere trattato come una gara fra italiani e tedeschi. Ed è un errore prendersela con i tedeschi per l’eccesso di spirito etico che determinerebbe le loro valutazioni. Se la mettiamo sul piano dei comportamenti l’eccesso di propensione all’evasione fiscale e alla corruzione, la preferenza per i rapporti particolari piuttosto che per il merito e, più in generale, la scarsa tendenza a rispettare le regole dell’italiano medio non sono uno stereotipo inventato dai tedeschi, ma sono una realtà certificata da classifiche di agenzie internazionali e da sondaggi di opinione. Ridurre queste attitudini sarebbe la vera riforma strutturale che comporterebbe una rivoluzione culturale. Ciò detto, il problema del futuro dell’euro non dipende da questo e non riguarda solo italiani e tedeschi.

Riguarda due visioni opposte dell’economia, dei meccanismi che generano la crescita e del ruolo della politica economica.
Nella fase di accelerazione della globalizzazione che ebbe inizio nelle seconda metà dell’Ottocento tutti i Paesi industrializzati seguirono strategie mercantiliste. Tutti tennero fermi i salari mentre aumentava fortemente la produzione e si impegnarono ad esportare all’estero la maggiore produzione realizzata. L’imperativo della politica economica era aumentare la competitività del paese e quindi la sua potenza economica. Ne risultarono la spinta alle conquiste coloniali, guerre commerciali e l’adozione diffusa di pratiche commerciali scorrette. Tutto ciò fu causa non ultima delle grandi crisi economiche e delle guerre mondiali.
Proprio durante la crisi degli anni 30 la cultura riformista, avviò l’elaborazione di una nuova visione dello sviluppo economico che trovò la sua prima applicazione nelle politiche di Roosevelt e dei governi socialdemocratici scandinavi. L’obiettivo della crescita economica doveva essere non più la potenza economica del Paese, ma il benessere dei suoi cittadini e ruolo della politica economica doveva essere di indurre il sistema economico alla piena utilizzazione delle sue risorse, a cominciare dal lavoro. Da quella elaborazione è nato il modello che è risultato vincente dopo la seconda guerra mondiale e le cui parole chiave erano “welfare state”, “politica dei redditi”, “concertazione” e “programmazione”. Gli accordi di Bretton Wood, si inspirarono a questa visione. Si decise di rilanciare il processo di integrazione dell’economia mondiale, ma di tenerlo sotto stretto controllo politico per evitare soprattutto che si formassero ancora squilibri strutturali in seguito a strategie mercantiliste.
Dall’entrata in funzione dell’euro i governi tedeschi hanno adottato esplicitamente una strategia mercantilista. E, paradossalmente, hanno usato per alimentarla una delle pratiche tipiche del riformismo, la concertazione, attraverso la quale hanno, con l’accordo dei sindacati tedeschi, rovesciato la politica dei redditi nel suo contrario. Il principio che i salari reali debbano crescere in relazione alla crescita della produttività, che era il cuore della politica dei redditi, è stato sostituito da una regola che stabilisce l’esatto contrario: i guadagni di produttività dovevano essere usati per aumentare la competitività del sistema economico tedesco. Così la competitività di un’economia già forte è aumentata in quanto la Germania ha avuto una dinamica del costo del lavoro e della domanda interna inferiore a quella dei Paesi concorrenti. A questo si è aggiunto il grande vantaggio di un tasso di cambio dell’euro che favorisce i Paesi più forti. Nessuna meraviglia allora per le eccezionali performance della Germania nel commercio estero e che esse si siano manifestate soprattutto verso gli altri Paesi dell’area euro ed abbiano fornito una formidabile spinta alla formazione degli enormi squilibri finanziari e reali formatisi fra i Paesi dell’area euro.
Nella prima riunione dei G20 alla quale partecipava Obama sostenne che per superare i profondi squilibri formatisi nell’economia mondiale ogni Paese dovesse rimettere in discussione il suo modello di sviluppo. Il governo tedesco rifiutò questo approccio e da allora ha imposto all’area euro una politica di contenimento della domanda interna che ha senso solo se si volesse fare adottare anche all’intera area euro una strategia mercantilista. Questo è un approccio velleitario che fa dell’Europa non solo il centro della crisi economica mondiale, ma anche il principale ostacolo alla ricerca di nuove forme di cooperazione per il superamento degli squilibri dell’economia mondiale. Ad essa si deve opporre il rilancio di una visione che vede obiettivo della crescita economica il maggiore benessere dei cittadini anche se tale benessere deve essere definito oggi in relazione ai nuovi bisogni ed ai profondi mutamenti nel livello di vita e nella composizione demografica. E restituisca alla politica economica il compito di puntare con ogni mezzo a realizzare la piena utilizzazione delle risorse di ciascun Paese anche se questo può essere conseguito oggi sopratutto attraverso politiche macroeconomiche di dimensione europea.
Questi sono i termini del confronto che non è fra italiani e tedeschi, ma fra una cultura conservatrice che risuscita pratiche e valori ottocenteschi ed una cultura riformista che deve provare a rilanciare nella realtà di oggi i valori e le politiche innovatrici che dettero allora la risposta vincente alla crisi. Ed è un confronto in corso anche in Germania dove voci autorevoli si stanno opponendo alla politica del governo. Tale confronto conoscerà probabilmente una svolta se ci sarà un mutamento nella situazione politica tedesca.

l’Unità 08.08.12

"Quei ragazzini senz'anima che uccisero Desirée", di Giusi Fasano

I ricordi del giudice: troppa crudeltà, faticai a parlarne. L’intuizione fu di un luogotenente dei carabinieri, Domenico Zamparini. «Quel maresciallo era un grande» ricorda l’ex capo della procura minorile di Brescia Emilio Quaranta. «È morto qualche anno fa e ogni tanto penso a lui. Lo rivedo mentre mi chiede “che ne dice se controlliamo dove hanno passato le vacanze quei ragazzi di Leno?”. Era una buona idea e quello che scoprimmo fece svoltare le indagini».
L’autunno del 2002 era appena cominciato e a Leno, nel Bresciano, era scomparsa una ragazzina di 14 anni, Desirée Piovanelli, primo anno di liceo scientifico. Non tornò a casa la sera del 28 settembre e quel pomeriggio nessuno l’aveva incrociata, nessuno aveva saputo dire dov’era diretta quand’è uscita. I giorni a casa Piovanelli passarono in un crescendo di angoscia e presentimento. La sera del 2 ottobre suo padre Maurizio la implorò dagli schermi delle tivù («Ti prego torna a casa»), convinto com’era che Desirée fosse da qualche parte con il suo ragazzo, come aveva scritto lei stessa in un messaggino telefonico spedito al fratello qualche ora prima. Eppure c’era qualcosa che non andava in quel messaggino.
Il luogotenente Zamparini si mise a ricostruire la «vita» della scheda telefonica usata dalla ragazzina e scoprì che era stata rubata (e c’era la denuncia) in un camping di Jesolo. Che ci faceva quella scheda nelle mani di Desirée? Così il maresciallo andò dal procuratore Quaranta, appunto: «Vediamo dove hanno passato le vacanze quei ragazzotti…».
I «ragazzotti» erano dei minorenni di Leno che la studentessa scomparsa conosceva da quand’era bambina e che avevano in comune tante, troppe attenzioni per lei. Uno, Nicola, era stato respinto più volte e di lui Desirée aveva annotato nel diario: «Tenere alla larga». Gli amici più stretti di quel molestatore erano due: Nico, coetaneo, e Mattia, 14 anni. E guarda caso avevano passato le vacanze a Jesolo. Ce n’era abbastanza per metterli sotto pressione.
L’ex procuratore ripensa a quei giorni: «Ricordo che dopo l’accertamento sulle vacanze sentimmo per primo quel Mattia. Aveva compiuto 14 anni da poco, era emotivamente debole e non ci volle molto per farlo crollare. Ci raccontò del branco, di come avevano ammazzato la povera Desirée, ci parlò di Giovanni Erra, l’unico adulto del gruppo (aveva 36 anni, ndr), e ci disse dove avremmo trovato il cadavere…».
Il corpo di Desirée era in un vecchio casolare che si chiamava Cascina Ermengarda, a due passi da casa sua e da quella dei suoi assassini. L’avevano accoltellata e la sua agonia, stabilì poi l’autopsia, era durata quasi due ore. Tutto premeditato: attirarla nella cascina con il pretesto di farle vedere una cucciolata di gattini, violentarla a turno e poi ucciderla con un coltellaccio. Nicola aveva portato un sacchetto per infilarci i vestiti sporchi di sangue e aveva comprato un caricabatteria che andasse bene per il cellulare di Desirée, così l’avrebbero usato dopo il delitto per depistare gli inquirenti. Nico aveva recuperato delle fascette autobloccanti per immobilizzarla. E ciascuno di loro si era impegnato a dare una mano per tenerla ferma durante la violenza.
«Lo so che vale poco o niente come consolazione, ma ci tengo a dire che alla fine non sono riusciti a violentarla» sospira Emilio Quaranta. Desirée è riuscita a divincolarsi, perfino a liberare la mani dalle fascette. «Mi fai schifo, mi fai pena» ha detto a Nicola prima che lui le infilasse la lama nel petto. Erano in quattro, senza cuore e senza pietà e lei non aveva scampo. Chissà su quale dettaglio di quel posto squallido ha chiuso i suoi occhi per sempre…
Dopo tutti questi anni le sentenze sono diventate definitive. Per Mattia, condannato a 10 anni di reclusione, è quasi tempo di libertà. Per Nicola i giudici hanno deciso 18 anni di cella, per Nico 15, per Giovanni Erra 30. Nel 2007 la cascina del delitto è stata abbattuta, al suo posto adesso c’è un residence che si chiama «Cascina Desirée», perché nessuno dimentichi mai questa storia «di una violenza inaudita» come dice l’ex procuratore minorile.
Quaranta ricorda se stesso mentre annotava una traccia per la requisitoria. «Pensai: come faccio a descrivere tutta questa crudeltà? E mi venne in mente un’espressione che poteva contenerla: parlai di anestesia etica e sono ancora convinto che sia stato davvero così. Quei ragazzini non avevano minimamente la percezione di quanto fosse grave ciò che stavano facendo. Non hanno mai versato una sola lacrima, mai una sola parola di pentimento… delle pietre inanimate. Dissi ai giudici che in quei giovani imputati c’era un’angosciante normalità del male. Dopo 44 anni, 6 mesi e 22 giorni di lavoro io sono andato in pensione nel 2010. La storia della povera Desirée e l’inumanità dei protagonisti restano fra le cose più sconvolgenti di cui mi sia mai occupato».

Il Corriere della Sera 08.08.12

"Monti sfotte Berlusconi sullo spread Il Pdl strilla e minaccia, ma è fumo", di Francesco Lo Sardo

«Col governo del Cavaliere saremmo a quota 1200». E il formicaio dei berluscones impazzisce
Ennesimo dramma a base d’indignazione, rabbia, isteria e impotenza. Ingredienti ben noti nella cucina di palazzo Grazioli, dove ieri sera un annoiato Berlusconi – che ha tuttavia dovuto fingere indignazione di fronte al teatrino dei ras del Pdl autoconvocatisi a casa sua – ha dovuto stancamente ascoltare, ancora una volta, le irose geremiadi dei suoi contro Monti, reo, stavolta, di aver commesso un peccato politico mortale: cioè aver preso per i fondelli il Cavaliere sullo spread. Già, perché a sole ventiquattr’ore dal deflagrare della frase montiana a Der Spiegel sulla necessità di un rapporto flessibile governi- parlamenti, ecco il botto di quella pronunciata dal premier italiano in un’intervista al Wall Street Journal, rilasciata un mesetto fa, subito dopo il vertice europeo del 28 e 29 giugno: «Se il precedente governo fosse ancora in carica, ora lo spread italiano sarebbe a quota 1200 o qualcosa di simile».
Apriti cielo. Il Pdl mette in scena, sulla falsariga della gheddafiana giornata della rabbia anti-italiana, la propria giornata della collera anti-Monti. Collera un po’ stitica, a giudicare dai suoi effetti pratici e concreti. Primo, al senato scatta una grottesca rappresaglia per cui la mancanza del numero legale dei pidiellini fa rinviare a settembre la ratifica di un non esattamente vitale Protocollo Trasporti delle Alpi; secondo, a Montecitorio ecco l’approvazione di un marginale ordine del giorno sulla sicurezza Pdl-centristi contro il parere del governo; poi l’entusiastica fuga in massa anticipata dalla camera (ieri era l’ultimo giorno di seduta prima delle vacanze) che ha innalzato a quota 84 deputati il non-voto del Pdl alla fiducia sulla spending-review.
Mai protesta parlamentare si sposò più evidentemente – e felicemente – col desiderio di relax dopo mesi di sofferenze e di fatiche. E dire che teoricamente le premesse per uno scontro nucleare Pdl-Monti c’erano tutte. Appreso dello sberleffo di Monti al Cavaliere, i berluscones all’unisono (dai capi e vicecapigruppo Cicchitto, Gasparri, Quagliariello, agli ex ministri, a Larussa, all’ineffabile Angelino Alfano, giù giù fino all’ultimo peon mentre Berlusconi taceva) erano partiti dall’intimazione a Monti a rimangiarsi l’oltraggio sullo spread e a imparare a tenere chiusa la bocca, fino alla minaccia di staccare la spina al governo, pronti alle elezioni anticipate. Naturalmente soltanto aria fritta.
Perché tra la teoria dello staccare la spina e la pratica dell’inghiottire il boccone amaro c’è la difesa degli interessi aziendali del Cavaliere che gli fanno tener su il governo Monti. Per Berlusconi è stata più che sufficiente un’ufficiosa nota di precisazione e, soprattutto, una telefonata di chiarimento da parte di Monti. «Mi dispiace che una banale estrapolazione di tendenza di valori dello spread in un mio colloquio col WSJ sia stata colta come una considerazione di carattere politico, questo non era per nulla nelle mie intenzioni», ha assicurato il premier a Berlusconi. Il quale Berlusconi non crede affatto al candore montiano e lo sospetta di malevola perfidia, ma finge di credergli: così come, più tardi, reciterà la parte dell’indignato di fronte ai fegatosi ras del Pdl.
Sempre lì sta il nocciolo. A Berlusconi, le cui aziende vanno malissimo, serve Monti: per cui il governo va avanti. Il resto, cioè il berciare del Pdl, conta zero. Tanto che Monti può permettersi di rigirare il coltello nella piaga facendo filtrare che «la stima dello spread a 1200 viene da una proiezione degli effetti della speculazione sul’Italia se non si fosse dato segno di discontinuità»: lo spread, con Berlusconi agonizzante tra i ricatti incrociati di Lega e Tremonti, era salito dai 150 punti di maggio ai 550 di novembre.
Sotto le macerie di ieri, come sempre, c’è rimasto il povero Alfano: oggi avrebbe dovuto incontrare Monti per illustrargli una proposta del Pdl per l’abbattimento del debito pubblico. Ma si può mantenere l’appuntamento a palazzo Chigi come nulla fosse accaduto, dopo la sonora pernacchia di Monti? Perciò ruggiva ieri Angelino: «Tutto ciò è inaccettabile. Se ci riesce, Monti provi al più presto a spiegarsi». Sennò, l’incontro con il premier salterà. Accidenti, che guaio.

da Europa Quotidiano 08.08.12

"Il professore parla ai mercati non ai politici", di Marcello Sorgi

All’inizio dell’agosto più temuto degli ultimi anni, per i frequenti rovesci dell’Italia sui mercati, un caso politico come quello che s’è aperto ieri tra Monti e il centrodestra non era proprio da augurarsi. L’intervista in cui il premier ha detto tra l’altro che, senza il passaggio di discontinuità tra il suo governo e quello precedente, lo spread sarebbe arrivato a quota 1200, ha provocato reazioni di protesta del Pdl, che al Senato ha fatto mancare il suo appoggio. E ha reso necessaria una telefonata di chiarimento tra lo stesso premier e Berlusconi, preceduta da una nota in cui Palazzo Chigi spiegava che non c’era alcuna intenzione di attaccare il Cavaliere. Ma al di là del nervosismo, sempre presente, nella base parlamentare e in parte del gruppo dirigente del Pdl nei confronti del Pr ofessore, un interrogativo ieri è rimasto a lungo sospeso.

Nel clima rarefatto della conclusione dei lavori parlamentari e nell’attesa di una pausa feriale che praticamente non ci sarà, la domanda è cosa ha spinto Monti, nel giro di pochi giorni, a rendere più accidentato del solito il cammino del suo governo con due interviste consecutive come quelle a «Der Spiegel» e al «Wall Street Journal». Interviste importanti e piene di cose, perché Monti ha un suo personale codice di comunicazione, e se sceglie di parlare raramente si occupa di questioni contingenti. Ma che tuttavia, seppure in parte contro la sua volontà, hanno determinato reazioni pesanti, costringendo il presidente del Consiglio a correre ai ripari.

Ieri appunto nei corridoi parlamentari, dove fioriscono spesso fantasiosi retroscena, c’era chi attribuiva quelli che a molti occhi politici consumati sono apparsi come infortuni alla stanchezza del premier e alle fatiche che ha dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra inevitabili scadenze parlamentari indispensabili per tradurre in realtà la strategia anti-crisi del governo, road-show europei e internazionali per spiegare ad osservatori qualificati il senso del suo lavoro e delusioni per i risultati avari ottenuti finora sul fronte dei mercati, su cui l’Italia da quasi un anno sta combattendo la sua battaglia. È una spiegazione diffusa ma poco convincente, che tende ad assimilare Monti a tutti i governi che lo hanno preceduto e dei quali, con lo stesso cinismo, con la stessa approssimazione, a un certo punto s’è cominciato a dire che erano «cotti».

La verità è che il premier ha detto quel che ha detto nelle sue interviste per ragioni esattamente opposte. Per capirlo bisogna considerare che Monti, sia quando parla alla Camera e al Senato, sia quando si trova all’estero, ha davanti a sé lo stesso orizzonte. Un orizzonte non solo nazionale, ma europeo e in qualche modo globale, dato che non gli sfuggono, ed anzi gli sono costantemente presenti, le dimensioni e i risvolti della crisi economica mondiale. E all’interno del quale, a dispetto di quel che appare, l’Italia da qualche mese grazie ai suoi sforzi è guardata con rispetto e considerazione che non si vedevano da tempo. È a questo nuovo atteggiamento – meno esplicito, meno emergente spesso dell’immagine negativa che il Paese si porta dietro che Monti guarda, cercando di corrispondervi. È questo il motivo per cui insiste sul necessario «cambio di mentalità» degli italiani.

Se ne ricava che quando parla a un giornale o a una tv, stranieri o italiani, Monti segue un suo filo di ragionamento e non si preoccupa delle conseguenze che le sue affermazioni possono provocare ai margini del sistema politico. Vale per la Germania, nel senso che non lo hanno preoccupato i toni elettorali anti-italiani di alcuni politici tedeschi, mentre ha accolto con soddisfazione il gradimento della Merkel alle sue parole su «Der Spiegel». E vale anche per l’Italia. Non solo perché era evidente che i destinatari dell’intervista al «WSJ» non erano i senatori del centrodestra, ma i lettori più attenti dell’autorevole giornale finanziario americano (che non a caso ha presentato l’articolo con l’aggiunta di una serie di analisi e di pareri sul nuovo corso italiano). Piuttosto perché nessuno, a cominciare dagli esponenti del Pdl che lo hanno attaccato, può seriamente dubitare che Monti, per risultare più credibile, debba ricorrere all’antiberlusconismo. Argomenti del genere, semplicemente, non gli appartengono e neppure lo interessano. Li lascia volentieri ai politici che li usano tutti i giorni nella loro campagna elettorale. Ma se ritiene di dover dire che senza il cambio di governo lo spread sarebbe peggiorato, lo dice e basta. Perché pensa, e vuol far capire in tutte le occasioni possibili, che accanto all’Italia che non vuol fare il proprio dovere e ha nostalgia di un passato irripetibile, ce n’è un’altra che a furia di sacrifici sta venendo fuori. La sua Italia, l’Italia di Monti.

La Stampa 08.08.12

"La verità tedesca sull'Europa di domani", di Eugenio Scalfari

Molti politici tedeschi, a cominciare dal presidente del Bundestag, dal leader bavarese del Csu, dal ministro liberale del Tesoro, si sono fortemente adontati della rivendicazione di Mario Monti (intervista al prestigioso “Spiegel”) del ruolo decisivo dei governi rispetto a quello dei Parlamenti. La Germania – hanno detto – non rinuncerà mai alla democrazia parlamentare, la sua stessa storia (Hitler) le impone una tale irrinunciabilità.
Questa è stata la reazione della classe dirigente tedesca, socialdemocratici compresi. E questa è stata anche la reazione delle opposizioni populiste italiane (Grillo, Di Pietro, Lega) ed anche d’una parte consistente dei “berluscones”, ulteriormente irritati a causa della successiva intervista di Monti al “Wall Street Journal” nella quale il Presidente del Consiglio ha ripetuto giudizi del tutto ingiustificati sulla concertazione con i sindacati ed ha pesantemente criticato l’affidabilità del precedente governo salvo scusarsene subito dopo con lo stesso Berlusconi. Dopo queste svariate e forse troppo numerose esternazioni Monti ha comunque incassato l’ennesima fiducia sulla revisione della spesa: un altro compito a casa portato a buon fine.
Ma c’è un’altra dichiarazione, non connessa con l’intervista di Monti ma molto pertinente con il tema da lui sollevato. L’ha rilasciata il presidente della Bundesbank Jens Weidmann subito dopo la riunione del consiglio direttivo della Bce. Eccone il passaggio centrale: «Siamo la Banca centrale più grande e più importante dell’Eurosistema e la nostra opinione conta più di quelle delle altre Banche centrali dell’Eurosistema. Questo vuol dire che abbiamo un ruolo diverso ».
Il bersaglio di Weidmann non è Mario Monti ma Mario Draghi, tuttavia “tout se tient” e questo spiega perché Draghi ha dovuto condizionare i suoi interventi sul mercato secondario dei titoli a breve scadenza alla richiesta d’aiuto che Monti dovrebbe fare al fondo “salva Stati” per consentire alla Bce di procedere ad acquisti “illimitati” di quei titoli. La classe dirigente e l’opinione pubblica tedesca vogliono “l’inchino” dei Paesi mediterranei alla politica della Bundesbank. La Grecia, il Portogallo ed anche la Spagna quell’inchino l’hanno già fatto. Il governo Monti ha accettato di fare i compiti in casa di propria iniziativa ma, almeno per ora, l’inchino rifiuta di farlo. E questo è il nocciolo del problema.
I mercati da lunedì ad oggi reagiscono in positivo; evidentemente ritengono che nei prossimi giorni anche Monti si inchinerà consentendo a Draghi di entrare in scena.
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Ma che cosa ha detto in realtà allo “Spiegel” il nostro presidente del Consiglio? Il comunicato emesso da Palazzo Chigi dopo le proteste tedesche non spiega molto; fa un po’ di retromarcia più di forma che di sostanza riconfermando il suo rispetto per i Parlamenti in generale e per quello italiano in particolare. Eppure non era e non è affatto
difficile cogliere l’essenza del suo pensiero. In un regime di democrazia parlamentare (con la sola eccezione della Francia presidenzialista) il governo ha il compito non esclusivo ma preminente di governare (lo dice la parola stessa) e il Parlamento ha il compito non esclusivo di controllarlo. Gli atti del governo debbono comunque essere approvati dal Parlamento. Ciò significa che sia l’uno sia l’altro dei due soggetti politici deve tener conto delle opinioni pubbliche nazionali dando ad esse la prevalenza su un’opinione pubblica europea che allo stato dei fatti è inesistente.
La Comunità europea si regge da sessant’anni su un sistema intergovernativo, in particolare l’Eurosistema formato da 17 Paesi confederati, da una moneta comune e da una Banca centrale con poteri più deboli delle altre Banche centrali dell’Occidente. Per di più, come abbiamo
già detto, la Bce è fortemente condizionata dalla Banca centrale tedesca.
Ma poiché l’intero Occidente attraversa da cinque anni una crisi finanziaria epocale e la sua economia reale è da due anni in recessione e probabilmente lo resterà per altri due, si è reso indispensabile passare dalla Confederazione alla Federazione, sia pure limitata al governo comune dell’economia.
A questo punto di svolta i governi e i Parlamenti dovrebbero scegliere tra la Federazione o la continuazione del regime intergovernativo. Questo e non altro che questo ha detto Monti. In realtà non c’era neppure bisogno che lo dicesse perché è una realtà imposta dalla forza dei fatti e tutti – perfino la Francia della “grandeur” – hanno dovuto riconoscerlo. Quanto alla Germania, se ne è fatta addirittura la promotrice ma ad una condizione: l’egemonia tedesca su tutto l’Eurosistema e chi ci sta ci sta.
Monti non ha affatto negato il ruolo decisivo dei Parlamenti e tanto meno dei governi nazionali, ma ha messo in chiaro che da ora in poi – per decisione unanime – si sta lavorando per effettuare graduali ma fondamentali “cessioni di sovranità” alla costituenda Federazione. Resta il problema dell’egemonia tedesca.
Non sappiamo come la pensi il nostro presidente del Consiglio in proposito.
Probabilmente considera inevitabile che nella fase iniziale di questo processo quell’egemonia sia necessaria. Storicamente è sempre stato così, il passaggio dalle confederazioni agli Stati federali è sempre avvenuto per iniziativa di una forza egemone. Ma nel prosieguo il tempo modifica le situazioni, l’opinione pubblica europea acquista consistenza, gli interessi federali hanno la meglio su quelli pre-esistenti. E tanto più sarà così nel quadro d’una economia globalizzata a livello planetario, con flussi continui di capitali, tecnologie, divisione del lavoro, diritti di cittadinanza e interessi sociali in perenne mutamento; con istituzioni logore da abbattere e con tradizioni, culture e memorie da rivisitare e conservare.
Ho citato le dichiarazioni di Monti e anche quelle del presidente della Bundesbank, ma voglio chiudere queste mie riflessioni citando un bellissimo articolo di Melania Mazzucco pubblicato ieri dal nostro giornale. E’ intitolato “La resistenza di Omero” e conclude così: «Sulla bilancia della storia pesano di più i nomi dei filosofi, degli scrittori e dei matematici che hanno inventato il nostro modo di pensare il mondo, Socrate e Aristotele, Democrito e Pitagora, oppure milioni di obbligazioni e titoli di Stato? Un quintale di paglia pesa come un quintale di piombo ma la parola libertà per me peserà sempre di più della parola default».
Sono interamente del suo parere.

La Repubblica 08.08.12

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“MA IO TEMO CHE LA BCE NON BASTI”, di ALBERTO BISIN

La BCE per statuto non puo’ intervenire sui rendimenti dei titoli dei Paesi membri operando direttamente sul mercato secondario. Ma è da tempo ormai in Italia che su questo punto la Bce è sottoposta ad intense sollecitazioni da parte di governo e opinione pubblica.
Gli argomenti addotti a favore di un intervento della Bce sugli spread (cioè sui rendimenti relativi tra Paesi) sono sostanzialmente due, di carattere sia formale che sostanziale. Fossero solo esercizi retorici, componenti del dibattito sulla politica monetaria in Europa, non vi sarebbe molto da rimarcare. Ma pochi giorni addietro il governatore della Banca d’Italia, in una intervista a Massimo Giannini, ha dato supporto a queste argomentazioni, con cautela ma anche con grande chiarezza; vale la pena allora di analizzarle in un certo dettaglio.
I rendimenti sui titoli sovrani oggi inceppano il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, e su questo lo statuto non impedisce di intervenire. Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria riferisce, ad esempio, a come riduzioni dei tassi o iniezioni di liquidità abbiano gli effetti desiderati sull’offerta di credito e quindi (a breve) su consumi ed investimenti. Questo meccanismo opera attraverso il sistema bancario e più in generale attraverso quello finanziario, specie attraverso il mercato interbancario. Se il meccanismo si inceppa sono problemi, non solo perché la politica monetaria fatica ad aver effetti, ma soprattutto perché se si inceppa il sistema bancario, se il mercato inter-bancario si congela, si finisce in un credit crunch, una situazione in cui le banche riducono i prestiti a famiglie e imprese l’economia tende a bloccarsi. I rendimenti sui titoli sovrani oggi non sono i rendimenti di mercato. I rendimenti sui titoli (ad esempio italiani) non rappresentano (solamente) la loro probabilità di default ma (includono anche) il rischio che crolli l’intero sistema monetario Euro. Il governatore chiarisce bene questo punto: il rischio che l’Euro crolli, egli sostiene, è «qualcosa di esogeno rispetto ai fondamentali dell’economia degli stessi Paesi». L’aspetto formale della prima argomentazione sembra un’operazione logica: lo statuto non permette l’operazione X, ma se noi diciamo che non facciamo X ma che facciamo X solo come mezzo per ovviare a Y, allora tutto si risolve. Ma al di là degli aspetti formali, il dramma sostanziale è che Y, cioè l’inceppamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria e del sistema bancario, va affrontato davvero al più presto. Non vi è dubbio che il Paese si trovi in un credit crunch, l’attività produttiva è in parte bloccata dalla mancanza di credito a famiglie e imprese. Ma allora non sarebbe meglio agire direttamente sul sistema bancario, cosa che la Bce può fare senza forzare il suo statuto? Il credit crunch in Italia è dovuto in buona sostanza al fatto che le banche hanno utilizzato una larga parte delle proprie risorse per acquistare titoli sovrani invece che per concedere credito (tra l’altro proprio a questo si deve il fallimento delle Ltro, le iniezioni di liquidità con cui la Bce ha cercato la scorsa primavera di
ravvivare il mercato del credito bancario). Non v’è dubbio che la situazione sui mercati dei titoli danneggi le banche in questo momento, ma intervenire sui rendimenti dei titoli senza intervenire più efficacemente sul sistema bancario sembra una strategia atta a nascondere il vero obiettivo di tali interventi: finanziare anche solo a breve il debito dei Paesi messi sotto tensione dai mercati. Anche la seconda argomentazione non mi pare a tenuta completamente stagna. Non v’è alcun dubbio che gli spread oggi contengano una componente dovuta al rischio che l’Euro crolli. Ma questo rischio è determinato dal fatto che le prospettive di crescita delle economie del Sud dell’Eurozona sono alquanto misere (gli interventi di politica fiscale, nella mancanza di tagli strutturali alla spesa, rischiano di condurre queste economie all’asfissia da carico fiscale). I mercati quindi scontano l’eventualità che la Germania, posta davanti al fatidico “lascia o raddoppia”, decida di lasciare, uscendo dall’Euro invece di accollarsene i debiti. Questo rischio non pare affatto “esogeno”: esso rappresenta invece, a mio parere, la conseguenza delle scelte di politica economica di alcuni Paesi dell’EuroZona, Italia inclusa, che stanno (purtroppo) coerentemente minimizzando gli interventi atti a riaggiustare la propria posizione fiscale e competitiva (“noi abbiamo fatto i nostri compiti a casa”) e allo stesso tempo stanno perseguendo azioni politiche e diplomatiche tese a gettare sulla Germania il maggior peso possibile della crisi.
Lo statuto della Bce include il divieto di intervenire sul mercato dei titoli sovrani non per capriccio, ma per solide ragioni economiche. In un contesto istituzionale come quello dell’Unione Europea in cui le decisioni di spesa sono decentrate ai singoli Stati, sono necessari vincoli e incentivi che garantiscano una sostanziale convergenza delle politiche fiscali dei Paesi membri. I parametri del Trattato di Maastricht avevano questa funzione, quella di opporre una prima diga a politiche fiscali irresponsabili. Una seconda diga è rappresentata proprio dai vincoli all’azione della Bce, atti a garantire che i costi di eventuali politiche fiscali poco responsabili di alcuni non possano essere divisi tra tutti i Paesi membri. Come ben sappiamo i parametri di Maastricht sono stati disattesi (Francia e Germania sono responsabili di uno spiraglio che altri, tra cui il nostro Paese, hanno poi spalancato). Molta più cautela, a dir poco, è necessaria prima di far saltare la seconda diga.
Tutta l’attenzione e la speranza riposta da governo, opinione pubblica e giornali sulle doti taumaturgiche delle istituzioni di politica monetaria è a mio parere mal riposta. Nella situazione del Paese oggi non vi sono sostituti monetari indolori ai necessari interventi di politica fiscale. È una dura realtà ed è necessario svegliarsi al più presto, senza perdere altro tempo.

La Repubblica 08.08.12

Bersani: "Possiamo vincere le elezioni ma non possiamo chiuderci nell'autosufficienza"

«Il campo dei progressisti lancia una proposta a quelle forze centriste europeiste e costituzionali che vogliono far da argine al populismo. Un dialogo ci può essere, ma io organizzo il campo dei progressisti. La nostra disponibilità è larga ma dipenderà anche dal sistema elettorale con cui voteremo». Nell’intervista di questa mattina, nel corso della trasmissione “Uno mattina”, Pier Luigi Bersani ha risposto alle domande sui principali temi di attualità politica a livello nazionale ed europeo. Alla proposta avanzata nei giorni scorsi da Pierferdinando Casini di fare una alleanza tra progressisti e moderati dopo il voto delle prossime politiche il segretario del Pd ribadisce che “noi da due anni abbiamo le idee molto chiare – afferma Bersani – Il campo dei progressisti lancia una proposta a quelle forze centriste europeiste e costituzionali che vogliono far da argine al populismo. Un dialogo ci può essere, ma io organizzo il campo dei progressisti: noi possiamo vincere le elezioni ma non possiamo chiuderci nell’autosufficienza – e che comunque – la nostra disponibilità è larga ma dipenderá anche dal sistema elettorale con cui voteremo”.

Al tema dell’alleanza delle forze progressiste in vista delle prossime politiche, Pier Luigi Bersani ha aggiunto che con Vendola si è aperto un discorso positivo per un governo garantito dalla responsabilità di ricomporre i dissenzi, specificando che “con Vendola abbiamo aperto un discorso positivo e ci siamo detti una cosa: stavolta non è solo una questione di alleanze e di partiti, io non lavorerò solo su questo ma anche sul tema della responsabilitá. Chi si mette insieme per governare deve garantire che di fronte ai problemi del dissenso, c’è un modo per ricomporli”.

In merito ai rapporti con l’Idv, Pier Luigi Bersani ha ricordato che “a Vasto dissi chiaro e tondo che stavolta scherzi agli italiani non possiamo farne. O si trova il modo di andare d’accordo o ci si riposa. Di Pietro mi raffigura come uno zombie, mentre io non ho mai detto una parola meno che amichevole su di lui. Evidentemente ha fatto un’altra scelta. Sta correndo dietro a Grillo, insulta il presidente della Repubblica, se ne inventa una al giorno e questo francamente non va bene”.

Sulla polemica innescata, negli ultimi giorni, dall’intervista a Mario Monti dello Spiegel , Bersani ha voluto precisare che “c’è molta polemica su una frase che forse poteva essere detta meglio. Monti con tutta evidenza voleva dire che i parlamenti devono lasciare dei margini di trattativa ai governi. Sospetto che tutta questa indignazione nasconda in realtá un altro piccolo imbarazzo, perchè nell’intervista al Der Spiegel il presidente del Consiglio ricorda che la Germania a noi non ha dato un euro e che, anzi, con lo spread così alto per la Germania è un bel vantaggio. Monti ha poi ricordato che nella solidarietà a Irlanda, Grecia e Portogallo noi, in proporzione al PIL, abbiamo dato piú di qualunque altro”.

Ha continuato, spiegando che il Presidente del Consiglio “ha ricordato che ognuno deve fare i compiti a casa, che noi -ha continuato Bersani- per dieci anni non li abbiamo fatti e quindi dobbiamo rimontare. Tuttavia anche la Germania deve essere piú consapevole di quanto abbia guadagnato in questa situazione, quali responsabilitá abbia anche sul piano generale, politico. Perchè il grande patto della riunificazione tedesca ha concluso il leader Pd- fu fatto in una prospettiva di equilibrio tra una Germania grande e un’Europa che doveva integrarsi”.

Alla fine dell’intervista, Pier Luigi Bersani ha sollecitato il Governo, nelle persone di Mario Monti, Corrado Passera oppure anche Giulio Terzi per capire quale futuro sia riservato alla Fiat. “Io ho fatto il ministro e so che il ministro ha una sola soddisfazione: che se chiama le aziende, quelle devono venire al ministero. Poi diranno quello che vogliono, ma intanto le devi chiamare. E allora vogliamo chiamarlo questo Marchionne, e farci spiegare sul serio quello che vuol fare?”.

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"Decreto legge di revisione della spesa pubblica (spending review) approvato alla Camera dei Deputati: dichiarazione di voto di Pier Paolo Baretta (PD)

Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, voteremo a favore del provvedimento di revisione della spesa pubblica, innanzitutto perché condividiamo la scelta di aggredire le inefficienze e gli sprechi tuttora presenti nello Stato e nella pubblica amministrazione. Tagliare gli sprechi, infatti, è giusto. I cittadini, che stanno facendo pesanti sacrifici, chiedono – e hanno il diritto di farlo – che arrivino loro messaggi espliciti che si fa sul serio. Ciò fa parte di quella politica dell’equità che è alla base del Governo Monti e sulla quale più volte, in questi mesi, abbiamo richiamato l’Esecutivo. Sappiamo che non è una scelta facile, una strada scontata: come per le liberalizzazioni, le resistenze si annidano ovunque, ma vanno battute, e finalmente il Governo ha cominciato, e i limiti presenti nel provvedimento non annullano l’importanza di questo avvio.
Voteremo a favore anche perché contenere e razionalizzare la spesa pubblica non solo è giusto, ma anche assolutamente necessario. La crisi economica è grave ed è urgente la necessità di recuperare risorse per ridurre il nostro debito pubblico e liberarne altre per favorire la crescita e gli investimenti. Gli impegni europei che ci attendono sono stringenti ed il Fondo «salva Stati», che rappresenta un successo internazionale del nostro Governo e che ha reso più realistica la linea di salvataggio non soltanto dei singoli debitori, ma dell’euro stesso, non ci esonera da uno sforzo tutto nostro. Così come questa crisi ci impone una particolare attenzione alle crescenti difficoltà sociali di reddito e occupazionali. Il Governo, su nostro stimolo, ha fatto molto, anche con questo provvedimento, per ampliare la copertura per gli esodati, ma non è sufficiente. Nessuno – e sottolineo nessuno – può restare senza protezione in balia di una congiuntura così pesante (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Servono, dunque, nuove ed ingenti risorse, ma la strada di agire sulle entrate è esaurita. Il Governo Monti lo ha fatto nel suo primo provvedimento, il «salva Italia», obbligato dai vincoli contratti dal precedente e fallimentare Esecutivo, ma, come ha dichiarato lo stesso Presidente del Consiglio, la via delle tasse non è più praticabile. A dire la verità, lo spazio per richiedere un contributo straordinario ai grandi patrimoni vi è, ed appare ancor più giustificato alla luce di scelte sbagliate, come, ad esempio, l’aumento delle tasse universitarie (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Scelte sbagliate ed addirittura sgradevoli dato che – dispiace dirlo, ma va detto – il Governo ha modificato unilateralmente un accordo, fatto in Commissione, che le riduceva. Ma in generale non si può imporre agli italiani, almeno a quelli che le pagano, ulteriori tasse. La pressione fiscale è sin troppo alta e, semmai, è arrivato il momento di pensare alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro e sull’impresa. Ecco, dunque, l’importanza di una buona revisione della spesa. In quest’ottica è importante la scelta fatta di sostituire le maggiori entrate, che sarebbero affluite dall’aumento dell’IVA, ma che avrebbe penalizzato i consumi, già pesantemente contratti, con le minori uscite che derivano dall’intervento sulla spesa. Con lo stesso approccio apprezziamo l’introduzione delle agevolazioni fiscali per la ricostruzione delle aree terremotate. Ma la bontà della spending review è il risultato di un processo delicato che vogliamo affrontare collaborando preventivamente con il Governo, non soltanto approvando proposte emendative e provvedimenti che, necessariamente, in Parlamento, per ragionevoli ragioni di necessità ed efficacia, hanno poco tempo disponibile.
Il Governo ha potuto misurare, in questi mesi, la lealtà della maggioranza ed indubbiamente del Partito Democratico, ma anche la nostra capacità, la capacità del Parlamento – direi, per restare in tema, la sua flessibilità – di intervenire per migliorare le manovre presentate. La revisione della spesa, infatti, non si esaurisce con questo atto. Questo è già il terzo di un percorso, e la confluenza in itinere, in questo provvedimento, di quello relativo alle dismissioni, ci dice quanto sia impegnativa la strada intrapresa ed ancor più quella che ci attende. Sono, infatti, già annunciati in agenda altri importanti capitoli relativi alle agevolazioni fiscali e a i contributi pubblici. Il Governo colga in positivo il messaggio che vogliamo lanciare qui oggi: rendiamo evidente e trasparente ai cittadini l’intero percorso e gli obiettivi che vogliamo raggiungere. Se i provvedimenti si discutono necessariamente uno alla volta, il disegno complessivo sia chiaro e si gestiscano gli intrecci che si determinano tra i vari capitoli. La trasparenza è alla base della responsabilità e la responsabilità è la capacità di guardare dentro i problemi ed affrontarli per quello che sono davvero. La revisione e la razionalizzazione della spesa pubblica è, infatti, un obiettivo ambizioso, che interferisce con la diffusa rete di servizi pubblici, che assicura una risposta ai bisogni essenziali della popolazione. Per questo motivo non va assolutamente praticata la strada dei tagli lineari, soprattutto quando parliamo di sanità e di patto per la salute, che rappresenta un pezzo forte della spending review. La spesa sanitaria è cresciuta molto, in questi anni, ma complessivamente abbiamo una sanità anche assicura standard internazionalmente invidiabili e invidiati.
Si proceda, dunque, al risanamento, ma si dimostri di essere capaci di distinguere rigorosamente tra sprechi e servizi, tra virtuosi e viziosi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). L’accordo con le regioni, chiamate alla loro responsabilità dalla produzione di dati certi e dettagliati, non è un limite alla decisione, ma una condizione di praticabilità dell’obiettivo. O, quando parliamo di enti locali, a cominciare dai comuni, così tartassati in questi anni, diciamoci la verità: a cosa serve, in una situazione nella quale si vuole concretizzare uno sforzo collettivo di risanamento, essere vincolati dalla trappola di un Patto di stabilità che impedisce ai migliori di operare e deresponsabilizza i peggiori (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)?
È arrivato il momento, davvero è arrivato, di affrontare insieme questo problema. In questo provvedimento si è operato un intervento calmieratore, ma sono le regole che non vanno. Modifichiamo, riformiamo il Patto, liberiamo i comuni, consentiamo loro di investire per fare manutenzione alle loro scuole, di agire con la dovuta prevenzione e tempestività a fronte del dissesto idrogeologico – e Dio sa quanto ce n’è bisogno – e di pagare i fornitori, immettendo così un po’ di liquidità nel mercato locale.
Infine, voglio richiamare l’attenzione sulla delicata questione dell’università e della ricerca. Non servono molte parole, signori del Governo, a chiarire il concetto. Ieri su Marte è sbarcata un po’ di tecnologia italiana e una immagine di Leonardo. Pochi giorni fa le cronache, non solo scientifiche, si sono occupate del contributo italiano alla scoperta del Bosone di Higgs. Ebbene, il tema è semplice: quale progetto abbiamo per il futuro del nostro Paese? A quale livello competitivo lo vogliamo collocare nel mondo? E, di conseguenza: quanto intendiamo investire per la nostra scuola, per l’educazione dei nostri giovani, per la loro specializzazione universitaria, insomma per il loro futuro (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)?
Il Ministro Giarda sa bene che negli anni la spesa pubblica è aumentata in quasi tutte le voci, salvo che nell’istruzione. Dovremmo dunque, anche nel campo della revisione della spesa, saper scegliere le nostre priorità. Il nostro voto favorevole, signor Presidente, è dunque un voto sincero ed onesto, un voto convinto dalla importanza e dalla ineludibilità della strada da percorrere, convinto della linea generale che il Governo Monti porta avanti per far uscire il nostro Paese dal tunnel, ma anche lucido nei problemi da affrontare, negli ostacoli da rimuovere e nelle correzioni di rotta da apportare, un voto rafforzato dall’impegno – che confermiamo – di voler essere protagonisti di questa importante fase di cambiamento e di riforme. Protagonisti, non spettatori (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico e del deputato Mario Pepe (Misto-R-A) – Congratulazioni).

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