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"Uccidono le riforme", di Vannino Chiti

Da settimane al Senato si è determinata una situazione politica inaccettabile: una doppia maggioranza. Sul sostegno del governo c’è l’impegno di Pd, Udc-Terzo Polo e Pdl. Sulla riforma della Costituzione si è ricostituita la vecchia maggioranza Pdl-Lega (Maroni si accorge che la Lega si muove in continuità con le strategie di Bossi?). La doppia maggioranza pesa anche nella gestione quotidiana: ieri la destra ha eletto il presidente della commissione difesa in contrapposizione a Pd, Udc-Terzo Polo e Idv. Cosi non si può andare avanti: è in gioco la stessa tenuta del governo.
Il Partito democratico si è assunto la responsabilità di dare il proprio appoggio leale a un governo chiamato ad affrontare l’emergenza economica e finanziaria. Sono già state adottate misure di risanamento che non sempre abbiamo condiviso dal punto di vista dell’equità. Per noi il primo obiettivo è la messa in sicurezza dell’Italia, il recupero della sua credibilità dopo la stagione nefasta dei governi Berlusconi-Bossi-Tremonti. Spetterà ad un governo formato da progressisti e moderati impostare, dopo il voto, un risanamento con più robusti connotati di giustizia sociale, politiche di sviluppo sostenibile e riforma del welfare. Non è però ammissibile il doppio gioco del Pdl, che utilizza le istituzioni per fare propaganda. Né il governo può limitarsi a non vedere, non ascoltare, non parlare. La questione deve essere affrontata con urgenza: riguarda lo stesso governo e i segretari dei partiti che lo sostengono.
Abbiamo il dovere di approvare una nuova legge elettorale per superare il Porcellum: quella che si sta mettendo in scena è una prova per cercare di vararla con la resuscitata maggioranza Pdl-Lega. Diciamo subito che è una strada impercorribile: imboccarla porta nel vicolo cieco della caduta del governo. Il Pdl ha la responsabilità di aver fatto di nuovo naufragare la riforma della Costituzione. Al senato si era raggiunta un’intesa tra Pd, Udc-Terzo polo e Pdl su un testo che conteneva la riduzione del numero dei parlamentari, un avvio di differenziazione dei compiti tra camera e senato, un rafforzamento del governo parlamentare. La riforma è morta perché il Pdl è venuto meno all’accordo: ha stipulato un patto con la Lega per l’introduzione di un “mostro istituzionale”, definito senato federale – una bandierina propagandistica – e del semipresidenzialismo.
Con un pugno di emendamenti, passando sopra la testa dei cittadini, vorrebbero stravolgere la Costituzione. Il Partito democratico, insieme all’Idv, di fronte a questo sfregio, ha deciso di abbandonare l’Aula fino al voto finale. A questo punto vi è una sola via di uscita, se si vuole almeno conservare la serietà che le riforme esigono: procedere con una legge costituzionale che riduca il numero dei parlamentari; attuare l’articolo 49 della Costituzione, che riguarda la natura giuridica dei partiti; approvare nuovi regolamenti parlamentari. Soprattutto bisogna concentrarsi su una nuova legge elettorale che assicuri ai cittadini la possibilità di scegliere con il voto maggioranze di governo e rappresentanti in parlamento.

da Europa Quotidiano 20.07.12

Scuola: Ghizzoni e Coscia (PD), servono tempi certi per immissioni in ruolo

Question time al Ministro Profumo. “Servono tempi certi per procedere, in tempo utile per l’avvio dell’anno scolastico 2012-2013, all’immissione in ruolo sia per il personale docente che per il personale amministrativo tecnico ausiliario. Il Ministro deve dare una risposta per avviare la risoluzione della grave situazione dei precari della scuola e garantire il diritto allo studio. – lo chiedono Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura alla camera, Maria Coscia, componente Pd della stessa commissione, in nel Question Time al ministro Profumo

Il Decreto Interministeriale, emanato il 3 agosto 2011, prevedeva – spiegano i deputati – per gli anni 2012-13 e 2013-14 l’immissione in ruolo di 22 mila docenti e 7.000 ATA ogni anno.

La situazione del personale precario nella scuola italiana impone un impegno serio per affrontare e risolvere in modo organico il problema: non solo per dare certezza di futuro e stabilità occupazionale ai dipendenti – concludono le deputate – ma anche, e soprattutto, per assicurare la continuità didattica e un corretto svolgimento dell’attività ordinaria delle scuole, che deve essere garantita dallo Stato ai cittadini.”

"Viaggio nell’Emilia che non si arrende", di Claudio Visani

Due mesi fa, il boato. E l’Emilia Romagna fu sconvolta dal terremoto. Dopo sessanta lunghi giorni viaggio nei paesi dove il sisma ha lasciato profonde ferite, c’è ancora chi aspetta di tornare nelle case e le istituzioni sono in prima linea per assistere i cittadini e lavorare per la ricostruzione. È già pronto il piano casa. E il presidente della Regione Vasco Errani dice: qui da noi non vogliamo le new town, faremo di tutto per ricostruire le zone colpite. Assicurare la regolarità del prossimo anno scolastico realizzando in due mesi una risposta provvisoria ma adeguata per i 18mila studenti che non avranno la scuola agibile a settembre. Poi, entro l’autunno, chiusura di tutte le tendopoli. Vogliamo dare a tutti i cittadini che hanno la casa inagibile una sistemazione dignitosa, transitoria, in attesa della ricostruzione. Niente new town. Non investiremo i soldi del terremoto per soluzioni provvisorie che poi diventano definitive. I moduli abitativi li prenderemo in affitto, massimo per due-tre anni. Ma ciò che più di ogni altra cosa serve ora è il riconoscimento dei danni e la garanzia delle risorse. Il governo finora ha avuto attenzione. Ma i 2,5 miliardi stanziati per il triennio 2012-2014 sono decisamente insufficienti. Non solo. Il decreto del presidente del Consiglio prevede contributi per la ricostruzione fino all’80% del danno subito da privati e imprese. Bisogna che chi ha diritto abbia la certezza che quel contributo l’avrà, che può andare in banca e ottenere le anticipazioni. Ma servono norme nazionali per garantirlo. Lavoro perchè il governo faccia questa scelta entro l’estate».

Eccole le priorità del presidente della Regione Emilia-Romagna e commissario straordinario per la ricostruzione, Vasco Errani. Le ha messe a punto con i sindaci, le ha comunicate al premier Monti, le conferma nel colloquio con il nostro giornale.

Scuole, imprese, case. Sono i tre grandi obiettivi della “road map” del governatore e della comunità emiliana ferita. «Questo terremoto è stato di una dimensione enorme dal punto di vista socio-economico – dice Errani – ha interessato un’area di 940 mila abitanti con servizi diffusi e coinvolto migliaia di imprese come mai era accaduto prima in Italia». Scuole, imprese, case: la voglia di ricominciare, di ricostruire, di tornare alla normalità parte da lì. E per ciascun comparto il commissario delegato ha voluto un piano preciso. Anzi, non il commissario ma la Regione, i Comuni, le Province, tutte le istituzioni. «Perché qui – dice Errani – non c’è un uomo solo al comando. Ci sono le istituzioni che lavorano assieme dimostrando la loro capacità di dare risposte ai problemi, ai cittadini».

Errani non lo dice esplicitamente: non ama le premogeniture e nemmeno le interviste, gli annunci e i bilanci per mettersi in mostra. Ma in quest’ultima sua affermazione c’è una triplice orgogliosa difesa: di questa terra, del tradizio nale buongoverno emiliano e della politica. «C’è stata una straordinaria reazione delle persone e della nostra società – scandisce – non si è aspettato l’intervento esterno ma ci si è messi subito in moto per ripartire. E’ il modo d’essere della nostra comunità. Per questo e per la strada che ha deciso di seguire, alternativa a quella dell’Aquila, l’Emilia può essere d’esempio all’Italia. Noi non chiediamo più soldi del dovuto allo Stato, non vogliamo miracoli, non invochiamo assistenza. Ma non accetteremo che venga sottovalutata la portata dei danni del terremoto». «Se a un cittadino è caduto un pannello – chiarisce Errani – lo deve rimettere al suo posto senza pretendere di ridipingere tutta casa con i soldi pubblici. Ma quello che lo Stato è giusto che dia lo deve dare. E noi dimostreremo che possiamo fare come e meglio dei tedeschi o dei francesi, col cuore e la passione di questa terra, che è il nostro valore aggiunto. Dimostreremo che è possibile gestire emergenze come questa senza fare creste, senza comitati d’affari, gente che ride pensando al business del terremoto. La ricostruzione dovrà avvenire nella massima legalità. Niente gare al massimo ribasso, massima trasparenza, white list per tenere lontane le organizzazioni criminali. Tutti devono concorrere a costruire un clima per cui chi non ha le carte in regola qui non possa lavorare. Questa è la nostra sfida».

Oggi scade il primo bando per i prefabbricati scolastici. Le iniziative per far ripartire l’economia sono già avviate. «Stiamo lavorando con le banche per assicurare crediti alle imprese a un tasso inferiore all’1%, per 15 anni», spiega Errani. L’anello ancora mancante, il piano casa sarà pronto entro una settimana o due. «L’obiettivo è soluzioni provvisorie dignitose e avviare subito la ricostruzione per poter diventare, come lo è stato anni fa il Friuli, un esempio per l’Italia».

L’Unità 20.07.12

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L’Emilia resiste. Due mesi dopo c’è il Piano casa

Se volete scoprire dove la politica non è morta e in prima linea c’è l’anti casta; se volete verificare che non è vero che sono tutti uguali, che c’è governo e governo, amministrazione e amministrazione; se volete consolarvi con la capacità di noi italiani e del nostro malandato Paese di riscoprire e dare il meglio di sé nei momenti più difficili, dovete farvi un giro in questi giorni nei paesi del terremoto in Emilia. Oggi sono trascorsi due mesi dalla prima terribile scossa di magnitudo 5.9 nella pianura tra Bologna, Ferrara e Modena, considerata fino ad allora a rischio sismico pressochè nullo. Era la notte del 20 maggio. Nove giorni dopo, il 29, alle 9 di mattina, con gli studenti a scuola e gli adulti al lavoro, un’altra botta micidiale, magnitudo 5.8 ma più in superfice, quindi più devastante. Bilancio complessivo, 26 morti, centinaia di feriti, 17mila sfollati, capannoni industriali non costruiti per resistere ai terremoti crollati sulla testa degli operai, interi centri storici gravemente lesionati.

Oggi, lungo l’itinerario della distruzione che va da Crevalcore nel bolognese, a Cento, Sant’Agostino e Bondeno nel ferrarese, da Finale Emilia a Mirandola e Novi passando per San Felice sul Panaro e Cavezzo nel modenese, si vedono ancora i mucchi di macerie delle antiche rocche, delle case più vecchie, delle chiese e dei campanili crollati (90 le richieste di smaltimento solo nel modenese), le “zone rosse” dei centri storici transennati, la devastazione sparsa nelle campagne dove sono venuti giù i capannoni agricoli e quelli industriali. Soltanto in questi ultimi, nelle fabbriche della ceramica e del biomedicale, le gru e gli operai sono al lavoro per ricostruire i tetti e “legarli” ai travi a cui prima erano solo appoggiati, tanto che con le scosse si sono aperti come fossero costruzioni dei Lego facendo precipitare le coperture e causando il maggior numero di vittime. I cantieri della ricostruzione delle case, delle scuole e dei palazzi pubblici, invece, ancora non ci sono.
«È questo che manca – dice Fernando Ferioli, giovane sindaco di Finale, uno dei centri più devastati dal sisma –: Regione e Protezione civile hanno fatto i salti mortali, il governo ha risposto, il commissario straordinario Vasco Errani si sta muovendo molto bene, è una “belva”, ma le cose non vanno veloci come dovrebbero. Qui è venuto giù tutto: scuole, palestre, l’ospedale, il municipio, le case, i monumenti. È tutto da ricostruire, c’è un lavoro enorme da fare. Per questo vorrei che tutti i cantieri fossero già aperti. Ma i soldi ancora non si vedono. E ancora non c’è la certezza dei contributi per chi ha avuto i danni. E senza quella certezza i privati non cominciano i lavori».

L’ufficio di Ferioli da due mesi è sotto la chioma di un tiglio, all’interno della zona sportiva: un gazebo, qualche sedia, il tavolo e il cellulare che squilla in continuazione. Il telefono, così come l’auto, è personale, non del Comune. Cioè paga lui di tasca sua. Il Municipio si è spostato lì, accanto ai presìdi della Protezione ci- vile e alla tendopoli degli sfollati. Un Comune sotto i gazebo e i tigli dove però c’è e funziona tutto, dalla polizia municipale all’anagrafe. Lui, il primo cittadino, arriva alle 6 e mezzo del mattino, comincia i primi incontri e le prime riunioni un’ora dopo e va avanti così fino a notte, sabati e domeniche comprese. Per 1.900 euro al mese e 12 mensilità. Come lui fanno gli altri sindaci dei centri colpiti. Tutti ora hanno due emergenze in comune: come riaprire le scuole e dove sistemare gli sfollati. Per il Piano scuola si è già alla fase esecutiva. Entro Ferragosto dovrebbero aprire i cantieri per allestire a tempo di record i moduli e i prefabbricati che assicureranno la regolare apertura dell’anno scolastico ai 18mila studenti che hanno la scuola inagibile. La corsa contro il tempo è cominciata anche per le scuole meno danneggiate. Comuni e Province dovranno riparare direttamente 165 edifici entro metà settembre. Per quelli mediamente lesionati che riapriranno soltanto nel 2013, verrano presi in affitto dei moduli scolastici provvisori per 9 mesi, con un bando che prevede il montaggio e lo smontaggio delle strutture. Per la casa la situazione è più complicata. Le tendopoli della Protezione civile dovrebbero chiudere a settembre-ottobre. Ora si stanno lentamente svuotando. Ieri in Emilia-Romagna nelle tende c’erano ancora 6.974 persone, le più disperate: immigrati e famiglie disagiate soprattutto. Altre 2.500 sono ancora ospitate negli alberghi e nelle strutture coperte. Domani scadono le convenzioni e non è chiaro se e come verranno rinnovate. L’obiettivo è riportare i cittadini nelle loro case. «Non abbandoneremo nessuno per strada, ma niente soluzioni provvisorie che diventano definitive», dice la Regione.

Ma i due terzi delle case lesionate sono inagibili. Dove andranno i terremotati? A giorni Errani presenterà ai sindaci il Piano casa. La parola d’ordine è «ricostruzione subito». L’obiettivo del commissario è ottenere entro l’estate dal governo il riconoscimento dei danni e la garanzia dei contributi per chi li ha subiti, consentendo così ai privati, alle imprese e ai Comuni medesimi di aprire i cantieri. Nel frattempo si cercherà di incentivare le sistemazioni degli sfollati nelle case sfitte, anche requisendole se non si troverà l’accordo con i proprietari. Sicuramente verrà esteso il contributo all’autonoma sistemazione, 100 euro a persona per un massimo di 600 al mese per le famiglie che hanno la casa inagibile.

Finale Emilia è oggi una città che vive nei container, nella tendopoli e nelle ten- de private. Nei primi trovi la Posta, la Banca, gli uffici. Nelle seconde gli sfollati assistiti. Nelle ultime, disseminate nei parchi e nei giardini, chi ancora non dorme a casa perché ha paura della terra che continua a tremare. Le persone fuori casa sono ancora 4.000, le case inagibili circa 1.500. Il sindaco di Cento, Piero Lodi, invece, ne ha 1.800 di sfollati da sistemare. «Molti per ora si sono arrangiati da soli, da amici e parenti, senza chiedere aiuti pubblici – dice – ma una risposta andrà trovata anche per loro. Finora abbiamo definito cosa bisogna fare. Adesso bisogna passare al concreto, dalla teoria alla pratica». Stessi problemi per Alberto Silvestri, sindaco di San Felice sul Panaro dove le case inagibili sono poco meno di mille e le persone da sistemare circa 3.000. A Cavezzo il primo cittadino, Stefano Draghetti, deve dare una risposta abitativa a 1500-2000 persone. Problemi enormi. Ma nessuno si arrende. «Il nostro centro storico chiuso non lo chiamiamo più zona rossa ma zona di recupero», aggiunge il sindaco di Crevalcore, Claudio Broglia, «perchè vogliamo riprenderci ogni pezzettino di ciò che il terremoto ci ha rubato».

l’Unità 20.07.12

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“C’ERA UNA VOLTA IL TERREMOTO”, di SERGIO RIZZO

Due mesi fa il terremoto feriva l’Emilia e la Lombardia, sfiorando anche il Veneto. Le scosse sbriciolavano chiese e torri in piedi da centinaia d’anni, sfigurando città e paesaggi. La strage dei capannoni ci presentava un conto impressionante di vite perdute e metteva in ginocchio il cuore pulsante dell’Italia produttiva.
La prima cosa che oggi va sottolineata è la dignità con la quale i nostri fratelli emiliani e lombardi stanno affrontando la prova terribile alla quale sono sottoposti. La seconda, che come nessun’altra calamità di analoghe proporzioni questo terremoto è stato velocemente dimenticato.
Con qualche lodevole eccezione, l’attenzione su ciò che sta accadendo nelle zone colpite dal sisma si è affievolita progressivamente. Fino quasi a spegnersi. Ci sono frammenti importanti di quel dramma, l’ha già denunciato il Corriere, che sono stati relegati nella serie B mediatica. Per esempio, i terribili danni subiti dai Comuni del Mantovano.
La tensione, insomma, si è allentata. Anche se questo non significa che lo Stato si sia disinteressato del terremoto padano. I Vigili del Fuoco e la Protezione civile sono stati formidabili. E mettere sul tavolo due miliardi e mezzo, con l’aria che tira, non è stato proprio uno scherzo. Ma anche l’encomiabile decisione di pubblicare online tutti i dati sui contributi (e sui beneficiari) è senza precedenti. E le comunità locali? Ci sono Municipi con organici già al lumicino dove i pochi impiegati lavorano da due mesi diciotto ore al giorno. Mentre i capoluoghi di provincia si sono tenuti fuori dal cratere per non privare di risorse i piccoli centri più colpiti. Sapendo che il più difficile viene adesso e i problemi sono gli stessi di ogni terremoto. Le stime dei danni vanno a rilento perché si usa troppa carta e poca informatica. Le procedure burocratiche sono spesso complicate. I denari dell’emergenza, che non è esaurita, sono già finiti e quelli per la ricostruzione sicuramente non basteranno. Per i palazzi storici, poi, siamo in altissimo mare. E via di questo passo.

Il Corriere della Sera 20.07.12

"La verità che manca", di Giorgio Napolitano

Si sta lavorando, si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio. Si deve giungere alla definizione dell’autentica verità su quell’orribile crimine che costò la vita a un grande magistrato protagonista con Giovanni Falcone di svolte decisive per la lotta contro la mafia. Questo è l’imperativo oggi a distanza di vent’anni; questo è il nostro dovere comune, anche verso Agnese, Lucia, Manfredi, Fiammetta, e verso i famigliari – che ci sono egualmente cari – di Emanuela Loi, di Agostino Catalano, di Eddie Walter Cosina, di Vincenzo Li Muli, di Claudio Traina. E tanto più si riuscirà a vincere questa dura e irrinunciabile battaglia di giustizia, quanto più si procederà sulla base di analisi obbiettive e di criteri di assoluto rigore.
Come ha fermamente dichiarato il presidente del consiglio Monti «non c’è alcuna ragion di stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità», ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra stato e mafia. E proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione. Su ciò deve vegliare tra gli altri il presidente della repubblica, cui spetta presiedere il Consiglio superiore della magistratura: e deve farlo, come in questi anni ha sempre fatto, con linearità, imparzialità, severità. I magistrati di Palermo hanno spesso sofferto, nel corso degli anni, per la perdita di eminenti ed esemplari colleghi, che possiamo richiamare e onorare tutti unendoli al ricordo di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone. Vissi io stesso il dramma, lo sgomento, il dolore per il brutale assassinio di quei due eroici servitori dello stato, vissi quelle ore insieme con il più fraterno amico della mia vita, il senatore Gerardo Chiaromonte, di cui è rimasto per me indimenticabile, insieme con il fermissimo impegno di presidente della commissione parlamentare antimafia, il rapporto di straordinaria stima e simpatia personale che aveva stabilito con Paolo come con Giovanni. E non si è mai spenta in me la traccia del cocente dolore con cui appresi la notizia dell’agguato omicida a Pio La Torre, con cui avevo strettamente condiviso passione ideale e tensione morale. Intensa era stata già prima la mia commozione per l’uccisione di Cesare Terranova, che avevo avuto fine e apprezzato collega in parlamento.
Appartengo a una generazione che ha conosciuto la tragedia della guerra fascista e del crollo dell’8 settembre 1943, e ha giovanissima abbracciato l’impegno politico – pur da diverse posizioni ideologiche – nello spirito della Resistenza trasfusosi poi nella Costituzione.
In quel contesto, la lotta conseguente contro la mafia, senza cedimenti a rassegnazioni o a filosofie di vile convivenza con essa, è divenuta parte integrante della nostra scelta civile sin da quando ci giunsero gli echi dell’eccidio di Portella della Ginestra.
Sono di recente tornato laggiù, per rinnovare un omaggio e un giuramento a cui sempre sono rimasto e sempre limpidamente rimarrò fedele. Pensando con commozione a Paolo Borsellino, a tutti coloro che sono come lui caduti in nome della legge, e sentendomi al fianco di quanti ne continuano l’opera.

(Dal messaggio inviato in occasione del 20° anniversario dell’attentato in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti di scorta)
Giorgio Napolitano

da Europa Quotidiano 20.07.12

Asor Rosa: «Niente primarie, serve un grande partito popolare», di Maria Zegarelli

«L’unica forza politica in grado di lanciare la sfida per battere l’antipolitica è il Pd, ma deve puntare a un ampio coinvolgimento». L’unico partito ad avere delle «chance di partenza rispetto alle altre formazioni concorrenti o convergenti» per battere l’antipolitica è il Pd, sostiene il professor Alberto Asor Rosa. Ma deve dare una dimostrazione della sua forza, con un’operazione di grande coinvolgimento «popolare» e certo, aggiunge, «non penso alle primarie». Da quel coinvolgimento, ragiona Asor Rosa, potrebbe iniziare un percorso verso un unico grande partito in grado di racchiudere in sé il vero riformismo, quello a cui fanno riferimento sia Bersani sia Vendola.
Professore, il post-montismo a cui spesso lei fa riferimento come se lo immagina?
«Monti rappresenta la presunta oggettività dei processi economici e finanziari alla quale si sforza di ubbidire risolvendo i problemi tecnicamente a quel livello. Mi pare non sia sufficiente a qualificare una politica di centrosinistra orientata su di una prospettiva più lunga e più ampia. Quindi torna in campo la questione del punto di vista e cioè del modo e dell’angolo visuale in cui ci si colloca per affrontare i problemi e risolverli, a partire dalla disoccupazione. Mi sembra che questa prospettiva prescinda dal punto di vista di Monti».
E tocca ai partiti riappropriarsi di una visione di lungo periodo più ampia?
«Se parliamo di un partito politico di centrosinistra quella prospettiva montiana è chiaramente insufficiente, perché il punto di vista è diverso. Si arriva a delle conclusioni profondamente diverse nell’affrontare problemi anche economici se il punto di vista riguarda le classi subalterne o le classi dominanti. Questa differenza si è persa nel tempo e invece credo vada recuperata proprio in vista delle elezioni, quando mi auguro venga restituito alla politica il primato che le spetta».
Lo abbiamo chiesto a Vendola e lo chiediamo a lei: il popolo delle primarie potrebbe essere rappresentato da un solo grande partito?
«Ho una scarsa considerazione per l’istituto delle primarie».
Non ci crede?
«Mi pare poco rappresentativo come strumento. Io ho fatto una proposta diversa: se esistono forze orientate a formulare un progetto politico e una strategia di alternativa, sia al berlusconismo sia al montismo, riunirle a discutere insieme della prospettiva sarebbe un passaggio di carattere fondamentale. Per fare l’Assemblea ci vuole ovviamente un partito forte ma avrebbe un effetto di formazione politica di massa che le primarie non sono destinate ad avere in alcun caso».
Lei dice: ci vorrebbe un partito forte. Il Pd non le sembra tale?
«Se il Pd facesse una iniziativa del genere mostrerebbe la sua forza e sarebbe un passo in avanti per tutti non soltanto per il Pd, oltre a essere un’occasione di chiarimento al proprio interno. Quando parlo di un partito riformatore non mi riferisco ad un partito che discenda soltanto dai lombi del movimento operaio. Intendo un partito che si metta nella prospettiva di cui parlavo prima e non rinunci a elaborare una propria strategia come pare invece che facciano quelli che nel Pd pensano di proseguire nel montismo anche dopo Monti».
Vede in questa Assemblea di tutti i riformisti il primo passo verso un partito che li accolga tutti?
«Sarebbe un primo passo in quella direzione e per quanto mi riguarda la considererei del tutto sostitutiva delle primarie».
Professore, ma le primarie vengono da tutti considerate uno strumento di grande partecipazione e lei le smonta così?
«Io non sottovaluto le primarie, come strumento di partecipazione, ma credo che lo sia perché non ne esistono altri. Sono convinto che debba invece essere avviato un dibattito politico di massa che vada al di là degli stati maggiori e coinvolga chi oggi è ai margini. Le primarie, se diventano una sorta di conta elettorale potrebbero servire fondamentalmente a legittimare, per esempio, una posizione, francamente insostenibile, come quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, il quale sulle questioni decisive non ha detto e non dice una parola. Prima di arrivare alle primarie con parole d’ordine organizzativistiche, come “rottamazione”, bisogna che le questioni fondamentali siano messe sul tappeto e non tra i dirigenti».
Mario Tronti auspica un solo grande partito «decisivo per le sorti del Paese». Potrebbe essere il Pd? «L’osservazione critica che ho fatto a Tronti riguardava l’assenza nel suo discorso delle modalità attraverso cui raggiungere quel risultato, che non può che essere il risultato di un processo che va organizzato. Per questo penso all’Assemblea, un luogo dove mettere in discussione all’esterno il punto di cui discutiamo. Un fatto così non può nascere nelle segreterie dei partiti lacerate da discussioni interne».
Bersani, a propostito di lacerazioni interne, ha proposto agli alleati una cessione di sovranità al premier per evitare i rischi che portarono l’Unione al fallimento.
«Mi chiedo cosa significa cessione della sovranità. Sono scettico sulle garanzie che l’ampliamento dei poteri del premier darebbe in questo senso. Credo che tutto vada portato all’esterno, come un grande partito popolare deve fare. Bisogna spezzare il cerchio di ferro che separa oggi la politica dalla gente».

L’Unità 17.07.12

"Dalla spending review nuovi tagli alla scuola", di Francesca Puglisi

Nella presentazione della “spending review”, il Ministro Giarda aveva detto che la scuola è il comparto dello Stato che ha dato di più per il risanamento nell’ultimo triennio e, quindi, il Governo non vi avrebbe messo mano. Invece, nel provvedimento in discussione al Senato, troviamo una nuova sottrazione di 15.000 contratti a termine ai danni dei precari della scuola e soprattutto l’inedita affermazione di un principio assai grave che non può passare inosservato. I 10.000 insegnanti di ruolo che hanno perso il posto a causa dei tagli del duo Tremonti Gemini, potranno andare ad insegnare qualsiasi materia in qualsiasi ordine di scuola, purché abbiano un titolo di studio valido, a prescindere dalla classe di concorso per cui sono abilitati. Così accadrà che un insegnante di economia aziendale potrà insegnare geografia alle medie anche se non possiede l’abilitazione per quella materia, un professore di storia e filosofia, potrà insegnare latino e così via. Il risultato sarà che il docente precario, in possesso della corretta specializzazione, perderà il lavoro, e al suo posto ci sarà un insegnante che di quella materia potrebbe non saperne molto. È come affermare che d’ora in poi medici ortopedici potranno operare al cuore, tanto sono laureati in medicina! Perché nella scuola pubblica italiana, tutto è permesso? Perché la si ritiene un posto così residuale da poter commettere uno scempio come questo? Quale «riconoscimento del merito» intende promuovere un Ministro con un provvedimento simile? E soprattutto come si farà a non arrossire di vergogna quando invocheremo la necessità di alzare la qualità della scuola e i livelli di apprendimento degli studenti, per renderli almeno raffrontabili al resto d’Europa? Alcuni rilevano che per i «supplenti» spesso è andata così. Male! Anzi, malissimo! Se è stato permesso in passato, non dovrebbe accadere mai più! Non c’è edificio pubblico o palazzo municipale che sia trascurato come le scuole, non c’è professione più bistrattata di quella dell’insegnante. Perché? Non è forse nella scarsa considerazione di cui gode la scuola pubblica -a cui la Costituzione, considerandola la più alta istituzione democratica del Paese, affida il «compito» di tradurre in realtà l’art. 3, che ci rende liberi, uguali e capaci di prender parte alla vita politica, economica e sociale non è lì, la plastica rappresentazione dell’orlo del baratro in cui rischia di sprofondare l’Italia intera? Anche il Governatore della Banca d’Italia Visco, ha affermato che oggi la scuola ha bisogno di nuovi investimenti nonostante la crisi, se non vogliamo pregiudicare il futuro del Paese. E l’Italia ha bisogno di una scuola pubblica di qualità per tornare a crescere. Noi proponiamo che quelle risorse professionali in esubero dopo i tagli del Governo della destra, siano utilizzate per rendere effettivo l’organico funzionale delle scuole, previsto dal «decreto semplificazioni», così da poter intervenire nella lotta alla dispersione scolastica e riaprire i troppi laboratori chiusi dalla Gelmini. Un altro comma della spending review interviene sui 3.565 insegnanti inidonei per malattia. Spesso si tratta di persone con sofferenze psichiatriche o che seguono trattamenti chemioterapici e che oggi continuano a dare il proprio contributo di lavoro tenendo vive le biblioteche scolastiche. Per loro la spending review prevede il collocamento nelle segreterie scolastiche e il cosiddetto «risparmio» per lo Stato consisterà nella cancellazione dei contratti degli Ata precari. Infine sul rimpatrio di 400 docenti all’estero, vogliamo ricordare che il totale degli insegnanti di ruolo e del personale Ata in servizio all’estero ammonta a 1.053 unità e per il prossimo anno scolastico è prevista una riduzione di 59 unità. La Francia invia all’estero 6.500 insegnanti di ruolo, la Germania 1.992. Questi numeri dovrebbero far riflettere sull’importanza di mantenere una presenza qualificata per la promozione della lingua e della cultura italiana all’estero. Il Pd propone di risparmiare, per esempio, su quei dirigenti scolastici all’estero che non hanno insegnanti italiani da dirigere (mentre in Italia abbiamo troppe reggenze) e di tagliare del 10% le indennità di tutto il personale all’estero, nonché di porre tetti di spesa per traslochi e altro ancora. Da un provvedimento di revisione della spesa pubblica, ci saremmo aspettati un’azione davvero riformista, di tagli a spese davvero inutili per gli armamenti, di accorpamento di enti e istituti. Un paio di casi riguardano proprio il Miur: Ansas e Indire furono accorpati dal Ministro Fioroni, ma poi divisi nuovamente dalla Gelmini; gli uffici scolastici provinciali e regionali, in attesa del passaggio di competenze alle Regioni, avrebbero potuto certamente essere accorpati in uffici periferici unici dello Stato. Il Partito Democratico su questi temi ha presentato i propri emendamenti. Chiediamo al governo Monti di farli propri, poiché se davvero vogliamo far uscire dalla palude il nostro Paese, solo investendo nella scuola, potremo assicurare a noi e ai nostri figli, la speranza di un futuro migliore.

L’Unità 20.07.12

"Ilva scende il campo il governo pronto il patto per salvare Taranto", da lastampa.it

La salvezza dell’Ilva, l’acciaieria di Taranto che è lo stabilimento più grande d’Europa, si nasconde dietro una grigia denominazione burocratica: accordo di programma. È stata questa la decisione dell’incontro di ieri mattina a palazzo Chigi, una sede che fa ben capire quanto il problema dell’Ilva sia nazionale. Lo stabilimento rischia infatti di chiudere sulla base di una decisione del tribunale poiché evidente è la correlazione tra l’inquinamento provocato dall’Ilva e il tasso di malati e morti per tumore.

Al vertice di ieri hanno preso parte ministri, rappresentanti degli enti locali, sindacati. Il coordinamento era affidato a Corrado Clini, ministro dell’Ambiente. Il risultato è per l’appunto un accordo di programma, che sarà firmato entro la prossima settimana e che individuerà nel dettaglio le risorse finanziarie, i progetti e le modalità attuative per la bonifica del sito dell’Ilva. «Non possiamo rischiare di far perdere all’Italia il sito dell’Ilva», ha affermato Clini. Il protocollo identificherà «gli obiettivi e i programmi sottoscritti dalle amministrazioni centrali e locali. Lavoreremo – ha assicurato Clini – perché questo accordo venga condiviso da Ilva in maniera tale che il risanamento del territorio faccia parte della strategia industriale di questo grande gruppo».

E sul fatto che sia grande non ci sono dubbi: 12mila dipendenti diretti, a cui va aggiunto l’indotto. Le produzioni di Taranto alimentano il 40% delle aziende italiane che utilizzano acciaio. Per la cui produzione però si è inquinato molto. Troppo, a leggere le perizie. «A Taranto si muore – dichiara senza mezzi termini il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli – dalla riunione di oggi non arriva nessuna risposta all’emergenza sanitaria che riguarda l’oggi, non il domani. A Taranto ci sono stati 386 decessi negli ultimi 13 anni». La sua è l’unica voce fuori dal coro perché tutti si augurano che lo stabilimento non chiuda per via del contraccolpo occupazionale che piegherebbe la città di Taranto e non solo. Sul fronte sindacale la leader della Cgil Susanna Camusso ha auspicato che insieme al coinvolgimento dell’Ilva ci sia quello delle organizzazioni sindacali «in modo da rendere compatibile il mantenimento della produzione industriale con l’ambiente e i processi di risanamento del territorio che devono essere avviati. Oggi si è iniziato questo ragionamento e c’è un impegno a coinvolgere l’azienda che speriamo dia i suoi frutti». Il governo ha messo sul piatto 280 milioni per la bonifica del territorio. Troppo pochi, secondo i Verdi.

La Stampa 20.09.12

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“MONTI DEVE CAMBIARE STRADA. SCIOPERO GENERALE IN AUTUNNO”, di Rinaldo Gianola

Anche se il presidente del Consiglio ha espresso commenti ingenerosi sulle parti sociali e sulla concertazione, anche se non vuol ascoltare le voci dei sindacati, vorrei chiedergli di cambiare strada al più presto perché così il Paese non ce la fa, non si salva e non si risolleva».

Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è «fortemente preoccupata per la situazione sociale, per quello che può succedere a settembre», perché dopo un anno di manovre e sacrifici «siamo ancora qui davanti a un’altra emergenza dello spreadche giustifica tagli, licenziamenti, altre ingiustizie».

Segretario Camusso, pensa che Monti possa davvero accogliere il suo invito?«Non credo, per come si è mosso finora. Il sindacato confederale può piacere o meno, ma ha ancora un grande ruolo in Italia, è capace di cogliere e rappresentare le preoccupazioni e gli allarmi che salgono dalle fabbriche, dalla società. Vorrei dire al presidente Monti che oggi l’Italia leale e onesta, i lavoratori e i pensionati che hanno pagato tutte le manovre, che hanno versato l’Imu si chiedono se questi sacrifici sono utili, se garantiscono un futuro sereno, una società più giusta. L’azione di governo di Monti non ha risolto il problema dello spread, ma in compenso ha colpito duramente i lavoratori, i pensionati, senza offrire speranze reali a giovani e donne, ai ceti più deboli. A settembre le condizioni del tessuto produttivo potrebbero essere peggiorate, si potrebbero aprire nuove crisi. In questa congiuntura l’unica preoccupazione di Monti è lo spread e come tagliare l’intervento pubblico ».

Qual è il limite più grave del governo? «Si muove solo sul piano finanziario. Pensa solo a tagliare e mistifica come revisione della spesa quella che in realtà è un’altra manovra di tagli. Un conto è un intervento moralizzatore sulla spesa pubblica e potremmo dare qualche suggerimento se Monti ci ascoltasse, un altro è usare la mannaia sulla pubblica amministrazione, sulla sanità, sul trasporto locale. La spending review determinerà migliaia di licenziamenti. Il governo ne è consapevole o se ne accorgerà a cose fatte, come nel caso della riforma delle pensioni e delle migliaia di esodati?»

Cosa teme oggi? «Ci sono tre urgenze. Primo: non è chiaro se ci sono i finanziamenti per la cassa integrazione in deroga per il 2013, molte Regioni hanno finito i fondi. Secondo: spero di sbagliarmi ma c’è un gioco di emendamenti sulla prosecuzione della mobilità che potrebbe portare a un’ondata di licenziamenti anticipati. Terzo: il decreto della spending review ha un effetto depressivo sull’economia, ci stiamo avvitando su manovre e spread senza dare fiato alla produzione, la manovra colpisce i soliti noti, impoverisce le famiglie. Vorrei vedere un segnale di equità, di giustizia, di redistribuzione, una politica dura contro l’evasione e il sommerso».

Ad esempio? «Cito un caso: ma perché mentre tutti sono chiamati a fare sacrifici non si riesce mai a mettere un tetto, a ridurre le retribuzioni dei grandi manager. Perché l’autorevolezza di Monti si ferma davanti a questo ostacolo?»

Cosa farà il sindacato? «Farà la sua parte se il governo non cambia strada. La Cgil, d’accordo con le altre confederazioni, contrasterà le politiche del governo. Non possiamo accettare una linea d’azione unilaterale, ingiusta. Siamo pronti a negoziare, a fare la nostra parte come è sempre avvenuto quando il Paese era in difficoltà. Ma Monti sta sbagliando e non ce lo possiamo permettere. A settembre prepareremo lo sciopero generale. In questa situazione vorrei dire a Federmeccanica che è grave discriminare la Fiom, non c’è bisogno di altre tensioni. Rispetti i patti».

Intanto si aprono altre emergenze industriali. Come ne usciamo? «Sull’Ilva noi e Confindustria abbiamo detto al governo che il polo siderurgico di Taranto non è solo il più grande d’Europa, ma è il fornitore di larga parte dell’industria manifatturiera nazionale. Se dovesse chiudere la nostra credibilità di Paese andrebbe a zero. Per la Fiat spero che nessuno si sorprenda della cassa integrazione a Pomigliano. La Cgil denuncia da tempo i buchi del piano industriale, la mancanza di investimenti, la strategia di trasferire gli interessi prevalenti del Lingotto all’estero. Le parole di Marchionne sono state esplicite. Mi sorprende il silenzio di Monti e del ministro Fornero, molto rispettosi dell’autonomia delle imprese. Il presidente francese Hollande ha detto a Peugeot che non può licenziare 8mila lavoratori e di chiudere una grande fabbrica. Magari Monti potrebbe usare un po’ della sua moral suasion su Marchionne».

La sinistra si prepara al voto, imperversa il dibattito,dalle primarie alle alleanze. Che idea si è fatta? «Non sono interessata a schieramenti, personalismi. E neanche al dibattito se Monti deve succedere a Monti. Spero che il centro sinistra avvii una seria fase programmatica per proporre un’alternativa di governo. L’unica condizione che davvero conta è mettere le persone e i loro problemi al centro della politica e dell’azione di governo».

l’Unità 20.07.12