attualità, memoria

"Vent’anni, nessuna verità", di Walter Veltroni

Credevamo di avere visto il peggio, col cratere di Capaci che inghiottiva, come in un bombardamento, la vita di Giovanni Falcone, di sua moglie e dei ragazzi della scorta. Credevamo che il fondo fosse stato toccato se la mafia poteva permettersi una dichiarazione di guerra così aperta e sfacciata, non un omicidio (ché quelli ne aveva consumati a decine anche contro i vertici dello stato e della politica) ma una strage, con una tattica che sembrava rovesciare le vecchie regole mafiose. Credevamo. Ma fummo costretti a vedere di più, un fondo ancora più buio.
Vent’anni fa a via D’Amelio, sotto le finestre della vecchia madre Maria Lepanto, la mafia metteva in scena un nuovo atto terroristico: un’autobomba ammazzava Paolo Borsellino e con lui Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quando qualcuno dice che sembrava Beirut e non Palermo non sta esagerando: la strada a brandelli, le case bucherellate, le finestre infrante, un groviglio di vetri, schegge, rottami e corpi. Credo che venti anni dopo si debba raccontare e ricordare anche quella sensazione terribile di orrore e di vuoto nello stomaco che le immagini lanciate dalla tv (e che in pochi minuti fecero il giro del mondo) lasciarono negli occhi e nella coscienza dell’Italia.
Sto parlando del paese che ne aveva viste di tutti i colori, aveva pianto per Moro, aveva urlato per la strage della stazione di Bologna ma che si trovava ora davanti ad una ripetuta, impudente, dichiarazione di guerra sul suo territorio, contro i suoi rappresentanti, contro i suoi uomini migliori. È il nostro passato, un passato terribile e pieno di ombre e di segreti, un passato che non vuole passare proprio perché ha lungamente macchiato i giorni, gli anni, gli eventi che sono seguiti. Ricordare oggi i vent’anni dall’uccisione di Paolo Borsellino non è solo ricordare una persona straordinaria o rileggere una pagina di storia ma prendere degli impegni. Chi lo conosceva bene ricorda gli ultimi 57 giorni di vita di Paolo Borsellino (quelli che passarono tra l’uccisione di Falcone e l’attentato contro di lui) come un lungo terribile viaggio di avvicinamento. Eppure quelli furono giorni davvero straordinari, nel male come nel bene.
Furono giorni che avevano un dritto e un rovescio. Nel rovescio ci metto la crudeltà della mafia stragista, l’incapacità dello stato di fermarla e, peggio, quel pezzo di anti-stato che tramava e trattava, che permetteva o addirittura preparava delitti peggiori. Nel dritto ci metto la coscienza che cambiava. Le immagini strazianti dei funerali di Falcone, la voce spezzata di Rosaria Costa Schifani, le urla dei ragazzi delle scorte furono un trauma terribile ma anche positivo se trenta giorni dopo una catena umana allacciava il palazzo di giustizia e la casa di Falcone in un abbraccio che metteva insieme la città. C’è un piccolo ricordo di Borsellino di quei giorni, una cena con un gruppo di colleghi e di carabinieri in un ristorante. Il cuoco chiese di conoscerlo e lo abbracciò piangendo. I due rimasero a parlare a bassa voce come vecchi amici. E il magistrato raccontò ai commensali: «Mi ha detto che la Palermo degli onesti, dei padri di famiglia sta dalla nostra parte».
La strage di via D’Amelio fu seguita da anni e mesi terribili. Ora sappiamo che l’inchiesta fu deviata, che falsi pentiti si autoaccusarono come autori materiali, che sono rimasti in carcere per 17 anni vincolati da questo depistaggio deciso certo dalla mafia ma a cui collaborarono indagini fasulle, convenienze dell’anti-stato. E continuò la stagione dello stragismo.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’altra autobomba esplose in via dei Georgofili, una stradina nascosta tra gli Uffizi e l’Arno. Morirono in 5 tra cui una bambina. Due mesi dopo in una notte di bombe saltarono un pezzo della Basilica di San Giovanni in Laterano e il porticato della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma e una bomba fece cinque morti a Milano a via Palestro, davanti a un padiglione dell’Accademia di Brera.
La strategia era colpire vite umane innocenti e luoghi dell’arte, luoghi che Totò Riina e gli altri non avevano neppure mai sentito nominare. Quella notte le comunicazioni di Palazzo Chigi saltarono e il presidente del consiglio Ciampi, tornato a Roma di corsa, tenne una riunione a lume di candela, quasi che gli ospiti indesiderati fossero loro, lo stato, e non l’antistato che aveva la regia di quelle trame stragiste. Come sempre quando l’Italia sta per prendere la strada del cambiamento intervengono le forze più oscure: quando parlo di antistato annidato nello stato penso alla trattativa che fu condotta con la mafia, dell’occultamento sistematico della verità, alla strategia della paura che vediamo emergere drammaticamente dalle indagini e dalle verità nuove che scoperchiano falsità e verità di comodo.
E oggi? Oggi c’è bisogno di spezzare definitivamente quel rovescio e di riprendere a tessere quel dritto delle coscienze dei cittadini. In questi anni di mio lavoro nella commissione antimafia mi sono impegnato, ci siamo impegnati, perché la verità, anche quella più nascosta fosse fatta. La commissione ha lavorato, così come hanno lavorato i magistrati. È un lavoro che continueremo perché della verità abbiamo bisogno, dipanando la matassa imbrogliata dei depistaggi, le trame fitte e oscure. Un lavoro che parte dal passato ma guarda in avanti, per restituire ai cittadini una politica che si liberi di vecchi legami e indicibili paure. E questo lo faremo assieme a loro, ad un nuovo protagonismo di tutti per la legalità.
È un obiettivo possibile, per il quale serve ancora uno sforzo straordinario di tutti, che si raggiunge con la concordia, non certo con le lacerazioni e le contrapposizioni.

da Europa Quotidiano 19.07.12