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"Assad e la sindrome irachena", di Bernardo Valli

Il mio amico Edouard Saab, libanese maronita nato in Siria e ucciso nella Beirut della guerra civile nel 1976, a 47 anni, da un proiettile in fronte, mentre cercava di superare in automobile il micidiale “passaggio del Museo”, giurava che Hafez el Assad non sarebbe rimasto al potere più di qualche mese. «NON può durare, è un povero alauyta, i suoi sono quattro gatti dispersi sulla montagna. Rappresentano una sparuta setta musulmana di origine sciita. E la Siria è soprattutto sunnita». Per dar forza alle sue parole Edouard si calcava il cappello sulla testa calva. Col tempo i mesi erano diventati anni, perché Hafez el Assad, catturato nel ‘71, con la forza, il potere nel nome di una “rivoluzione riparatrice”, era sempre in sella a Damasco. Ed era tanto solido e prepotente, dietro l’espressione da gattamorta, da meritare il titolo di “Bismarck d’Oriente”, mentre il bravo Edouard continuava ad arrancare nella Beirut insanguinata, dove dirigeva il quotidiano l’Orient – Le Jour. Il proiettile sparato in quel maledetto “passaggio del Museo” da chissà chi (forse da un cristiano come la vittima, forse da un musulmano, sciita o sunnita, forse da un siriano, non si sa mai) avrebbe dovuto cancellare la sballata profezia di Edouard, e invece è rimasta un chiodo fisso nella mia mente.
I mesi si sono allungati in anni, poi in decenni, cosi sono volati via più di quarant’anni. Ed io mi scopro ancora a pensare che no, gli Assad, non resteranno più tanto a lungo al potere. La stagione politica sembra propizia. Quando Edouard era in vita non pensavamo alla “ primavera araba”, grazie alla quale adesso Edouard finirà con l’avere ragione. Ce ne è voluto del tempo. C’è stata persino una successione, come in una famiglia reale, con i diplomatici di mezzo mondo che portavano regali e gli auguri ufficiali dei loro governi. Hafez è morto nel suo letto, e gli ha dato il cambio Bashar, il figlio, il quale rischia una fine molto più agitata.
Quando nell’82 si scopri che il vecchio Assad aveva fatto massacrare ventimila tra uomini e donne nella città di Hama, dove i Fratelli musulmani si erano ribellati allo strapotere di Damasco, pensai, e non fui il solo, che presto o tardi qualcuno avrebbe vendicato i sunniti sepolti sotto le rovine di Hama da centinaia di bulldozer. Eppure sono passati più di trent’anni e gli Assad se la sono cavata. Almeno finora. Penso che a proteggerli sia stata anche la loro fama di rais “laici”. Eh sì, laici. Una specie di licenza di uccidere veniva infatti accordata ai capi arabi considerati laici. Si pensi a Saddam Hussein che quando, negli anni Ottanta, sfidò la teocrazia iraniana di Khomeini ebbe la simpatia dell’Occidente. Il suo partito, il Baath, non era forse laico e considerato eretico da molti musulmani zelanti? E il Baath (sia pure in una versione siriana, diversa da quella irachena) era anche il partito degli Assad. Una prova di laicità guardata con un certo interesse, anche se con diffidenza, da chi temeva l’ondata islamista. Ai Fratelli musulmani, non sempre rinsaviti, non sempre moderati, gli Assad, padre e figlio, non hanno mai risparmiato la galera o nei casi estremi la sepoltura con il bulldozer. Veri laici d’ Oriente.
Generale d’aviazione, Hafez aveva lo sguardo celestino. Due ferritoie e due occhi fissi. Pugnali avvelenati col sorriso. Il figlio Bashar è un medico. Ha l’aria di un bravo ragazzo. Persino un po’ pirla. Un simpaticone, fino al giorno in cui l’esercito ereditato dal padre ha esagerato, accelerando la dinamica omicida. In realtà sempre in servizio permanente. A cominciare le “primavere arabe” non sono stati i Fratelli musulmani. Sono stati i giovani figli del web, un tempo si sarebbe detto giovani di sinistra, adesso è più appropriato l’altrettanto generico aggettivo “modernizzati”. I Fratelli musulmani e i derivati integralisti, salafiti ed altri, si sono intromessi nella folla in rivolta. Avevano sulle spalle anni, decenni di galera e di torture e avevano il diritto di ribellarsi. La mischia egiziana, come l’antesignana mischia tunisina, ci hanno già insegnato come sono andate e come vanno le cose. La mischia siriana è però una miscela molto più esplosiva. La Damasco di domani fa pensare alla Bagdad di ieri. Dove tutti i terroristi trovavano infine un terreno di manovra. Nelle capitali per bene non ci si pronuncia in favore di Assad. Neppure a Tel Aviv si osa, anche se discutere con la famiglia Assad è per il governo di gran lunga più semplice che trattare domani con degli islamici eccitati, ansiosi di riconquistare il Golan. Israele non vuole essere distratta dal suo obiettivo, che resta la bomba iraniana.
Soltanto a Pechino e a Mosca ci si azzarda ad avanzare obiezioni sull’opportunità di frenare la Siria che uccide i suoi abitanti. I russi hanno il porto siriano di Tartus, dove si riforniscono le loro navi nel Mediterraneo; in verità poca cosa, dicono gli esperti; ma, come Pechino, anche Mosca tiene alla Siria alleata dell’Iran; e l’Iran giudica preziosa la Siria che le consente di comunicare con i suoi alleati sciiti del Libano, i famosi Hezbollah. Con la Siria di Assad l’Iran si sente meno solo. Per questo impegna uomini e mezzi in suo favore. C’è chi descrive Bashar el Assad politicamente agonizzante. Ma fin che il grosso dell’esercito è al suo fianco può resistere. Di giorno in giorno cresce tuttavia il rischio che le forze armate ereditate dal padre lo abbandonino. Questo dicono e temono amici e nemici. La Siria ha tanti confini. Gli interessi dei paesi limitrofi non sono sempre chiari. Non coincidono sempre con quelli di Damasco. Cambiano secondo le stagioni. Ma tutti hanno paura di una Siria in preda all’anarchia. Dopo l’invasione americana l’Iraq è governata da sciiti, sensibili ai richiami dell’Iran, anche se non asserviti ai suoi interessi. L’orgoglio ha i suoi diritti. Sulla sponda dell’Eufrate il regime di Assad trova dunque una mano tesa, che può tuttavia rivelarsi ambigua. Un po’ d’America è sempre presente a Bagdad.
Il mondo sunnita è ostile. Odia Assad, amico degli eretici sciiti. Attraverso le frontiere con la Turchia, la Giordania e il Libano l’andirivienti
delle varie intelligences è intenso, nevrotico, ansioso. L’Arabia Saudita, roccaforte e banca del sunnismo, dispiega tutti i suoi mezzi occulti per aiutare gli insorti, purché siano islamisti. La Turchia è più prudente e meno integralista. E’ facile agli uomini di Al Qaeda inserirsi nella variegata opposizione armata. E la Cia, da tempo attiva, tra i Fratelli musulmani moderati, si scervella per escogitare una “menaged transition” tra quelle che considera le correnti ragionevoli, al fine di evitare il vuoto creatosi nella Bagdad liberata da Saddam Hussein e subito preda del terrorismo. Il capo della Cia è oggi il generale Petraeus, quello che in Iraq staccò i saddamisti moderati dai terroristi di Ala Qaeda. La sua esperienza può rivelarsi preziosa. Ma nell’Oriente complicato, come nell’Occidente che pensa di non esserlo, nessuno sa come le rivoluzioni finiscono.

La Repubblica 20.07.12

"Il Miur emana la circolare relativa all’Organico di fatto", da La Tecnica della Scuola

Il MIUR ha emanato la Circolare Ministeriale n. 61 del 18 luglio 2012 riguardante le indicazioni per la costituzione dell’organico di fatto dei docente e ATA per il prossimo anno scolastico.
Una circolare giudicata negativamente dal sindacato di Pantaleo perché non dà adeguate risposte per garantire le necessità delle scuole né sul versante del personale docente, né su quello del personale Ata per garantire la funzionalità del servizio.
Tra le richieste significative avanzate dalla FLC CGIL che sono state accolte si segnalano:
• l’attivazione delle risorse necessarie per garantire l’insegnamento dell’ora alternativa alla religione cattolica;
• il rispetto delle norme sulla sicurezza;
• la necessità che le dotazioni previste per la scuola dell’infanzia non siano utilizzate su altri gradi di scuola anche per far fronte alle continue dismissioni del servizio da parte dei comuni;
• le risorse necessarie a garantire il mantenimento dell’orario di lezione dell’anno precedente nella scuola primaria (le 30 ore anche nelle classi quarte laddove sono state ridotte nel diritto);
• prevista la garanzia che nella scelta della seconda lingua straniera nella secondaria di primo grado (ma anche di secondo grado) non debba creare esubero né nella scuola né in ambito provinciale e, questo, “neanche in prospettiva”;
• l’obbligo a dotarsi dell’ufficio tecnico in tutti gli istituti tecnici e professionali in presenza di esubero nel ruolo degli ITP,
• per le dotazioni organiche del personale educativo, pesantemente colpito dall’applicazione rigida dei parametro del DPR n. 81/09, la circolare prevede che in fase di adeguamento dell’organico di diritto al fatto si debba garantire la funzionalità del servizio e che, comunque, va garantita la stessa dotazione di fatto dello scorso anno;
• per i DSGA saranno impartite ulteriori istruzioni alla luce del quadro che emergerà a conclusione delle operazioni di mobilità che saranno pubblicate il giorno 11 agosto prossimo. In ogni caso, laddove il combinato effetto dei tagli dovuti al dimensionamento e quelli derivanti dall’applicazione della legge n. 183/2011 (scuole sottodimensionate che non potranno più avere il DSGA titolare) determinerà esubero, i soprannumerari rimarranno in servizio nelle scuole dove hanno prestato servizio nel 2011-2012 (cosi come previsto nell’ipotesi di Ccni sulle utilizzazioni);
• nell’adeguamento dell’organico di diritto al fatto dovrà essere garantito l’organico dei collaboratori scolastici necessario a coprire in tutte le sedi e plessi l’orario di funzionamento della scuola nel rispetto degli obblighi contrattuali, cosi come per il personale amministrativo nelle scuole particolarmente complesse, cosi come per il personale tecnico ai fini della sicurezza nell’utilizzo dei laboratori;
• analogamente si dovrà tenere conto della presenza di personale inidoneo (sia collaboratore, che amm.vo, che tecnico) nelle scuole dove, questo personale, sia presente dalle due/tre unità in su;
• infine, per il personale assistente tecnico, va garantito il rispetto di quanto prevede il Ccnl, con particolare riguardo alla manutenzione delle apparecchiature nei laboratori.

La Tecnica della Scuola 20.07.12

"Alle tasse sette mesi di lavoro", di Tito Boeri

La pressione fiscale in Italia è salita di due punti di pil con le manovre che si sono succedute da un anno a questa parte e che hanno largamente privilegiato (per circa 4/5 del totale) gli aumenti delle tasse rispetto ai tagli della spesa pubblica. Oggi è pari al 46% mentre le entrate totali delle amministrazioni pubbliche sono salite al di sopra del 50% del pil. iù della metà del reddito generato in Italia finisce alle casse dello Stato. La pressione fiscale effettiva, quella che grava su chi paga effettivamente le tasse, è cresciuta ancora di più perché, nonostante il rafforzamento delle norme antievasione, la quota di economia sommersa è aumentata. Quando si aumentano le tasse (in parte anche quando si riduce la spesa pubblica) c’è sempre un trasferimento di attività dal settore regolare, quello in cui opera chi paga le tasse, all’economia sommersa. Secondo le stime più recenti dell’Istat, il sommerso conta per circa il 17 per cento del pil. Quindi la pressione fiscale su quell’83 per cento di reddito tassato sarebbe addirittura del 55 per cento, il peso delle entrate pubbliche sul reddito regolare al di sopra dl 60 per cento. Sono livelli oggi insostenibili. Dato che le tasse sono concentrate sul lavoro, ci impediscono di utilizzare la risorsa da noi maggiormente inutilizzata e ne fanno lievitare i costi, riducendo la competitività dei beni prodotti in Italia. I dati Ocse ci dicono che il divario con la Germania nel costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito in tutti i paesi del contagio (i cosiddetti PIGS) tranne che in Italia. E’ un segnale molto brutto per gli investitori. Inoltre, ciò che rende particolarmente pesante la pressione fiscale da noi è il fatto che a tasse così elevate non corrisponde una adeguata qualità dei servizi offerti ai cittadini. Abbiamo tasse svedesi e servizi italiani, il prelievo non viene percepito come un pagamento a fronte di prestazioni, ma come una tassa tout court, che provoca al cento per cento una riduzione di benessere i cittadini.
La riduzione della pressione fiscale richiede inevitabilmente del tempo in un paese con il nostro debito pubblico. Deve infatti basarsi su tagli di spesa corrente primaria. I risparmi nella spesa per interessi andranno questa volta utilizzati per ridurre il debito. E i tagli alla spesa corrente devono essere mirati, intelligenti. Perché alleggerire la pressione fiscale significa anche migliorare la qualità della spesa pubblica. Bisogna ridurre quella che serve solo a comprare consenso elettorale. È quella che ha permesso alla Regione Sicilia, decisiva in molte elezioni, di mantenere in vita le baby pensioni per vent’anni in più che nel resto del Paese e di continuare ad assumere in massa dipendenti pubblici (ne ha più della Lombardia) mentre nel resto del Paese c’era il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego. Bisogna anche legare più strettamente i prelievi alle prestazioni effettivamente offerte a chi paga, e solo a chi paga. I lavoratori devono sapere che i contributi che pagano daranno loro diritto a un reddito se perdono il lavoro. I giovani devono sapere che i versamenti previdenziali aumenteranno il livello della loro pensione futura. Solo così non li percepiranno come tasse, ma come assicurazioni o accantonamenti per la vecchiaia. Per questo è così importante riformare gli ammortizzatori sociali istituendo un sistema trasparente che protegga chi paga i contributi. Per questo il Presidente dell’Inps dovrebbe dimettersi. È pagato ben al di sopra dei massimali posti per la dirigenza pubblica e non è stato in grado di mandare a casa di tutti i contribuenti un rendiconto di quale potrà essere la loro pensione futura in base a quanto versano oggi.
Un governo tecnico deve tagliare la spesa elettorale dato che non ne ha bisogno e deve riuscire a impegnare i governi futuri a continuare sulla strada dei tagli alla spesa sin qui solo inizialmente e timidamente intrapresa. Può impegnarsi a destinare una quota consistente dei tagli alla spesa pubblica alla riduzione della pressione fiscale e chiedere alle forze politiche che compongono la sua maggioranza di fare altrettanto, chiarendo anche come e in quali aree questi tagli verranno perseguiti. Ci vuole un impegno esplicito e misurabile. Servirebbe ad aumentare il controllo democratico e a darci una prospettiva, rassicurando anche gli investitori. Avremo altrimenti solo le consuete promesse da marinaio. E più ci avvicineremo alle elezioni, più serrata sarà la gara a chi si impegna a ridurre di più la pressione fiscale. Scommetto che questa volta si parlerà di almeno 5 punti di pil. Tutti sulla carta dei programmi elettorali, solo su quella.

La repubblica 20.07.12

"L'uomo della pianura", di Dario Franceschini

La piccola stazione era sempre pulita e ordinata. Per arrivare ai binari si attraversava l’androne, con la biglietteria su un lato e l’orario dei treni attaccato sul muro opposto, dietro le due panche di legno che servivano da sala d’attesa.
La ferrovia passava un po’ lontana dal centro del paese, perché il ponte sul Reno l’avevano costruito in un punto dove il fiume era più stretto e così, per raggiungerla, si era dovuta fare una strada lunga e diritta, costeggiata da due filari di pioppi che tagliavano la pianura.
Ogni mattino presto, d’estate e d’inverno, Udilio Cesari la percorreva lentamente, appoggiandosi al bastone. Andava sul marciapiede del primo binario, entrando dal cancelletto di fianco all’edificio, senza mai attraversare l’androne della biglietteria.
Poi raggiungeva una vecchia panchina di legno verde accostata al muro della stazione, la puliva appena con un fazzoletto e si sedeva.
«Pensa di certo ai suoi anni in America», mormoravano i paesani in attesa dei treni. Stava appoggiato con le mani sul bastone davanti a sè, con lo sguardo fisso per ore sulla campagna oltre i binari, come se quello sfondo gli servisse solamente per proiettare il film che stava scorrendo dietro i suoi occhi.
A differenza di tutti gli altri emigranti che dal giorno del ritorno in paese non avevano mai smesso di raccontare, davanti al bar, le cose, ogni volta sempre più prodigiose, che avevano visto nel nuovo mondo, Cesari non aveva mai detto una parola con nessuno sulla sua vita laggiù in America.

Almeno nei primi tempi rispondeva ai saluti dei vecchi amici o a quelli dei loro nipoti che gli passavano davanti, quando scendevano dai treni pieni di studenti di ritorno dalle scuole di città, ma poi aveva smesso anche di rispondere.
Stava solamente lì, fermo sulla sua panchina tutto il giorno, sino al tramonto, a guardare la pianura calma e infinita e i treni lenti che gliela nascondevano per qualche attimo.
La notte del 20 maggio, alle quattro del mattino, il capostazione si alzò dal letto quando sentì il cigolio del cancelletto di ferro che si apriva. «I soliti quattro cretini ubriachi», pensò.
Si avvicinò alla finestra della piccola casa di fianco alla stazione per aprire gli scuretti e cacciarli con un urlo minaccioso. Dall’alto vide invece Cesari, seduto sulla sua panchina e si domandò perché mai fosse venuto in piena notte, come in tanti anni non aveva mai fatto.

«Cesari, non passano treni a quest’ora!» gli gridò, sapendo già che lui non avrebbe risposto nemmeno con un cenno del capo. Si soffermò a guardarlo nel buio, nella sua posizione di sempre, con le mani appoggiate al bastone.
D’improvviso sentì un boato squarciare il silenzio, come salisse dalle viscere della pianura e poi attorno a lui tutto iniziò a vibrare e a spaccarsi in un frastuono di rumori sconosciuti.
Corse giù per le scale rischiando di cadere, aprì la porta che dava sul marciapiede del binario, uscì e vide a pochi metri da lui la sua stazione che si apriva, sventrata dalla forza antica della terra che si era risvegliata. La guardò accasciarsi come fosse di carta, dentro una nube di polvere bianca nel nero della notte.
Poi di colpo tutto tornò fermo come sempre e lui vide che Udilio Cesari stava ancora lì, immobile sulla panchina. Ma alle sue spalle, dove c’era la stazione, adesso si intravedeva nell’oscurità solo un cumulo di macerie e la linea lontanissima dell’orizzonte, oltre il silenzio dei campi di grano e dei frutteti.
La seguì con lo sguardo, girando il capo. «Ora ha di nuovo soltanto pianura attorno a lui, pensò.

l’Unità 19.07.12

Vecchi “Liberazione Urru grazie all’impegno di migliaia di persone”

Grande soddisfazione per la liberazione viene espressa da tutto il gruppo Pd in Regione. “Questa felice conclusione, dopo mesi di sofferenza, rappresenta uno stimolo importante per continuare a rafforzare la cooperazione internazionale con la popolazione Saharawi”: lo afferma il consigliere regionale Pd Luciano Vecchi in merito alla liberazione della cooperante italiana Rossella Urru.
“Innanzitutto vorrei esprimere grandissima soddisfazione per la liberazione di Rossella Urru. – dichiara il consigliere regionale Pd Luciano Vecchi – Abbiamo avuto modo di conoscere direttamente Rossella, nel suo generoso impegno umanitario a favore del popolo Saharawi, al quale la nostra Regione è fortemente legata. L’esito positivo del drammatico rapimento della cooperante italiana è una vittoria non solo della diplomazia, ma della mobilitazione di migliaia di persone tra cittadini, associazioni, movimenti e istituzioni, che si sono spese in prima persona per la sua liberazione, senza abbandonare mai la speranza. Questa felice conclusione – conclude Luciano Vecchi – dopo mesi di sofferenza, rappresenta uno stimolo importante per continuare a rafforzare la cooperazione internazionale con la popolazione Saharawi, rifugiata ormai da decenni in Algeria. È un impegno in cui tanti cittadini, associazioni e istituzioni emiliano-romagnole credono da anni”.

Cinecittà: Ghizzoni (Pd), piano industriale non è questione privatistica

“Il piano industriale di Cinecittà non può, e non deve, restare una questione privatistica. Il Parlamento, e in particolare la Commissione competente, hanno il compito di verificare lo stato di un patrimonio professionale, culturale e industriale, riconosciuto nel panorama internazionale – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, annunciando per giovedì prossimo l’audizione in Commissione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori di Cinecittà – L’audizione della delegazione dei lavoratori di Cinecittà è solo un primo passo che la commissione compirà per fare luce su quanto sta accadendo nel più importante polo cinematografico del Paese. Nei prossimi giorni – annuncia Ghizzoni – chiederemo di audire anche il Ministro Ornaghi.

Lo Stato continua a trattenere una quota del 20% di Cinecittà Studios, pertanto non può esimersi dalla verifica dell’adempimento contrattuale e dal garantire che la vocazione culturale di un luogo simbolo del cinema italiano sia mantenuta. Gli studi di Cinecittà sono un bene comune del nostro Paese e – ha concluso Ghizzoni – come tale devono essere rinnovati e valorizzati, affinché tornino ad essere motore per il rilancio del cinema italiano.”

«I tagli alla ricerca sono un suicidio», intervista a Craig Venter di Elisabetta Tola

Ciò che noi chiamiamo presente, per lui è già passato. Il biologo Craig Venter, tra i primi scienziati a sequenziare il genoma umano, racconta le tecnologie studiate dai suoi laboratori per fare fronte alle sfide del futuro. Mentre la popolazione mondiale viaggia verso gli 8 miliardi di abitanti, la biologia si prepara a fornire soluzioni per fronteggiare carestie, pandemie e cambiamenti climatici. Con la biologia sintetica, per esempio, si può sfruttare l’anidride carbonica rilasciata dalle industrie per produrre cibo e carburanti «verdi», mentre lo studio del Dna consentirà di trasformare le informazioni genetiche scambiate via internet in materia vivente.
«Possiamo trasformare questo pianeta ma la ricerca deve avanzare», dice Venter. Che aggiunge: «Le organizzazioni che non si rinnovano sono destinate a diventare un ricordo del passato. E questo vale anche per le università».
La genetica, lei sostiene, rappresenta una promessa per rafforzare la sicurezza alimentare. Quali sono i problemi da affrontare?
«Entro 11 anni si prevede che avremo un miliardo di persone in più sul pianeta Terra. La popolazione è cresciuta in proporzioni preoccupanti e oggettivamente pericolose. Questo ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle risorse dei mari, delle terre coltivabili, dell’acqua dolce, che per il 70 per cento è impiegata in agricoltura. Non stiamo vivendo a ritmi sostenibili e servono soluzioni. Stiamo provando a dimostrare che la biologia può offrire risposte a questi problemi. Il Dna sintetico ci potrebbe aiutare a creare processi biologici che possano sfruttare l’anidride carbonica presente in atmosfera. Al momento stiamo sfruttando carbone e petrolio. Bruciandoli immettiamo anidride carbonica in atmosfera. Noi vogliamo provare a riciclare quell’anidride carbonica, una sostanza che è alla base di tutto ciò che mangiamo. Possiamo quindi usarla per produrre idrocarburi e cibo. Ma dobbiamo cominciare presto, prima che l’ambiente sia compromesso per sempre.
L’agricoltura, in questo senso, andrebbe incontro a trasformazioni profonde. Siamo pronti a questi cambiamenti?
«Naturalmente l’agricoltura è uno snodo decisivo nello sviluppo delle civiltà, ma bisogna ammettere che non è cambiata molto nel corso dei centomila anni di sviluppo delle culture umane. La produttività delle attività agricole è molto inferiore rispetto alle possibilità che abbiamo, come la possibilità di progettare nuove cellule. Se si prova per esempio a produrre carburanti dal mais, si ottengono poco più di 65 litri di carburante per ogni acro (0.4 ettari) (insomma ca 120 litri per ettaro). Questo è pochissimo. Stiamo lavorando sulle alghe, per ottenere da 35mila a 50mila litri per acro per anno. Dobbiamo compiere una rivoluzione del nostro modo di intendere l’agricoltura. Non significa gettare via tutte le cose buone e gustose che mangiamo a tavola, dalla frutta alle verdure, ma di intervenire su quell’agricoltura dalla quale proviene il grosso di quello che consumiamo: il mais, la soia, le farine, che occupano gran parte dei terreni. Possiamo ottenere le stesse proteine facilmente, però moltiplicando per dieci l’efficienza delle lavorazioni».
«Come si conciliano questi obiettivi con le posizioni di chi vuole conservare un buon livello di biodiversità?
«La biodiversità è molto importante. Se dovessimo produrre un ambiente geneticamente omogeneo, andremmo a creare una situazione molto fragile, a rischio di immediata scomparsa. Siamo ora in Irlanda, una nazione segnata dalla carestia causata dai raccolti di patate distrutti da una malattia delle piante. Già allora le coltivazioni erano così uniformi da porre a rischio la loro sopravvivenza. Ciascuna varietà vegetale può essere cancellata da un virus e portare le popolazioni alla fame. Non possiamo più permetterci di correre rischi di questo genere».
«A proposito di sicurezza e geni, un’altra minaccia è rappresentata dalle pandemie.
«Serve un metodo per seguire e conoscere esattamente i virus che ci minacciano, ricorrendo agli strumenti della biologia. La possibilità di sequenziare il Dna ci permette di sintetizzare nuovi vaccini più in fretta che in qualunque film di fantascienza. Eppure la ricerca sui vaccini viene fatta ancora sulle uova di pollo! Come se fossimo rimasti indietro di un secolo. Si creano mega-laboratori centralizzati e costosi, quando si potrebbe ricorrere a un sistema distribuito di centri di ricerca, anche grazie alla possibilità di trasferire tutto ciò che è biologico in modelli digitalizzati. Presto si potrà immagazzinare l’informazione genetica nello stesso registratore digitale che stiamo utilizzando per questa intervista e poi convertire quei dati in materia vivente. I laboratori specializzati sono una cosa del passato. In futuro avremo delle stampanti che creano materia vivente».
Lei sembra muoversi tra diverse discipline e si occupa di diversi problemi allo stesso tempo. Quali sono i pregi di questo approccio?
«Cito l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che ha detto che ogni organizzazione ha bisogno di almeno un generalista, ed è meglio che quella persona sia il capo. Ho lavorato con una squadra fantastica di 400 ricercatori, molti sono super-specializzati ma per me la scienza è come un’orchestra che ha bisogno di un direttore che metta a frutto il meglio di ciascuno. È stato grazie a questo che un piccolo istituto di ricerca come il nostro è riuscito a compiere più scoperte di grandi organizzazioni con cento volte le nostre dimensioni, i nostri fondi e il nostro personale. Noi non abbiamo barriere, dipartimenti. La gente collabora e si specializza sui problemi che affronta. L’approccio multidisciplinare è cruciale per il futuro. Le organizzazioni che non sono in grado di trasformarsi sono destinate a diventare ricordi del passato».
«La scienza per lei è stata anche una sfida economica. Come si conciliano le attività di ricerca con l’esigenza di seguire anche gli aspetti economici delle attività di ricerca?
«Non ho notizia di scienziati di successo che al tempo stesso non siano in parte imprenditori. Produrre risultati significa mettere in campo un approccio imprenditoriale all’attività di ricerca, non solo per quanto riguarda la ricerca di risorse ma anche nell’ elaborazione dei concetti. Nel senso più vasto del termine, la scienza è la disciplina di riferimento per la ricerca della verità, di risposte, di soluzioni ai problemi attraverso la conoscenza. Non è una torre d’avorio popolata da individui irrilevanti per la società. La si può definire un “processo decisionale basato sull’evidenza dei fatti”, e in questo senso è il tipo di cose che non piacciono ai politici, i quali preferiscono sempre basare le loro decisioni su presunti dati di fatto creati ad arte. La scienza, invece, più di ogni altra disciplina, è la ricerca della verità. Non interessa molto al sistema giuridico o legislativo. E neanche alla religione. I governi potrebbero avere interesse nella scienza, quanto potrebbero non averne. Resta il fatto che la scienza è l’unica disciplina basata sulla ricerca del vero, della comprensione del mondo che ci circonda, di informazioni che possano rappresentare la base di soluzioni che aiutino tutti a vivere meglio».
Mentre ci sono scienziati che sostengono di non volersi arricchire con la scienza, sentiamo di governi che tagliano i fondi per la ricerca. Pensa si possa fare ricerca anche senza investimenti?
«Purtroppo molti scienziati, se non proprio la maggior parte, sono dei “follower”, sono restii a prendere iniziative di cambiamento. Le università hanno interesse ai finanziamenti che ricevono grazie ai ricercatori che ci lavorano e non sembrano interessate a una trasformazione dello status quo. Ma ovunque si assiste all’assottigliamento dei bilanci e questo ci impone di cercare nuove strategie per distribuire le risorse disponibili per realizzare il massimo beneficio per la società. Di recente ho rilasciato un’ intervista in Spagna su questo. Ho detto che i governi devono riflettere. Se si taglia la ricerca di base si crea una situazione irreversibile. Se si taglia oggi, sarà inutile tentare di riavviare la ricerca l’anno prossimo perché a quel punto servono almeno 20 anni per tornare al punto di prima. I tagli spazzano via generazioni di ricercatori. Ci sono Paesi dove ormai la ricerca non è più in grado di riprendersi. Quindi i tagli sugli investimenti in ricerca sono falsa economia perché a oggi la nostra società, composta da oltre 7 miliardi di persone, dipende totalmente dalla scienza. Dalla scienza dipende il futuro. Non è un passatempo per aristocratici annoiati. Siamo troppi, consumiamo troppo, dobbiamo trovare nuove soluzioni prima che sia troppo tardi. Ecco perché le nazioni che smettono di investire in ricerca sono destinate a scomparire».

L’Unità 19.07.12