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«I tagli alla ricerca sono un suicidio», intervista a Craig Venter di Elisabetta Tola

Ciò che noi chiamiamo presente, per lui è già passato. Il biologo Craig Venter, tra i primi scienziati a sequenziare il genoma umano, racconta le tecnologie studiate dai suoi laboratori per fare fronte alle sfide del futuro. Mentre la popolazione mondiale viaggia verso gli 8 miliardi di abitanti, la biologia si prepara a fornire soluzioni per fronteggiare carestie, pandemie e cambiamenti climatici. Con la biologia sintetica, per esempio, si può sfruttare l’anidride carbonica rilasciata dalle industrie per produrre cibo e carburanti «verdi», mentre lo studio del Dna consentirà di trasformare le informazioni genetiche scambiate via internet in materia vivente.
«Possiamo trasformare questo pianeta ma la ricerca deve avanzare», dice Venter. Che aggiunge: «Le organizzazioni che non si rinnovano sono destinate a diventare un ricordo del passato. E questo vale anche per le università».
La genetica, lei sostiene, rappresenta una promessa per rafforzare la sicurezza alimentare. Quali sono i problemi da affrontare?
«Entro 11 anni si prevede che avremo un miliardo di persone in più sul pianeta Terra. La popolazione è cresciuta in proporzioni preoccupanti e oggettivamente pericolose. Questo ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle risorse dei mari, delle terre coltivabili, dell’acqua dolce, che per il 70 per cento è impiegata in agricoltura. Non stiamo vivendo a ritmi sostenibili e servono soluzioni. Stiamo provando a dimostrare che la biologia può offrire risposte a questi problemi. Il Dna sintetico ci potrebbe aiutare a creare processi biologici che possano sfruttare l’anidride carbonica presente in atmosfera. Al momento stiamo sfruttando carbone e petrolio. Bruciandoli immettiamo anidride carbonica in atmosfera. Noi vogliamo provare a riciclare quell’anidride carbonica, una sostanza che è alla base di tutto ciò che mangiamo. Possiamo quindi usarla per produrre idrocarburi e cibo. Ma dobbiamo cominciare presto, prima che l’ambiente sia compromesso per sempre.
L’agricoltura, in questo senso, andrebbe incontro a trasformazioni profonde. Siamo pronti a questi cambiamenti?
«Naturalmente l’agricoltura è uno snodo decisivo nello sviluppo delle civiltà, ma bisogna ammettere che non è cambiata molto nel corso dei centomila anni di sviluppo delle culture umane. La produttività delle attività agricole è molto inferiore rispetto alle possibilità che abbiamo, come la possibilità di progettare nuove cellule. Se si prova per esempio a produrre carburanti dal mais, si ottengono poco più di 65 litri di carburante per ogni acro (0.4 ettari) (insomma ca 120 litri per ettaro). Questo è pochissimo. Stiamo lavorando sulle alghe, per ottenere da 35mila a 50mila litri per acro per anno. Dobbiamo compiere una rivoluzione del nostro modo di intendere l’agricoltura. Non significa gettare via tutte le cose buone e gustose che mangiamo a tavola, dalla frutta alle verdure, ma di intervenire su quell’agricoltura dalla quale proviene il grosso di quello che consumiamo: il mais, la soia, le farine, che occupano gran parte dei terreni. Possiamo ottenere le stesse proteine facilmente, però moltiplicando per dieci l’efficienza delle lavorazioni».
«Come si conciliano questi obiettivi con le posizioni di chi vuole conservare un buon livello di biodiversità?
«La biodiversità è molto importante. Se dovessimo produrre un ambiente geneticamente omogeneo, andremmo a creare una situazione molto fragile, a rischio di immediata scomparsa. Siamo ora in Irlanda, una nazione segnata dalla carestia causata dai raccolti di patate distrutti da una malattia delle piante. Già allora le coltivazioni erano così uniformi da porre a rischio la loro sopravvivenza. Ciascuna varietà vegetale può essere cancellata da un virus e portare le popolazioni alla fame. Non possiamo più permetterci di correre rischi di questo genere».
«A proposito di sicurezza e geni, un’altra minaccia è rappresentata dalle pandemie.
«Serve un metodo per seguire e conoscere esattamente i virus che ci minacciano, ricorrendo agli strumenti della biologia. La possibilità di sequenziare il Dna ci permette di sintetizzare nuovi vaccini più in fretta che in qualunque film di fantascienza. Eppure la ricerca sui vaccini viene fatta ancora sulle uova di pollo! Come se fossimo rimasti indietro di un secolo. Si creano mega-laboratori centralizzati e costosi, quando si potrebbe ricorrere a un sistema distribuito di centri di ricerca, anche grazie alla possibilità di trasferire tutto ciò che è biologico in modelli digitalizzati. Presto si potrà immagazzinare l’informazione genetica nello stesso registratore digitale che stiamo utilizzando per questa intervista e poi convertire quei dati in materia vivente. I laboratori specializzati sono una cosa del passato. In futuro avremo delle stampanti che creano materia vivente».
Lei sembra muoversi tra diverse discipline e si occupa di diversi problemi allo stesso tempo. Quali sono i pregi di questo approccio?
«Cito l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che ha detto che ogni organizzazione ha bisogno di almeno un generalista, ed è meglio che quella persona sia il capo. Ho lavorato con una squadra fantastica di 400 ricercatori, molti sono super-specializzati ma per me la scienza è come un’orchestra che ha bisogno di un direttore che metta a frutto il meglio di ciascuno. È stato grazie a questo che un piccolo istituto di ricerca come il nostro è riuscito a compiere più scoperte di grandi organizzazioni con cento volte le nostre dimensioni, i nostri fondi e il nostro personale. Noi non abbiamo barriere, dipartimenti. La gente collabora e si specializza sui problemi che affronta. L’approccio multidisciplinare è cruciale per il futuro. Le organizzazioni che non sono in grado di trasformarsi sono destinate a diventare ricordi del passato».
«La scienza per lei è stata anche una sfida economica. Come si conciliano le attività di ricerca con l’esigenza di seguire anche gli aspetti economici delle attività di ricerca?
«Non ho notizia di scienziati di successo che al tempo stesso non siano in parte imprenditori. Produrre risultati significa mettere in campo un approccio imprenditoriale all’attività di ricerca, non solo per quanto riguarda la ricerca di risorse ma anche nell’ elaborazione dei concetti. Nel senso più vasto del termine, la scienza è la disciplina di riferimento per la ricerca della verità, di risposte, di soluzioni ai problemi attraverso la conoscenza. Non è una torre d’avorio popolata da individui irrilevanti per la società. La si può definire un “processo decisionale basato sull’evidenza dei fatti”, e in questo senso è il tipo di cose che non piacciono ai politici, i quali preferiscono sempre basare le loro decisioni su presunti dati di fatto creati ad arte. La scienza, invece, più di ogni altra disciplina, è la ricerca della verità. Non interessa molto al sistema giuridico o legislativo. E neanche alla religione. I governi potrebbero avere interesse nella scienza, quanto potrebbero non averne. Resta il fatto che la scienza è l’unica disciplina basata sulla ricerca del vero, della comprensione del mondo che ci circonda, di informazioni che possano rappresentare la base di soluzioni che aiutino tutti a vivere meglio».
Mentre ci sono scienziati che sostengono di non volersi arricchire con la scienza, sentiamo di governi che tagliano i fondi per la ricerca. Pensa si possa fare ricerca anche senza investimenti?
«Purtroppo molti scienziati, se non proprio la maggior parte, sono dei “follower”, sono restii a prendere iniziative di cambiamento. Le università hanno interesse ai finanziamenti che ricevono grazie ai ricercatori che ci lavorano e non sembrano interessate a una trasformazione dello status quo. Ma ovunque si assiste all’assottigliamento dei bilanci e questo ci impone di cercare nuove strategie per distribuire le risorse disponibili per realizzare il massimo beneficio per la società. Di recente ho rilasciato un’ intervista in Spagna su questo. Ho detto che i governi devono riflettere. Se si taglia la ricerca di base si crea una situazione irreversibile. Se si taglia oggi, sarà inutile tentare di riavviare la ricerca l’anno prossimo perché a quel punto servono almeno 20 anni per tornare al punto di prima. I tagli spazzano via generazioni di ricercatori. Ci sono Paesi dove ormai la ricerca non è più in grado di riprendersi. Quindi i tagli sugli investimenti in ricerca sono falsa economia perché a oggi la nostra società, composta da oltre 7 miliardi di persone, dipende totalmente dalla scienza. Dalla scienza dipende il futuro. Non è un passatempo per aristocratici annoiati. Siamo troppi, consumiamo troppo, dobbiamo trovare nuove soluzioni prima che sia troppo tardi. Ecco perché le nazioni che smettono di investire in ricerca sono destinate a scomparire».

L’Unità 19.07.12