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"Il mosaico della ripresa", di Pier Paolo Baretta

La buona notizia è che, secondo Bankitalia, nel 2013 la nostra economia riprenderà. Per intanto il Pil viaggia verso meno 2% e la disoccupazione a meno 11%. Ma, c’è da augurarsi che abbia ragione la nostra Banca centrale, perché la notizia cattiva è che la speculazione non smette di insidiarci. Il diffuso timore che il mese di agosto rappresenti una occasione ghiotta per gli speculatori sta assillando il governo e accentua la incertezza del quadro nel quale siamo chiamati ad operare e che il ministro Grilli non ha nascosto nel suo intervento alla camera. Come se non bastasse, il presidente Monti ha dichiarato, nei giorni scorsi, che più ci avviciniamo alle elezioni più l’attacco speculativo contro l’Italia aumenterà. Il che sposta esplicitamente sul quadro politico la querelle finanziaria.
Ciò che appare più preoccupante, per noi, infatti, non è tanto la adozione di politiche rigorose di risanamento, che condividiamo, ma lo scarto, che c’è, tra le fatiche che stanno facendo i governi e i popoli per risanare i conti e rilanciare l’economia e il non riconoscimento di questi sacrifici da parte dei mercati. Ogni sforzo sembra insufficiente a placare la loro sete di guadagno o le paure di rimetterci.
Ad ogni risultato raggiunto (il pareggio di bilancio, l’aumento dell’età pensionabile, la flessibilità) che sembravano gli obiettivi inderogabili da raggiungere, la posta aumenta, ci si propone un nuovo, più sofisticato livello. Viene davvero in mente l’esempio del videogioco più volte citato da Tremonti, il quale, però, ha dimostrato di non saperci giocare. Questa spirale va spezzata con una strategia europea ed italiana più aggressiva, coraggiosa, non subalterna alla arbitrarietà dei criteri di Moody, ma, al tempo stesso, attentissima ai segnali che gli investitori ci mandano.
Innanzitutto facendo fino in fondo la nostra parte per abbattere il debito e risanare i conti. Il nostro 123% è insostenibile e almeno in parte dobbiamo risolvercelo da soli , prima di ricorrere, eventualmente, al fondo salva-stati. L’approvazione in questi giorni, nel parlamento italiano del fiscal compact (mentre la Germania lo rinvia), il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio, una più coraggiosa politica di riduzione e riqualificazione della spesa pubblica e di dismissioni del patrimonio, sono i capisaldi di questa linea.
Contemporaneamente, è ormai inderogabile adottare una politica di investimenti pubblici e di incentivi per quelli privati per invertire la tendenza recessiva in atto. Dunque: ci si accontenti del pareggio di bilancio e si destini alla crescita l’avanzo previsto; tutto ciò che si recupera dall’evasione vada subito a ridurre il peso delle tasse su impresa e lavoro; si estendano ad altri settori, a partire dalle infrastrutture, incentivi fiscali come il 50% per l’edilizia; ampliare alle reti di impresa i project bond, destrutturare il patto di stabilità… le idee non mancano.
Infine, bisogna tenere alta la pressione italiana nei confronti dell’Europa per favorire una maggiore attenzione alla crescita ed adottare nuove regole europee di controllo dei mercati finanziari, sull’onda di quanto si fa in America sui derivati e istituire, finalmente, una agenzia europea di valutazione. Serve dunque, un disegno unitario. Affrontare i vari decreti uno per volta è una esigenza tecnica, ma, ormai, ci vuole il quadro generale. Il tempo passa e le elezioni si avvicinano. Dunque, dobbiamo chiedere a Monti, Grilli, Passera, Fornero & Co. di mettere tutto sul tavolo. Spending review 1, 2, 3; salva e cresci-Italia, delega fiscale, esodati e pubblico impiego, Province e dintorni, ecc. sono tutti tasselli di un unico mosaico che dovrà approdare alla ormai imminente legge di stabilità.
Se tenere insieme crescita economica, stabilità finanzaria e politica è la sfida che ci viene lanciata dai mercati nel nuovo livello del grande videogioco il cui traguardo è la governabilità, noi, che vogliamo governare, solo così facendo possiamo sperare di vincere, non solo le elezioni.

da Europa Quotidiano 19.07.12

"Vent’anni, nessuna verità", di Walter Veltroni

Credevamo di avere visto il peggio, col cratere di Capaci che inghiottiva, come in un bombardamento, la vita di Giovanni Falcone, di sua moglie e dei ragazzi della scorta. Credevamo che il fondo fosse stato toccato se la mafia poteva permettersi una dichiarazione di guerra così aperta e sfacciata, non un omicidio (ché quelli ne aveva consumati a decine anche contro i vertici dello stato e della politica) ma una strage, con una tattica che sembrava rovesciare le vecchie regole mafiose. Credevamo. Ma fummo costretti a vedere di più, un fondo ancora più buio.
Vent’anni fa a via D’Amelio, sotto le finestre della vecchia madre Maria Lepanto, la mafia metteva in scena un nuovo atto terroristico: un’autobomba ammazzava Paolo Borsellino e con lui Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quando qualcuno dice che sembrava Beirut e non Palermo non sta esagerando: la strada a brandelli, le case bucherellate, le finestre infrante, un groviglio di vetri, schegge, rottami e corpi. Credo che venti anni dopo si debba raccontare e ricordare anche quella sensazione terribile di orrore e di vuoto nello stomaco che le immagini lanciate dalla tv (e che in pochi minuti fecero il giro del mondo) lasciarono negli occhi e nella coscienza dell’Italia.
Sto parlando del paese che ne aveva viste di tutti i colori, aveva pianto per Moro, aveva urlato per la strage della stazione di Bologna ma che si trovava ora davanti ad una ripetuta, impudente, dichiarazione di guerra sul suo territorio, contro i suoi rappresentanti, contro i suoi uomini migliori. È il nostro passato, un passato terribile e pieno di ombre e di segreti, un passato che non vuole passare proprio perché ha lungamente macchiato i giorni, gli anni, gli eventi che sono seguiti. Ricordare oggi i vent’anni dall’uccisione di Paolo Borsellino non è solo ricordare una persona straordinaria o rileggere una pagina di storia ma prendere degli impegni. Chi lo conosceva bene ricorda gli ultimi 57 giorni di vita di Paolo Borsellino (quelli che passarono tra l’uccisione di Falcone e l’attentato contro di lui) come un lungo terribile viaggio di avvicinamento. Eppure quelli furono giorni davvero straordinari, nel male come nel bene.
Furono giorni che avevano un dritto e un rovescio. Nel rovescio ci metto la crudeltà della mafia stragista, l’incapacità dello stato di fermarla e, peggio, quel pezzo di anti-stato che tramava e trattava, che permetteva o addirittura preparava delitti peggiori. Nel dritto ci metto la coscienza che cambiava. Le immagini strazianti dei funerali di Falcone, la voce spezzata di Rosaria Costa Schifani, le urla dei ragazzi delle scorte furono un trauma terribile ma anche positivo se trenta giorni dopo una catena umana allacciava il palazzo di giustizia e la casa di Falcone in un abbraccio che metteva insieme la città. C’è un piccolo ricordo di Borsellino di quei giorni, una cena con un gruppo di colleghi e di carabinieri in un ristorante. Il cuoco chiese di conoscerlo e lo abbracciò piangendo. I due rimasero a parlare a bassa voce come vecchi amici. E il magistrato raccontò ai commensali: «Mi ha detto che la Palermo degli onesti, dei padri di famiglia sta dalla nostra parte».
La strage di via D’Amelio fu seguita da anni e mesi terribili. Ora sappiamo che l’inchiesta fu deviata, che falsi pentiti si autoaccusarono come autori materiali, che sono rimasti in carcere per 17 anni vincolati da questo depistaggio deciso certo dalla mafia ma a cui collaborarono indagini fasulle, convenienze dell’anti-stato. E continuò la stagione dello stragismo.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’altra autobomba esplose in via dei Georgofili, una stradina nascosta tra gli Uffizi e l’Arno. Morirono in 5 tra cui una bambina. Due mesi dopo in una notte di bombe saltarono un pezzo della Basilica di San Giovanni in Laterano e il porticato della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma e una bomba fece cinque morti a Milano a via Palestro, davanti a un padiglione dell’Accademia di Brera.
La strategia era colpire vite umane innocenti e luoghi dell’arte, luoghi che Totò Riina e gli altri non avevano neppure mai sentito nominare. Quella notte le comunicazioni di Palazzo Chigi saltarono e il presidente del consiglio Ciampi, tornato a Roma di corsa, tenne una riunione a lume di candela, quasi che gli ospiti indesiderati fossero loro, lo stato, e non l’antistato che aveva la regia di quelle trame stragiste. Come sempre quando l’Italia sta per prendere la strada del cambiamento intervengono le forze più oscure: quando parlo di antistato annidato nello stato penso alla trattativa che fu condotta con la mafia, dell’occultamento sistematico della verità, alla strategia della paura che vediamo emergere drammaticamente dalle indagini e dalle verità nuove che scoperchiano falsità e verità di comodo.
E oggi? Oggi c’è bisogno di spezzare definitivamente quel rovescio e di riprendere a tessere quel dritto delle coscienze dei cittadini. In questi anni di mio lavoro nella commissione antimafia mi sono impegnato, ci siamo impegnati, perché la verità, anche quella più nascosta fosse fatta. La commissione ha lavorato, così come hanno lavorato i magistrati. È un lavoro che continueremo perché della verità abbiamo bisogno, dipanando la matassa imbrogliata dei depistaggi, le trame fitte e oscure. Un lavoro che parte dal passato ma guarda in avanti, per restituire ai cittadini una politica che si liberi di vecchi legami e indicibili paure. E questo lo faremo assieme a loro, ad un nuovo protagonismo di tutti per la legalità.
È un obiettivo possibile, per il quale serve ancora uno sforzo straordinario di tutti, che si raggiunge con la concordia, non certo con le lacerazioni e le contrapposizioni.

da Europa Quotidiano 19.07.12

"Stralciare il comparto ricerca dalla spending review" di Roberto Gualtieri

Fin dal 2008 le classi dirigenti più avvedute dei maggiori paesi mondiali si sono date l’obiettivo di trovare risorse da investire nella formazione e nella ricerca come risposta a breve e a lungo termine alla crisi economica. Per usare le parole del ministro statunitense dell’istruzione, ci si è impegnati per «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare». L’Italia ha rappresentato un’eccezione a questa strategia generale: fin dal 2005 infatti il nostro Paese ha avviato una lunga opera di ridimensionamento delle risorse pubbliche per la formazione e la ricerca. La decisione è stata giustificata con la teoria del «secchio bucato»: l’inutilità cioè di risorse impiegate in un presunto sistema inefficiente, destinato inevitabilmente a disperderle in sprechi. Questa linea ha caratterizzato governi di opposti schieramenti, sia pure con una differenza fondamentale.
Negli anni del centro-sinistra, tra il 2006 e il 2008, i tagli delle risorse alla scuola, all’università e alla ricerca sono stati parte di una generale strategia di diminuzione del debito pubblico; in quelli del centro-destra invece l’intero comparto ha subìto una fortissima contrazione (la più rilevante dell’intera storia unitaria), mentre il resto della spesa pubblica si è ampliato: si è compiuto in questo modo un trasferimento di risorse pubbliche verso altri settori. Quei tagli si sono rivelati un errore grave: sono stati fatti con l’intento di concentrare la spesa sui segmenti qualitativamente migliori del sistema (di «chiudere i buchi del secchio»). Il risultato è stato il trasferimento di risorse dal Sud al Nord della penisola, dalla provincia ai maggiori centri urbani, dai ceti sociali più deboli a quelli più forti. La teoria del secchio bucato è semplicemente sbagliata. Ora c’è un fatto nuovo. L’attuale governo tecnico ha posto le premesse per un ripensamento di questa strategia: i provvedimenti di spesa pubblica sono stati preceduti da un rapporto di analisi sull’andamento della spesa negli ultimi 15 anni (il documento illustrato dal ministro Piero Giarda, nel maggio scorso), rapporto in cui la storia che abbiamo fin qui riassunto è esposta lucidamente nei suoi elementi salienti. Al momento delle decisioni, ne è scaturito però un risultato insoddisfacente: è vero che per la prima volta da sette anni una manovra di finanza pubblica non prevede riduzioni al comparto della scuola e dell’università (i 200 milioni di taglio al sistema universitario, inizialmente previsti, sono stati poi cancellati per effetto dei numerosi interventi contrari, tra cui quelli del Pd e della conferenza dei rettori, anche sull’«Unità»). Dall’altra parte però sono proposti tagli molto forti agli enti di ricerca: un provvedimento ingiustificato perché interviene su alcune delle nostre istituzioni migliori, in cui la presenza di un margine finanziario operativo eccedente al mero pagamento degli stipendi è ciò che consente all’Italia di esprimersi ancora in alcuni settori di punta della scienza. Siamo arrivati al paradosso grottesco dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, elogiato al mattino per le sue eccezionali scoperte svolte al Cern in questi giorni, e oggetto la sera stessa del taglio più pesante tra quelli programmati agli enti di ricerca.

È giunto il momento che le forze politiche di maggioranza intervengano per superare l’ambiguità e aiutare il governo a compiere la svolta. Il Pd in particolare può farsi promotore presso il governo di tre azioni: primo, stralciare l’intero comparto della formazione e della ricerca dai provvedimenti di riduzione della spesa (come giustamente è stato proposto in questi giorni dai democratici di Roma). Secondo, impedire l’innalzamento della contribuzione studentesca negli atenei (e dare quindi corso all’ordine del giorno presentato dai Giovani democratici e approvato nell’assemblea nazionale del Pd lo scorso 14 luglio).
Infine, aiutare il governo a trovare risorse nuove da investire sulla scuola e sull’università, risorse che possano «tenere i giovani a studiare e i professori a insegnare», e consentirci così pienamente di fare la nostra parte per superare questa crisi.

L’Unità 19.07.12

«Nel 2013 un governo del tutto rinnovato Le primarie? Non escludo il doppio turno», intervista a Bersani di Aldo Cazzullo

«È tempo di concentrarci sul Paese, perché si sta facendo dell’Italia il punto di leva per ribaltare il carro dell’euro. O stringiamo almeno le cose che si sono decise, o dobbiamo farci dare qualche margine in più per fronteggiare una recessione che sarà durissima. L’Europa chiede una soluzione al quesito dell’affidabilità dell’Italia. È tempo che la politica si prenda le sue responsabilità: le eccezionalità non danno mai una percezione di affidabilità. Si deve smettere di chiedere: “E dopo Monti cosa succede?”. Predisponiamo un percorso e una competizione: centrodestra contro centrosinistra. Proporrò con le primarie un’offerta di partecipazione per la scelta del leader. E avanzerò una proposta di serietà e rigore con dentro il cambiamento: un governo larghissimamente rinnovato, che dia all’Italia la sensazione di avere energie nuove in campo. Un colpo di reni».
Segretario Bersani, partiamo dall’inizio. Sta dicendo che, se non scattano le misure anti-spread, l’Italia deve poter spendere di più per la ripresa?
«È senza ripresa che spendiamo di più! Noi siamo la cavia dell’attacco all’euro. Lo dice il governatore Visco: 200-250 punti di spread ce li meritiamo; gli altri vengono dall’attacco mirato contro di noi. O troviamo un meccanismo europeo che ci protegga, oppure, siccome siamo gli unici vincolati al pareggio di bilancio in tempi così rapidi, dobbiamo ottenere un margine per fronteggiare la recessione. Saprei anche dove mettere le risorse».
Dove?
«Negli investimenti che portano subito lavoro e innovazione: ossigeno agli enti locali per le piccole opere, casa, efficienza energetica, agenda digitale».
Lei parla di un «governo larghissimamente rinnovato». Questo significa che in caso di vittoria del centrosinistra non ci sarebbe spazio per gli attuali ministri?
«A parte alcuni presìdi essenziali di esperienza, punteremo su una nuova classe dirigente, una nuova generazione. Non sarà un salto nel buio: è gente che ha già fatto esperienza amministrativa».
Nomi?
«Non ne faccio. Ma ce li ho in testa tutti».
E Monti che farà? Potrebbe avere un futuro alla Ciampi, che fu premier di un «governo del presidente» e poi ministro dell’Economia di un governo di centrosinistra?
«Come si dice in questi casi, Monti è una grande risorsa per il Paese. Non spetta a me stabilire quel che farà, ma a lui. La questione “quanto di Monti deve restare dopo il 2013”, che viene posta anche nel mio partito, non tiene conto che questa maggioranza parlamentare non ha un indirizzo univoco. Monti intanto va ringraziato per aver preso in mano un Paese sull’orlo del precipizio. Fa i suoi errori, come tutti. Io gli sono leale; anche per questo credo di aver diritto di segnalarli. Ma Monti è il pompiere. L’incendiario è un altro».
Il ritorno di Berlusconi rende impossibile le grandi intese nel 2013?
«Per l’amor di Dio! Qualunque sia il leader della destra, l’Italia ha diritto a una democrazia che funzioni con due polmoni, a uscire dall’eccezionalità. Il fatto poi che ci sia Berlusconi è grave perché il mondo ci guarda, e può pensare: davvero gli italiani ritornano lì? Vorrei tranquillizzare tutti: Berlusconi non vincerà. Né vogliamo passare mesi a pane e Berlusconi, con le sue donne e i suoi processi. L’Italia ha altri problemi».
Quando si faranno le primarie? E come?
«Vediamo di dire una parola definitiva. Io voglio le primarie. Le voglio di coalizione: partiti, associazioni. Benché sia il candidato statutario del Pd, non pretendo di essere il candidato esclusivo. La data non la decidiamo da soli. Immagino che non sarà né troppo lontana né troppo vicina al voto: diciamo entro fine anno».
Farete primarie a doppio turno, come in Francia?
«Anche le regole non le decidiamo da soli. Non lo escludo affatto. Ne discuteremo».
Quali sono i suoi sentimenti nei confronti di Renzi?
«Io gli voglio bene. Vorrei che pure lui volesse bene, non pretendo a me, ma al Pd. E venisse a dire in casa le cose che invece dice fuori».
E di Grillo?
«Grillo è dentro le insorgenze populiste e semplificatrici che da due anni emergono in tutta Europa. Partono da istanze anche giuste e crescono ammucchiando cose indistinte, in cui non c’è più destra né sinistra. Quel che ha detto Grillo della Bindi non è “voce dal sen fuggita”. Si mette in rete quel che si pensa solleciti la pancia del Paese. Io rifiuto in radice questo schema. E ricordo che le prossime elezioni non saranno solo una scelta politica ed economica. In qualche misura saranno anche una scelta di civiltà. E allora bisogna combattere. Se farò un governo io, la sua prima norma riguarderà il diritto dei figli di immigrati nati qui e che studiano qui in Italia a chiamarsi finalmente italiani».
Con quali alleanze affronterà il voto? Non crede che dovrà scegliere tra Casini e Vendola?
«Io sono progressista. Organizzo il campo dei progressisti. Sono sicuro che Vendola sarà dentro questo quadro, che non è solo dei partiti ma anche dei civismi. E mi rivolgo ai moderati. A chi si oppone a Berlusconi, Lega e Grillo, che ci vorrebbero fuori dall’euro, dicono che non si devono pagare i debiti, sono contro gli immigrati».
Ma l’alleanza si farà prima o dopo il voto?
«Casini organizzi il suo campo. Quando ci saranno le elezioni, e quando conosceremo il meccanismo elettorale, vedremo le condizioni concrete di questa proposta. Quando lanciai, due anni fa, un’alleanza tra progressisti e moderati, mi guardavano come se fosse lunare. Invece ci avevo visto».
Tra i moderati c’è anche Fini?
«Non voglio ammucchiate, non sposo nessuno. Vedremo come si organizzerà il loro campo. Propongo un patto di legislatura, per salvare il Paese e riformare la Costituzione senza stravolgerla».
Ci sarà una lista civica a fianco del Pd?
«Non penso a una lista civica. Penso a un patto con i civismi e le cittadinanze attive: la politica si concentra sui grandi temi, e si ritira dai luoghi impropri. Quel che abbiamo fatto alla Rai lo faremo negli altri Cda, nelle Asl, nelle giunte. Perché dev’essere un partito a nominare gli assessori? Dove è possibile sostituiamo al controllo politico quello sociale, partecipativo, democratico. Decidano i cittadini, gli utenti».
Siete disposti al ritorno al proporzionale?
«Noi siamo per il doppio turno. Ma gli altri non lo vogliono. Non vogliono neppure i collegi uninominali maggioritari. Però non ci arrendiamo al Porcellum. Siamo pronti a discutere. Con due paletti. La sera delle elezioni gli italiani devono capire chi governerà, se no sarebbe un disastro, anche per l’Europa; questo implica un premio di governabilità a chi arriva primo, che sia una lista o che siano liste collegate. E i cittadini devono poter scegliere i loro rappresentanti».
Anche con le preferenze?
«Le preferenze fanno aumentare enormemente i costi e questo non piacerebbe agli italiani. E costruiscono un rapporto cittadino-parlamentare molto labile. Meglio piuttosto il sistema delle provinciali, con base significativamente proporzionale ma con i collegi, in cui il partito si presenta con il volto di una persona che può radicare un rapporto con il territorio».
Tra gli errori di Monti c’è anche qualche capitolo della «spending review»?
«Sì. La semplificazione istituzionale e della Pubblica amministrazione si può addirittura rafforzare, ma alcuni meccanismi su sanità e servizi locali rischiano di punire i virtuosi e premiare quelli che sforano. Chiedo di essere ascoltato, come quando lanciai l’allarme sugli esodati. A volte possiamo dare una mano a evitare guai. Fermi restando i saldi, propongo un confronto tra regioni, enti locali e governo per correggere i meccanismi e scrivere entro due mesi un patto da recepire nella legge di stabilità».
Vista la situazione drammatica del Paese, non è un errore che il Pd metta in scena una rissa su un tema pur importante come le nozze gay?
«Siamo l’unico partito che discute sul serio. Non sempre i modi di discutere mi piacciono. Ho visto forzature e personalismi. La chiudo lì: noi proponiamo le unioni gay, nei dintorni della soluzione tedesca. A chi dice che è troppo, rispondo che non possiamo restare fermi alla legislazione di Cipro e Turchia. A chi dice che è poco, rispondo che chi vuol saltare tre scalini alla volta rischia di rimanere al palo. Ricordo che viviamo in un Paese dove non è stato ancora possibile approvare una legge contro l’omofobia».

Il Corriere della Sera 19.07.12

"Part time, asilo e catering così l’ufficio condiviso diventa a misura di donna", di Cinzia Sasso

L’appartamento è al primo piano di una palazzina anni Sessanta: 250 metri quadrati con un salone da 16 postazioni di lavoro; quattro salette con pareti mobili per riunioni; uno spazio relax con chaise longuee piante verdi; la cucina, naturalmente; e poi due aree per bambini divisi per età, con quella dei piccolissimi fino ai tre anni attrezzata come una nursery.
E poi l’ufficio che fornisce i “servizi salvatempo” che vanno dalla fila alla posta alla prenotazione di una visita medica, fino al pieno di benzina per la macchina.
Via Simone d’Orsenigo, un angolo di Milano che tira verso la periferia: è questo l’indirizzo del lavoro del futuro. Il luogo dove, da settembre, partirà un progetto ambizioso e rivoluzionario che legge la realtà, conclude che è superata, e inventa il modello del domani partendo da quello che in America, ad esempio, è diventato regola: il coworking.
Uno degli effetti della crisi è di costringere le aziende a tagliare i costi fissi e i tempi morti e questo modo di lavorare insieme vuole proporre un nuovo sistema: avere un luogo dove si crea una comunità di persone, professionalità, servizi, che costino solo quel tanto che servono e diano vita a network virtuosi in grado di fornire a tutti di più a meno. Soprattutto, il coworking,
può essere un formidabile strumento per incrementare quello che gli studi — a cominciare da quelli della Banca d’Italia, che stimano come conseguenza l’aumento del Pil di un 7% — indicano come un fattore di sviluppo, e cioè il lavoro delle donne. Non è un caso se il progetto “Piano C” nasce dall’idea di una donna: manager di successo fin quando è diventata madre; costretta a fare i conti, poi, con la vecchia mentalità che vuole vederti seduto alla scrivania e che misura la tua produttività non sui risultati ma sul tempo che passi davanti al pc. «È il momento — aggiunge Carlo Mazzola, economista, socio nell’impresa — di sviluppare idee nuove per dare una mano al Paese».
Eppure, nonostante la knowledge economy, nelle imprese, l’organizzazione del lavoro è rimasta quella di cent’anni fa. Le persone continuano a uscire di casa tutte alla stessa ora per arrivare in ufficio e passarci un numero di ore svincolato dai compiti che devono svolgere. E questa rigidità colpisce soprattutto le donne, costrette a impazzire per far quadrare vita professionale e quella familiare. «Noi — spiega Riccarda Zezza, che dopo aver girato il mondo per studiare i modelli propone il suo “Piano C” che sta per Coworking, Cobaby, Community — vorremmo che la vita si riconciliasse con il lavoro e pensiamo che questo sia uno strumento per guardare avanti». Non è forse successo che in Francia una donna, Axelle Lemaire, abbia rinunciato a diventare ministro perché in questo mondo per le donne fare un lavoro impegnativo è ancora un sacrificio intollerabile?
Il “Piano C” è destinato ad avere come interlocutori professioniste e imprenditrici che decidano quanto e quale tempo dedicare a una professione. Donne, ma non solo: saranno ben accetti anche uomini che abbiano però dei figli di cui occuparsi perché uno dei place del progetto è appunto lo spazio per i figli. Mentre mamme e papà lavorano a ore, mentre un maggiordomo assolve ai compiti che in genere spettano alle mogli (bollette, tintoria, spesa, servizio catering, piccole riparazioni), i bambini sono accuditi nello stesso spazio da baby sitter. Il costo — a giorno, settimana o mese — copre tutti i servizi e garantisce la possibilità di occupare lo spazio non in modo stabile, ma per quanto è necessario. Con un’ambizione che vuole trasformare il laboratorio — come scrivono Dario Banfi e Sergio Bologna nel loro Vita da freelance —, in un luogo che crea «la sinergia delle conoscenze e dei sistemi di relazione» e offre la possibilità di «comunicare speranze a affanni». Una ricetta diversa per valorizzare la flessibilità e un modo per vincere la sfida che pare impossibile della conciliazione. Oppure, come scrive Luisa Pogliani nel suo Le donne, il management, la differenza: «Ripensare il lavoro e reinventare l’economia».

La Repubblica 19.08.12

"Unioni gay, la strada verso una soluzione condivisa", di Vladimiro Zagrebelsky

Torna nella discussione pubblica la questione del riconoscimento giuridico da dare alle coppie omosessuali. A Milano il Consiglio comunale esamina la proposta di istituire un registro delle unioni civili: coppie di fatto da assimilare per certi versi alle coppie sposate. Nel Pd il tema ha dato luogo a vivaci contrapposizioni.nV’è dunque motivo per ritornare su un problema ineludibile, che attende ancora soluzione.

Nel diritto italiano e in quello europeo vi sono alcuni punti fermi. Fermi per il momento, poiché l’evoluzione che in materia si è svolta nel passato, è naturalmente destinata a continuare. Ma allo stato attuale si tratta di un punto di arrivo da cui non si può prescindere. La Corte Costituzionale ha affermato che il matrimonio su cui si fonda la famiglia, secondo l’articolo 29 della Costituzione, è quello previsto dal Codice Civile, come unione di persone di sesso diverso. Al tempo stesso la Corte ha ritenuto che il riconoscimento da parte della Repubblica dei diritti fondamentali dell’uomo e delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, secondo l’articolo 2 della Costituzione, riguarda anche l’unione omosessuale. Essa è «intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Ma non v’è omogeneità tra il matrimonio cui la Costituzione si richiama e l’unione omosessuale. Il riconoscimento giuridico di quest’ultima non richiede necessariamente l’equiparazione al matrimonio, come dimostra la varietà delle soluzioni adottate dai vari Paesi europei. Spetta quindi al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire, mediante il controllo di ragionevolezza delle soluzioni legislative, a tutela di specifiche situazioni, che richiedano un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale.

Nel diritto europeo dei diritti umani, cui l’Italia è vincolata, da un lato si afferma che la soluzione di ammettere i matrimoni omosessuali è possibile, ma non obbligatoria per gli Stati e, dall’altro però si dice che le unioni omosessuali stabili possono dare origine a una «vita familiare» al cui rispetto gli Stati sono tenuti (articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Vi è una forte sintonia e piena compatibilità tra il diritto costituzionale italiano e il diritto europeo in materia, sia nel riconoscere discrezionalità al legislatore nazionale, sia nel pretendere però che le unioni omosessuali stabili non siano lasciate nel limbo dell’irrilevante, del non riconosciuto dal diritto o addirittura del costretto alla clandestinità. Nelle leggi di molti Stati europei ed anche in quelle italiane, così come nelle decisioni dei giudici, si trovano diversi esempi in cui alle coppie di fatto vengono riconosciuti diritti sociali come quelli delle coppie sposate. Ne sono esempi il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla morte del compagno, il trasferimento del contratto di locazione e altri ancora. Quando poi alla coppia di fatto è riconosciuto un certo diritto, allora da quel diritto non può essere esclusa una coppia per il solo fatto di essere omosessuale, poiché si tratterebbe di discriminazione inammissibile.

Questo il quadro nel quale si colloca la richiesta di introdurre il matrimonio omosessuale. Richiesta ammissibile, ma senza risposta vincolata alla sola soluzione matrimoniale. E d’altra parte, anche per le coppie eterosessuali la tendenza generale sembra essere quella che allarga le possibilità di scelta, senza costringere all’alternativa tra il matrimonio o il nulla. Le numerose soluzioni europee di Pacs, Dico e simili stanno a dimostrare in che senso si evolvano le esigenze sociali. Ed è anche significativo che la scelta matrimoniale, unica disponibile, sia sempre meno adottata da coppie che pur hanno uno stabile progetto di vita comune.

L’introduzione del matrimonio omosessuale, pienamente equiparato a quello tra persone di sesso diverso, trova divisa la società italiana. E la divisione sarebbe anche più evidente quando, come sarebbe necessario, si affrontassero nel dettaglio i vari aspetti collegati al matrimonio. Basta pensare alla possibilità della adozione richiesta dalla coppia omosessuale (ancora in Italia non è ammessa l’adozione da parte del singolo, o da parte della coppia di fatto). E’ sbagliato ritenere che l’opposizione sia solo di parte cattolica e che su questa come su altre questioni che hanno a che fare con l’etica sociale sia possibile tracciare un confine netto, tra una comunità cattolica e una che cattolica non è o non si sente. Intanto è esperienza comune costatare quante differenze di atteggiamento e quante sfumature di opinione esistano tra gli italiani cattolici e poi – frutto della Storia – diverse istanze etiche e sociali sono condivise anche da chi non si richiama all’insegnamento della Chiesa. Sarebbe grave per la società italiana se esistessero due rigidi fronti opposti su temi di questo genere. Facilmente sarebbero campi l’un contro l’altro armato. Ma non è così, per fortuna. Né, in materia, corre una divisione secondo le categorie della destra e della sinistra politica, maggioranza governativa e opposizione. Si tratta di una realtà di cui occorre tener conto. Essa rende difficile arrivare a conclusioni legislative, ma ha il vantaggio di esprimere vitalità democratica e possibilità di evoluzione senza drammi e «guerre di religione». La pretesa di ottenere la soluzione maggiore, quella matrimoniale, in questo quadro sociale e politico, contrasta con la via della progressiva risposta alle esigenze legittime di riconoscimento e regolazione, che nessuna persona o gruppo ragionevole potrebbe respingere. Non si tratta di chiudere un discorso che per sua natura non può cristallizzarsi, ma di permettere una soluzione il più possibile condivisa, incapace di urtare chicchessia e idonea a dar riconoscimento ad una realtà sociale che ne ha diritto.

La Stampa 19.08.12

"Silvio e Marcello servi-padroni", di Francesco Merlo

Silvio gli fa il baciamani e lo chiama don Dell’Utro, dove la o che arrotonda e deride al tempo stesso enfatizza e onora il carisma del mistero. Insomma lo svuota e lo carica: lo svuota di mafia per caricarlo di mafiosaggine, ammette e allontana: non delinquente ma uomo di rispetto. Lo stesso uomo — e Berlusconi non capisce — che si rifiuta di andare in tv dai giornalisti compiacenti. «Io — dice — vado da Santoro», ed è vero. Perciò Berlusconi gli bacia la mano, perché non cede alle lusinghe, lo riconosce come duro. Ed è una pantomima che piace ad entrambi, e infatti la raccontano loro stessi. «Ma tu sei solo un tessera P2 — ha pubblicamente detto Dell’Utri a Berlusconi — io invece sono arrivato alla P4». Forse neppure loro sanno chi dei due è il secchio e chi la corda, chi è il doppio e chi è il sosia di chi. Sanno però che l’uno è l’autenticità dell’altro. Nella storia del berlusconismo, inteso come lunghissima amicizia d’affari che poi diventa politica, Berlusconi e Dell’Utri sono anche la finta ingenuità e l’esibita saputaggine, sono il buono e il cattivo (lasciando la parte del brutto a Confalonieri).
Questa ambiguità, che fa di Dell’Utri l’altra faccia di Berlusconi, risale almeno al 1974, alla mitica Immobiliare San Martino, alla Edilnord, alla Fininvest, a Publitalia, a Forza Italia. È una storia che è stata molto raccontata. Ma poco è stato detto su questa ambiguità che è maligna ma sincera. Si sa per esempio che in quel 1974 spuntò per la prima volta il nome di un boss protettore, Stefano Bontade. E forse è una leggenda, come ripete Dell’Utri, ma una cosa è sicura: da quel momento l’ex impiegato di banca palermitano portò in dote a Berlusconi «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». E infatti nelle foto d’epoca Berlusconi esibiva ancora la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori. Oggi si sa che Dell’Utri gliela sostituì con la protezione di uno stalliere mafioso e maestro che divenne il precettore di Piersilvio. Ebbene, a quello stesso Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. Eppure con Dell’Utri, Berlusconi si è sempre comportato come un faraone, lo ha mille volte ricoperto d’oro, e ben prima di quei 21 milioni, sui quali ora indaga la Procura di Palermo, con cui gli ha comprato una villa che ne valeva 9. Berlusconi è una cassaforte che ogni tanto, ma sempre inaspettatamente, si apre per lui: donazioni, assegni circolari, titoli. Nel solo 1993 gli “emolumenti” furono di circa ottocento milioni di lire, e poi regali, ora di duecento milioni e ora di settecento milioni, «e le cifre non erano sempre così importanti, qualche volta mi dava quaranta o cinquanta milioni, dipendeva credo dalle sue disponibilità ». E ogni tanto «mi arrivava una busta anonima in ufficio con dentro delle banconote». E la casa? «Un giorno mi disse “vedo che ci stai bene, tienila, è tua”». Berlusconi, come spiegò Dell’Utri al giudice che se ne meravigliava, è fatto così: gli piace pagare, «ma a sorpresa». Ecco perché Dell’Utri può dire che «non suda», ma aggiungere — con lo stesso gergo, quello dei sensali palermitani — che «offre la minna», porge la mammella da latte.
E infatti la loro amicizia è un fiume di danaro che Dell’Utri ricompensa con la saggezza, con la costruzione prima di Publitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana»: Berlusconi come grande timoniere, il partito come marea montante, e la famiglia da Marina a Barbara, come cupola. E «non fedeltà, ma devozione» predicava Dell’Utri, che è la stessa qualità dello stalliere Mangano, il quale, condannato per mafia e per omicidio, morì in galera per tumore al colon. Dell’Utri è convinto che lo stalliere di Arcore in carcere venne trattato con una severità che rasentava la spietatezza perché lo si voleva convincere ad accusare Berlusconi o lo stesso Dell’Utri. E invece ogni volta che lo interrogavano Mangano ripeteva che Berlusconi era «una persona per bene». Perciò Dell’Utri, come si sa, gli tributò un monumento postumo, un epicedio, definendolo eroe. Per tutti gli altri è il martire dell’omertà, il santo della mafia.
In realtà nel soprannome «stalliere di Arcore » c’è il dio nascosto non solo della vita e della morte di Vittorio Mangano ma anche della vita di Marcello Dell’Utri, è il codice del suo destino, l’idea sulla quale stanno oggi lavorando i giudici di Palermo. Lo stalliere che Dell’Utri portò ad Arcore era già la mafia che si metteva a sua disposizione, perché Dell’utri è «il paesano che ci consegnerà il paese» dicono i pentiti. E la mafia è la stessa che nel 1992 tratterà con lo Stato, l’onorata società che, ucciso Lima, trovò in Dell’Utri il suo gran visir. Vero, falso? Certo è più di un cattivo pensiero e di una malizia. E’ il sospetto di un sodalizio criminale, un’ipotesi di reato che prima o poi arriverà al giudizio. Indizi ce ne sono, sulle prove si vedrà.
E però tutti gli italiani sanno che le vite di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi sono così intrecciate da far pensare appunto alla corda e al secchio, a un unico destino, a un comune pozzo nero. I due hanno percorso insieme le strade tortuose del successo economico, dall’Immobiliare San Martino sino ad oggi, con storie terribili e invenzioni economiche e politiche brillanti e feroci. Insieme hanno fondato Forza Italia, hanno governato e hanno vinto, poi perso le elezioni, poi vinto, parafrasando Montale «hanno salito un milione di scalini dandosi il braccio». Ed è ancora insieme che si dichiarano bersagli di «un giustizialismo politico barbaro». Con la differenza che Dell’Utri civetta con la propria colpevolezza, da duro appunto: «Persino io guardando me stesso dall’esterno mi riconosco come mafioso… E se i mafiosi non dicono che io e Silvio andavamo per mafiosi cosa devo pensare? Che sono persone serie? «Berlusconi invece fa lo spaventato: «E’ ripartito a Palermo il solito circo giudiziario, fischiano contro di me le pallottole delle Procure di regime».
Dell’Utri e Berlusconi sono il reciproco “energheion” direbbero i greci, la risorsa, il deposito di carburante di cui l’uno nutre l’atro. Il siciliano è lo spavento della realtà e il brianzolo è il sorriso volatile dell’etere. Cesare Garboli sintetizzava così: «Li guardi e non capisci chi dei due è il servo e chi il padrone ». Il vero gemello di Marcello Dell’Utri non è infatti il fratello monozigote Alberto, ma Silvio che solo da lui si fa rimproverare e persino strapazzare. Il siciliano alza al cielo le mani giunte e comincia sempre nello stesso modo: «Silvio, non è così». Di Lavitola per esempio gli scandì in faccia: «È cosa e nenti, è una cosa di niente». E le donne di Arcore «sono solo vastasate» cioè volgarità. E la gente nova, dalla Gelmini alla Santanché, «non è buona manco per la schiuma». Silvio invece gli rinfaccia i soldi sprecati per «quel tuo Rotary di vecchi» che è fatto di bibliofilia, di finti diari di Mussolini, delle pagine mancanti di Pasolini, di circoli del buon governo e persino della “Silvio Berlusconi editore” che permette a Dell’Utri di pubblicare La Biblioteca dell’Utopia: Giordano Bruno e Francesco Bacone, Schumpeter, Pico Della Mirandola e, fiore all’occhiello, Il Manifesto del partito comunista con la prefazione che Lucio Colletti gli scrisse poco prima di morire. «Lei quanto spende annualmente in questo tipo di acquisti?» gli chiese il giudice nell’interrogatorio del 1996: «Siamo sull’ordine di decine di milioni, qualche decina di milioni ». Dell’Utri, che è sempre in bolletta, dice a Berlusconi che lo spreco vero «un peccato mortale» è quella Mondadori che pubblica Alfano, Lupi, Bondi, Sacconi… e, ultimo arrivato, Cicchitto, con tanto di presentazione a Roma di Massimo D’Alema. Per Dell’Utri è «come mettere sottosopra la Gioconda», quasi peggio delle iniziative giudiziarie di Ingroia al quale contrappone quello che chiama «lo stile» dello stalliere di Arcore. Dice Dell’Utri: «Chiunque capisce che l’accusa contro di me travolgerebbe Berlusconi ». E non è la minaccia di Romolo al fratello Remo ma la constatazione banale che non ce l’ha fatta a mettete in piedi quella società di ottimati, custodita dai suoi Contestabile, Lino Jannuzzi, i famosi professori, Gianni Baget Bozzo, Vittorio Sgarbi, un gruppetto di giornalisti fiduciosi nella rivoluzione liberale, sui quali è meglio stendere un pietoso velo, la covata di Publitalia, Miccichè e Galan, Massimo De Caro, il famigerato direttore della biblioteca dei Girolamini… Avevano il compito di reclutare soldati della cultura e intanto riscrivere la storia, addomesticare la natura dei tribunali, riformare la giustizia e la Costituzione, liberalizzare l’economia, togliere tasse e manette, lacci e laccioli, domare i pubblici ministeri, abolire il 41 bis, restituire l’onore a Mangano… Tra le macerie di questo progetto è rimasto solo il pozzo nero, con una corda e un secchio. Tiri la corda Dell’Utri e sale il secchio Berlusconi, Un secchio, va da sé, pieno di soldi.

La Repubblica 19.07.12

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“Gli ho costruito l’impero Silvio forse mi deve altri soldi ma non l’ho mai ricattato”, di Alessandra Ziniti

Senatore Dell’Utri, i pm dicono che Berlusconi le ha girato decine di milioni di euro negli ultimi dieci anni. Perché mai? «Saranno pure fatti miei, o no? Ammesso e non concesso che sia vero, a chi interessa? Questa è la solita morbosa curiosità di questi pm malati, sempre voler sapere, chi come, quando, perchè…».
Veramente qui si ipotizza che Berlusconi abbia potuto pagare così il suo silenzio sugli affari con Cosa nostra. Così nasce l’accusa di estorsione.
«Io non ho mai ricattato nessuno, meno che mai il mio amico Silvio. Io ho costruito un impero per Berlusconi e forse di soldi me ne deve ancora…».
Torna a Palermo nel giorno sbagliato Marcello Dell’Utri e tutto avrebbe immaginato tranne che ritrovarsi al centro di una nuova indagine, accusato di estorsione ai danni dell’amico di sempre Silvio Berlusconi, proprio in concomitanza con l’avvio del nuovo processo d’appello per concorso esterno in associazione mafiosa dopo l’annullamento della condanna da parte della Cassazione. Ironizza su tutto, risponde intercalando parolacce ad espressioni paradossali, cita Platone e Montale. L’unico momento in cui si fa serio e cambia espressione in volto è quando ricorda il contributo che ha dato alla costruzione della fortuna del Cavaliere.
Sono tanti questi soldi, però. Solo per la villa sul lago di Como venti milioni di euro, e proprio alla vigilia del verdetto della Cassazione che lei ha atteso all’estero. Più tutti i bonifici documentati dalla Guardia di Finanza. Ammetterà che i sospetti dei pm di Palermo hanno qualche fondamento.
«Nessuno. Qui sono pazzi, non capiscono un cazzo. La vendita della villa non c’entra nulla con la sentenza della Cassazione. Quella villa era in vendita da due anni e il suo valore è di 30 milioni di euro. Io a Berlusconi gliel’ho data a 20, gli ho fatto un regalo. La verità è che qui vivono in un altro mondo. Io ogni volta che vengo qui penso di essere un’altra persona e questo sdoppiamento di personalità è quello che mi salva perché se pensassi di essere veramente il Marcello Dell’Utri che loro vorrebbero che io fossi ci sarebbe da spararsi. Il problema è che qui non si finisce mai».
Torniamo ai suoi rapporti con Berlusconi. Anche nella sentenza della Cassazione è definito una vittima.
«È vittima? E perché non denuncia? L’accusa di estorsione è una cosa ridicola, senza senso, frutto di fanatismo e prevenzione. Io non ho mai ricattato nessuno. Forse mia moglie mi ricatta la mattina quando mi chiede “piccioli”? Quest’indagine nasce solo dall’annuncio del ritorno in campo di Berlusconi. Mica penserà che è un caso, la solita coincidenza?. Questo è un processo politico e c’è poco altro da aggiungere».
Il solito complotto dei pm per fermare Berlusconi? A proposito, lei è d’accordo sul suo ritorno in campo, vi siete consultati?
«Doveva farlo, questo è sicuro. Quanto a consultarci, io e Berlusconi è meglio che non parliamo più niente, meglio che parliamo di donne…».
Qualche affare in corso sembra che ce l’abbiate ancora, però. Ma lei che ne ha fatto di tutti questi soldi?
«Li ho spesi. Io ho bisogno di soldi, di tanti soldi. Ho un sacco di spese, di debiti, ho i mutui da pagare. Ho i libri, la mia passione, che costano un sacco di soldi».
E lo fa con i soldi di Berlusconi?
«Invidia, solo invidia».
Ora cosa si aspetta da questa inchiesta?
«Guardi, lo scriva pure, non me ne frega un cazzo, mi manca solo l’accusa di pedofilia. Ho il mio processo a cui pensare anche se non credo che verrò più. Questa corte sembra fatta da persone serie e io, nonostante tutto, nonostante i 18 anni passati ad andare e venire da questo palazzo, ho ancora fiducia nella giustizia. Sono malato, no? Forse sono io da ricoverare… Insieme ad Ingroia, però, perché i pazzi siamo due. Sa qual è il vero scandalo qui?».
No, mi dica.
«Che sono passati vent’anni e non ci sanno dire come sono andate le cose nel ‘92, chi ha ammazzato Falcone e Borsellino. Siamo stati io e Berlusconi? O magari Mancino? Si occupino di questo invece di perdere tempo o di ricicciare i miei rapporti con Mangano».
Un mafioso. Sempre dell’idea che sia un eroe?
«Lo ridico fino alla morte, Mangano non è un eroe, è il mio eroe. Tutta questa polemica inutile: invece di definire eroe Borsellino, chiamo eroe Mangano. Mangano è il mio di eroe, ha pagato per non aver ceduto al ricatto di accusare me e Berlusconi. Adesso devo andare…».
È l’una e mezza. Fuori dal palazzo di giustizia Dell’Utri si guarda attorno quasi spaesato. «Ma come si fa da qui? Non ho più la scorta e non sono più abituato ».
Non ha più la scorta? E da quando?
«Dal primo luglio, dopo tredici anni. Ma io sono d’accordo, era inutile e anche fastidiosa. Non la volevo e me l’hanno sempre imposta perché ero in una lista di persone che le Br volevano ammazzare. Chiamerò un taxi. Come devo dire? Una macchina al “palazzo dell’ingiustizia”?».
Prima di entrare in macchina, il senatore non rinuncia ad un paio delle sue dotte citazioni.
«Primo libro di Platone, come diceva Polemarco, la giustizia è un’arte per aiutare gli amici e perseguitare i nemici. Ma l’importante è che io stia bene in salute. E per il futuro, come dice Montale, “un imprevisto è la sola nostra speranza”».

La Repubblica 19.07.12

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“Berlusconi, ecco i bonifici sospetti: in 10 anni 40 milioni per Dell’Utri”, di Guido Ruotolo

Che clima di tensione si respira a Palermo, in questa vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio. Le polemiche con il Quirinale, l’inchiesta sulla trattativa e, adesso, «la decisione di Silvio Berlusconi di rompere unilateralmente la trattativa in corso, facendo uscire la notizia che non si è presentato in Procura, dove era stato convocato come testimone».

Ecco, il clima che si respira a Palermo è esattamente questo: «Strano che l’ex presidente del Consiglio annunci la sua candidatura a premier il giorno dopo aver ricevuto la convocazione a Palermo». Anche se sono battute raccolte nei corridoi della Procura, rendono bene il clima e soprattutto delineano già i contorni di ciò che ci aspetta. Ma torniamo all’inchiesta svelata, secondo la Procura di Palermo, dagli stessi collaboratori dell’ex presidente del Consiglio. Perché in dieci anni dai conti correnti co-firmati da Silvio Berlusconi e da sua figlia Marina sono usciti quaranta e passa milioni di euro finiti sui conti correnti di Marcello Dell’Utri e di sua moglie?

Sono queste le domande che si pone la procura di Palermo che ha deciso di indagare il senatore del Pdl per estorsione. Eh già, perché il sospetto è che Dell’Utri abbia estorto quei soldi al suo «principale», sodale, amico di sempre Silvio Berlusconi.

Ma perché il giorno prima della sentenza della Corte di Cassazione che avrebbe potuto confermare la condanna a 7 anni di carcere per mafia del senatore palermitano, nello studio di un notaio milanese si perfeziona il passaggio di proprietà della villa di Dell’Utri a Berlusconi? Venti milioni di euro per una villa che ne vale la metà? Per dirla in breve, la Procura di Palermo sospetta che quei soldi siano una sorta di liquidazione per i servigi resi da Dell’Utri, attraverso Cosa Nostra, al Cavaliere.

È vero, su alcuni bonifici Silvio e Marina Berlusconi scrivono che la causale è un «prestito», ma secondo il lavoro di verifica della Guardia di finanza, quei soldi due bonifici di 362.000 e 775.000 euro del 10 aprile del 2003 – non sarebbero mai tornati indietro. Troppe operazioni «sospette» portano la stessa procura di Roma che indaga sulla P3 a inviare a Palermo per competenza la documentazione sui bonifici che padre e figlia, Silvio e Marina, indirizzano su conti correnti intestati al senatore e alla moglie.

Il 10 aprile del 2003, i due bonifici per un 1.137.000 euro; il 22 maggio del 2008 da un conto di Silvio Berlusconi presso il Monte dei Paschi di Siena parte un bonifico di 1.500.000 euro, il 25 febbraio del 2011 un altro milione di euro, l’11 marzo del 2011 altri 7 milioni. E poi, l’8 marzo scorso, la cessione della villa sul lago di Como: 20 milioni e 970 mila euro. Un prezzo sovrastimato di almeno il doppio. Una perizia del 2004 fissava il valore della villa in 9 milioni e 300 mila euro. Da quello che era emerso nell’inchiesta sulla P3 fatta dalla Procura di Roma, nel 2011 Silvio Berlusconi aveva versato 9,5 milioni di euro per ristrutturare la villa. Un anno dopo, quella villa se la compra per il doppio del suo valore.

Irritazione, in Procura, per la fuga di notizie. Silvio Berlusconi aveva fatto sapere che per lunedì 16 luglio, giorno di convocazione a Palermo, era impegnato. Sua figlia Marina si sarebbe trovata all’estero (e Marina ha confermato l’appuntamento per mercoledì prossimo). Nella lettera spedita dall’avvocato dell’ex premier, Niccolò Ghedini, si spiega che Berlusconi preferirebbe essere sentito a Roma: «Sarebbe altresì auspicabile che le testimonianze, per ovvie ed evidenti ragioni di riservatezza, che certamente governano gli intendimenti anche di codesto Ufficio, non venissero assunte presso il Tribunale di Palermo, bensì presso sede diversa».

La Procura di Palermo aspetta un segnale da Berlusconi. Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio si nega ai magistrati antimafia. Successe già il 26 novembre del 2002. Allora, lo stesso procuratore aggiunto Antonio Ingroia si recò a Roma, a Palazzo Chigi. Un viaggio a vuoto perché Berlusconi si rifiutò di rispondere alle domande.

La Stampa 19.07.12