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"Ma i sacrifici non sono stati inutili" , di Stefano Lepri

Guardando solo un numero, quello spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi che ormai tutti conoscono, siamo tornati ai livelli che fecero cadere il governo Berlusconi, nel novembre 2011. Inutili allora tutti i sacrifici che il governo Monti ci sta facendo fare, andare in pensione più tardi, pagare l’Imu, i prezzi cresciuti a causa della maggiore aliquota Iva, i tagli alle spese che si sentiranno via via? No. E’ una crisi dell’Europa questa – il timore che l’euro si spacchi – nel contesto di una economia mondiale ovunque peggio messa rispetto all’anno scorso, con gli Stati Uniti che stentano a ripartire, la Cina, l’India e il Brasile che rallentano. A dircelo sono sempre i numeri, se li guardiamo bene, se ne guardiamo più di uno.

Non è tornato alla stessa vetta del novembre 2011 il tasso di interesse che il Tesoro italiano paga: resta ancora di circa un punto sotto il massimo raggiunto allora. La differenza sta nel rendimento dei titoli tedeschi, i Bund , scesi a un livello bassissimo, innaturale. I capitali internazionali affluiscono verso la Germania perché lì, nel caso si fratturi l’euro, si rivaluterebbero. Pare razionale investirceli anche se rendono meno di zero.

Nel novembre 2011 la Spagna pagava interessi più bassi dei nostri, benché gli analisti finanziari di tutto il mondo sapessero benissimo che le sue banche stavano molto peggio di quanto le fonti ufficiali volessero far credere, e sospettassero che tra le sue regioni ci fossero – come ci sono – casi di dissesto ancora più gravi di quello della nostra Sicilia.

Invece il rendimento dei titoli di Stato francesi nelle ultime settimane è sceso, benché il bilancio pubblico sia in condizioni strutturali assai peggiori delle nostre. Ieri, i decennali transalpini fruttavano un interesse del 2,24%, poco più che sufficiente a compensare la prevedibile inflazione.

Nell’insieme di queste cifre si legge che la scommessa dei mercati è su una rottura dell’unione monetaria in cui la Francia resterebbe agganciata alla Germania. Alla Spagna invece risulta estremamente difficile procurarsi nuovi finanziamenti sui mercati, benché abbia un governo politico provvisto di una solida maggioranza, che sia pure tra molti errori ha adottato misure di austerità severe.

La crisi europea è il punto critico di un pianeta dove le forze traenti della crescita economica sembrano affievolite dappertutto. Può darsi che negli Stati Uniti esistano le risorse tecnologiche per un nuovo balzo, ma non si sbloccheranno prima che finisca l’attuale paralisi politica. La Cina non può conservare il suo ritmo mirabolante di aumento del prodotto lordo se non vuole riempirsi di nuove fabbriche che non sapranno a chi vendere, mentre deve elevare il benessere dei suoi cittadini.

I capitali per ripartire ci sono, tuttavia non riescono a trovare la strada dell’investimento produttivo. Sono pieni di denaro i forzieri del governo cinese, sono piene le casse delle grandi imprese in America, in Germania, e in molti Paesi emergenti: si riversano nelle scommesse pazze della finanza, rischiando di distruggere i delicati meccanismi dell’economia reale – imprese, lavoro, commerci che hanno permesso di accumularli.

Manca la fiducia, manca la speranza. Solo la politica può riaccenderle. Senza l’euro avremmo una democrazia ancora più limitata nei suoi poteri, ancora più condizionata dai mercati. L’Italia nel novembre scorso ha evitato di cadere nel baratro da sola, ora può solo farsi parte di uno sforzo comune per non caderci tutti insieme.

La Stampa 25.07.12

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“L’inutile attesa del salvatore straniero “, di FRANCESCO MANACORDA

C’ è un mito che aleggia in un’Italia dove fare industria è sempre più difficile: il mito di un salvifico ingresso di forze e denari freschi dall’estero per sopperire alle mancanze di una classe imprenditoriale locale.

Classe che non saprebbe – o peggio ancoranonvorrebbe-fareilsuomestierenei confininazionali.E’unmitospessocoltivato dalle parti del sindacato, ma che adesso viene ripreso anche – condendolo con una robusta dose di dirigismo – da esponenti della stessa classe imprenditoriale. In un intervento sul Sole 24 ore di ieri il presidente onorario del gruppo Cir Carlo De Benedetti spiega infatti diffusamente come l’Italia debba difendere le proprie imprese. Ma la difesa dell’industria pare coincidere in buona sostanzaperDeBenedetticonun’occhiutaattenzione alle mosse del gruppo Fiat – proprietario tra l’altro di questo giornale – sullo scacchiere globale, fino alla richiesta al governo di intervenire direttamente perverificaresecisiano«marchimondialichesiano interessati agli stabilimenti italiani di Fiat». Il tutto partendo dall’assunto che «il destino di gran parte delle produzioni Fiat in Italia è ormai segnato».

Forse però, più che concentrarsi sulle mosse della Fiat nel mercato globale e sugli ipotetici negoziati con Volkswagen o con altri produttori che sarebbero interessati a uno sbarco in Italia, converrebbe allargare lo sguardo alle difficoltà di un Paese che non solostentaadattrarregliinvestimentistranieri,ma rischia anche di spingere fuori dai propri confini, o dall’attività tout court, gli imprenditori nostrani. Il dibattito in corso in Italia ha invece il limite di concentrarsi su pochi soggetti, senza realizzare che l’intero sistema sta diventando meno attrattivo per gli investimenti, da qualsiasi parte essi provengano.

Costo del lavoro e dell’energia che piegano in partenza qualsiasi velleità concorrenziale rispetto a chi produce in altri Paesi, peso del fisco certificato tra i maggiori al mondo, carenza di infrastrutture fisiche e immateriali – dai trasporti, ai tempi della giustizia di cui proprio ieri ha parlato il presidente di Confindustria, alla corruzione che secondo la Corte dei Conti ci costa appunto il 16% degli investimenti esteri – sono le voci principali della lista di svantaggi obiettivi che ciascun imprenditore può stilare quando si parla delle condizioni in cui opera.

In alcuni casi si tratta di mali di lunga durata e antica origine, che hanno contribuito alla distruzione di interi settori dell’economia italiana. L’informatica, assieme alla chimica, è uno di questi, come De Benedetti ben sa, visto che proprio sotto la sua gestione la Olivetti – complice anche la scelta di rifiutare alleanze internazionali e di puntare su un anacronistico campioncino nazionale – è in sostanza sparita dallo scenario internazionale.

Altri mali nazionali sono più recenti, non vengono più coperti dalla lira che consentiva di usare l’arma dellesvalutazionicompetitive,osemplicementesiintensificano in tempi di concorrenza sempre più globale e di crisi senza confini. Ma l’effetto è univoco: rendere sempre più difficile produrre in Italia costringendo nei casi più estremi chi può a spostare la produzione altrove; chi non può a uscire definitivamente dall’industria. Nemmeno il sindacato, ovviamente, è esente da responsabilità. Intervistato dal «FinancialTimes»sullaforzadellaGermaniaeladebolezzadeiPaesimediterraneiBertholdHuber,capo dei metalmeccanici tedeschi della IG Metal, sostiene – scrive il giornale – che «il movimento sindacale spagnolo è complice nell’iperprotezione di quelli che hanno un lavoro a spese dei giovani che cercano un primo impiego». Vi ricorda qualche altro Paese?

Intendiamoci, non che fare impresa in Italia sia impossibile e non che le nostre aziende non possano interessare a gruppi esteri. L’ultimo esempio quello dell’Audi che ha acquistato Ducati, peraltro dalle mani di un fondo di private equity -, mostra che c’è mercato – di clienti e di compratori – per eccellenze nazionali con un marchio riconosciuto ovunque. Ma pensare che dove l’impresa italiana non riesce a competere la calata dello straniero abbia effetti miracolosi significa non solo far torto alle capacità della nostra classe imprenditoriale, ma anche semplificare pericolosamente la lettura di un sistema che per essere cambiato ha bisogno prima di tutto di essere capito. Anche e soprattutto nei suoi punti deboli.

La Stampa 25.07.12