attualità, cultura

"I miti perduti dell'estate", di Emanuele Trevi

Con le spiagge mezze vuote e le città mezze piene abbiamo perso in solo colpo due grandi avventure: sia chi partiva che chi restava viveva in una condizione particolare e inconfondibile, una specie di stato d’emergenza in cui le cose della vita acquistavano una risonanza particolare e fatti che mai sarebbero potuti accadere si verificavano con la facilità delle fiabe. Non c’è nemmeno posto per un’idea dignitosa del lavoro, che della vacanza è il contrario e il necessario presupposto. Benvenuti nell’età dell’ansia Mentre arriva dal deserto dell’Algeria un nuovo ventaccio bollente, il Drago Africano, a rendere ancora più micidiale la canicola, i dati statistici sulle vacanze rendono incontestabile quella che fino ai ieri poteva sembrare un’impressione, più o meno opinabile: solo quattro italiani su dieci, quest’anno, se ne vanno in vacanza. La buona notizia è che forse è arrivato il momento di mandare in pensione l’ormai insopportabile metafora biblica dell’Esodo. È come se sei Ebrei su dieci, invece di seguire Mosé nella Terra Promessa, se ne fossero restati al servizio del Faraone. Ma anche i patiti delle città deserte, quelli che in città sono sempre rimasti volentieri, sono costretti a ripensare radicalmente le loro convinzioni, e accontentarsi di qualche sabato pomeriggio. C’è troppa gente in giro, e troppi pochi giorni a disposizione, perché si rinnovi nella sua purezza la trasognata magia del Ferragosto a casa propria, coi suoi piaceri segreti e le sue improbabili casualità.
La nuova situazione avrà certamente i suoi motivi concreti, primo fra tutti l’assurda patologia economica in cui ci trasciniamo di anno in anno senza prospettive, ma i suoi riflessi sull’immaginario non sono meno perturbanti. Con le spiagge mezze vuote e le città mezze piene, insomma, abbiamo perso in solo colpo due grandi mitologie, o spazi narrativi. Sia la «grande vacanza» che l’estate in città sono state delle prodigiose miniere di racconti proprio perché erano due circostanze assolute, ben diverse da ogni altra, e dotate di una durata capace di farne percepire i più delicati riflessi psicologici. Erano, in una parola, due avventure nel senso più pieno della parola: sia chi partiva che chi restava viveva in una condizione particolare e inconfondibile, una specie di stato d’emergenza in cui le cose della vita acquistavano una risonanza particolare e fatti che mai sarebbero potuti accadere in altre situazioni si verificavano con la facilità delle fiabe.
Il primo grande scrittore che ha intuito tutto ciò è stato forse Dostoevskij nelle «Notti bianche». Ma chiunque abbia più di quarant’anni ha fatto esperienza diretta, che andasse o meno in vacanza, di questa potente sovversione estiva dei ritmi, dei valori, delle abitudini consacrate. Era forse l’ultima sopravvivenza moderna di millenarie forme di vita umana fondate su un senso acutissimo dell’avvicendarsi delle stagioni e delle loro necessità. Un irrimediabile stato di confusione si è insediato al posto di un’esistenza in cui ad ogni tempo erano assegnate delle prerogative. Il calendario è diventato il più inutile tra i relitti del passato che ci portiamo dietro per mera abitudine. A seconda degli stati d’animo individuali, o delle oscure pulsioni che si irradiano nel sistema nervoso del corpo sociale, ogni giorno contiene in sé quantità imponderabili di Carnevale e di Quaresima, di sabato e di lunedì.
Benvenuti nell’età dell’ansia. Sì perché è l’ansia il collante principale di questo stato di universale indistinzione. L’ansia esige per sé, in ogni singolo attimo della vita, tutte le possibilità della vita: la più irresponsabile leggerezza e il più plumbeo sentimento della fatalità, lo spreco e il risparmio, l’amore e la solitudine, l’ozio e la fatica. Quanto al tempo ed ai suoi ritmi necessari, c’è poco da fare: l’ansia conosce solo un futuro prossimo e minaccioso, da scongiurare con ogni possibile scaramanzia. Una cosa è certa: dove l’ansia regna sul mondo, non c’è posto per nulla che assomigli lontanamente a una vacanza in senso classico. Ma non c’è nemmeno posto per un’idea dignitosa del lavoro, che della vacanza è il contrario e il necessario presupposto.
Si rimane così, con il piede in due staffe, nella sconfortante uniformità dei giorni. E c’è da temere che se in virtù di qualche inconcepibile miracolo la crisi economica che oggi svuota gli alberghi e tiene a casa sei italiani su dieci cedesse il passo a un periodo di sicurezza e prosperità, il ritorno delle vecchie, radiose, interminabili vacanze non sarebbe così automatico. Dovremmo comunque imparare di nuovo che c’è un tempo per ogni cosa, e che le cose si fanno davvero solo una alla volta.

Il Corriere della Sera 05.08.12