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"Turismo e ambiente posizionano l'Italia nel gotha mondiale", Il Sole 24 Ore 12.11.14

Solo cinque Paesi al mondo possono vantare un surplus commerciale manifatturiero superiore a cento miliardi di dollari. L’Italia è uno di questi. C’è un paese in Europa che attira, più di altri, turisti cinesi, statunitensi, canadesi, australiani e brasiliani. È l’Italia. C’è un Paese le cui produzioni primeggiano in efficienza ambientale, meno CO2 e meno rifiuti a parità di prodotto: è l’Italia. Sono alcuni dei dati del dossier dieci verità sulla competitività italiana con cui Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison rispondono a tanti luoghi comuni che non rendono giustizia al nostro Paese e rischiano di distogliere l’attenzione dai suoi reali problemi.
L’Italia, spiegano gli estensori dei documenti, è certamente in crisi e vive, più di altri Paesi, un momento di grande incertezza appesantito dai suoi problemi storici – leggi il debito pubblico, il nero, la assai diffusa corruzione, una macchina burocratica pesante, la questione meridionale -, ma non è un paese senza futuro. «A patto che – si legge nei dossier – riparta da ciò che nel mondo ci rende eccellenza: la bellezza, il genio, la creatività ancorati ai territori. E la qualità, che da quella bellezza e creatività trae ispirazione e forza: qualità che nel mondo è uno dei sinonimi di Italia, e trova riconoscimento nella forza del made in Italy».
Le imprese italiane infatti sono tra le più competitive al mondo. Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale), evidenzia il dossier, nel 2012 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 935. Non solo. Siamo tra le economie che nella globalizzazione hanno conservato maggiori quote di mercato mondiale, mantenendo, dopo l’irruzione della Cina e degli altri Brics, il 72,6% delle quote di export rispetto al 1999. Performance migliore di quelle di Usa (70,2%), Francia (59,8%), Giappone (57,3%), Regno Unito (53,4%). Il nostro modello produttivo, fanno notare gli estensori delle 10 verità sulla competitività italiana, è tra i più innovativi in campo ambientale.
La zavorra del Pil italiano, deducono Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison, non è certo la competitività dell’industria, ma il crollo della domanda interna – la cui responsabilità va cercata in una interpretazione dogmatica dell’austerity. Il fatturato interno dell’industria manifatturiera italiana ha perso il 15,9% rispetto al 2008, contro lo 0,3% della Germania e a fronte di una crescita del 4,6% in Francia. Mentre sui mercati esteri per dinamica del fatturato industriale abbiamo addirittura battuto la Germania: +16,5% contro +11,6%. E non siamo certo il malato d’Europa: il peso del nostro debito pubblico rispetto al totale del debito pubblico europeo è infatti sceso dal 28,7% del 1995 al 22,1% del 2013.
Tra i tanti settori di successo del made in Italy, uno in particolare ha dato prova di vitalità e tenuta, dimostrando di essere un comparto trainante per tutta l’economia: l’agroalimentare. Se dal 2009 il valore aggiunto a prezzi correnti dell’intera economia è risultato pressoché stagnante (+2,2%), quello agroalimentare ha invece registrato un +10,6% – di cui agricoltura +14,2% e trasformazione alimentare +6,8%. Grazie anche a primati assoluti come il maggior numero di certificazioni alimentari a livello comunitario. Siamo, infatti, il Paese più forte al mondo per prodotti distintivi, con 266 prodotti Dop e Igp e 4.698 specialità tradizionali regionali, seguiti a distanza da Francia, 207, e Spagna, 162.
Nel settore vino inoltre l’Italia conta su ben 332 Doc, 73 Docg e 118 Igt. E poi c’è il biologico: siamo i primi in Europa per numero di imprese, tra i primi al mondo per superficie e tasso di crescita. Proprio vista la rilevanza del comparto Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison hanno realizzato con Coldiretti anche un Focus agroalimentare delle 10 verità sulla competitività italiana. In cui c’è scritto nero su bianco che in ben 77 prodotti, sul totale dei 704 in cui viene disaggregato il commercio agroalimentare mondiale, il nostro Paese detiene il primo, secondo o terzo posto per quote di mercato.
Inoltre in 120 prodotti l’Italia si piazza prima, seconda o terza al mondo per valore medio unitario nell’export. Come dire che in questi 120 prodotti agroalimentari siamo leader mondiali per qualità. E siamo anche campioni europei nella produzione di valore aggiunto per ettaro: 1.989 euro, più del doppio della media UE-27, il triplo del Regno Unito, il doppio di Spagna e Germania, e il 70% in più dei cugini francesi.
Non solo: siamo i primi anche in termini di occupazione, con 7,3 addetti per ettaro a fronte di una media Ue di 6,6. E la nostra agricoltura è tra le più sostenibili. Con 814 tonnellate per milione di euro prodotto dal settore, infatti, l’agricoltura italiana emette il 35% di gas serra in meno della media Ue.
En. Br.

"Perché mi piace molto la Carta dei diritti internet italiana", di David Weinberger – Pagina 99 11.11.14

Pubblichiamo un articolo (rivisto per pagina99) uscito sul blog dell’autore. David Weinberger insegna ad Harvard ed è uno dei più autorevoli osservatori di politica e cultura digitale.

Uno commisione di studio ad hoc della Camera dei Deputati italiana ha redatto una bozza di “Dichiarazione dei diritti in Internet” che dovrebbe essere occasione di grandi festeggiamenti. Il testo è al momento sottoposto ai commenti del pubblico sulla piattaforma Civi.ci – e anche questa è una scelta positiva.

 

Un ottimo post di Fabio Chiusi spiega che il testo è il frutto dell’iniziativa del presidente della Camera e da un gruppo di esperti e membri della commissione dei diritti e dei doveri in internet. Il testo ha come scopo quello di dare forma al dibattito sui diritti civili e le libertà fondementali online durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea.

 

Il documento mi piace. Mi piace molto molto. Per due ragioni collegate tra loro. Primo i principi contenuti nel testo si basano su una comprensione profonda del valore aggiunto della Rete e di cosa sia a determinare questo valore. Si tratta di una cosa molto importante perché di solito chi ha in mente di regolare e governare la Rete agisce perché vede in questa una minaccia o una sfida al proprio potere.

 

In secondo luogo, sebbene la Dichiarazione si concentra sui diritti degli individui, parte dall’assunto che le minacce a quelle libertà non vengono solo dai malfattori in internet o dal dominio senza freni dei colossi della Rete, ma anche da coloro che cercano di governarla. E include come diritto, non solo quello all’accesso, ma anche alla formazione dell’uso della rete, un punto troppo spesso (ma non sempre) dimenticato.

 

Se dovessi muovere una critica generale al testo, questa è relativa al tono: si poteva essere persino più diretti quando si parla dei rischi di “sistemare” internet. Se potessi dare qualche consiglio ai regolatori potrei suggerire di inserire principi come i seguenti:

  • Ogni sforzo verrà fatto per garantire una governance dal basso e dai margini – ovvero dalle persone e gruppi in Rete senza centralizzare il controllo.
  • Regole e controlli verranno introdotti solo quando strumenti meno coercitivi si siano mostrati inefficaci
  • Ingegneri e tecnici neutrali e non legati a entità o gruppi politici verranno consultati e il loro parere verrà ascoltato (per ragionare sulle regole, ndr). Non c’è niente di più pericoloso per Internet di governanti che ritengano di conoscerne e capirne il funzionamento.

Ma queste ultime forse sono solo mie fissazioni. La cosa di gran lunga più importante di questa Dichiarazione è che si tratta di un promemoria a coloro che vogliono regolare internet che ricorda come la Rete sia una potente forza del bene e non una semplice forza negativa che va messa sotto controllo.

 

– See more at: http://www.pagina99.it/news/innovazione/7439/Perche-mi-piace-molto-la-Carta-dei-diritti-internet-italiana.html#sthash.BdDOXFvF.dpuf

"Il gap che dobbiamo colmare prima che sia troppo tardi", di Riccardo Luna – La Repubblica 11.11.14

Non si può dire che non ci avesse avvertito. Nel 1995 il futurologo Jeremy Rifkin ci scrisse sopra un libro: La fine del lavoro si intitolava, e non poteva essere più chiaro di così. Sono passati vent’anni e oggi, guardando i dati sulla disoccupazione crescente quasi ovunque dalle nostre parti, possiamo dirlo: sul lavoro Rifkin aveva ragione. L’automazione, indotta dalle nuove tecnologie, ha avuto e sta avendo davvero un effetto devastante sugli operai, gli impiegati, i commercianti e i liberi professionisti. Basta guardare alla cronaca: la catena di fast food McDonald’s ha appena annunciato di voler introdurre dei tablet per ricevere le ordinazioni riducendo i camerieri; il colosso dell’e-commerce Amazon sta assumendo 10 mila robot nei propri magazzini per sbrigare lo smistamento dei pacchi; mentre da tempo sappiamo che gli algoritmi introdotti da Google e da altri per guidare le auto funzionano alla perfezione ed è solo per una questione di assicurazione (chi paga in caso di incidente?) che non abbiamo ancora auto senza autisti. Torna in mente un altro saggio profetico, questa volta del 2000, scritto da uno dei guru di Silicon Valley, Bill Joy: «Il futuro ha ancora bisogno di noi?».
Anche stavolta la risposta è nella cronaca, in quello che accade ogni giorno, magari senza fare notizia. Qualche giorno fa a Dublino si è chiuso il Web Summit, uno dei più grandi eventi del mondo dedicati agli startupper, una definizione dietro la quale dovete immaginare dei giovani che hanno visto un problema e realizzato una soluzione con il digitale, e che quindi sperano di diventare ricchi in fretta. Bene, ce n’erano circa duemila di startupper a Dublino, da tutto il mondo. E indovinate chi è risultato il numero uno? Una startup italiana, Nextome, un navigatore per musei, gallerie d’arte, centri commerciali, aeroporti e hotel; funziona grazie ad una tecnologia basata sul wi-fi che è stata inventata e brevettata da quattro ragazzi pugliesi. Il giorno prima a Brescia il premio Federico Faggin — dal nome dell’inventore del primo microchip — era stato assegnato a un’altra startup pugliese, Blackshape, che realizza aerei in fibra di carbonio. Nel frattempo in California venivano ufficializzate le start up ammesse al prestigioso acceleratore 500startups: su trenta, due sono italiane. Ogni giorno ce n’è una, di storia così. Non sono più casi isolati, o stranezze. Sono un movimento di ragazzi che ha capito che il nostro tempo presenta rischi e opportunità, ma hanno deciso di provare a cogliere le seconde (far partire una start up è infinitamente più facile di una volta), per non tenersi solo i rischi. Forse, se lo sapessero, anche i Neet (i giovani che non studiano né cercano impiego) sarebbero meno rassegnati ad un futuro buio.
Ciò detto, le startup non sono certo la soluzione ai problemi di disoccupazione di un Paese. Non bastano a risollevare il Pil e a invertire il ciclo economico. Ed è fuor di dubbio che fino ad ora la rivoluzione digitale deve mantenere tutte le sue promesse di un mondo migliore. E però una soluzione c’è. Sono finiti i lavori che possono fare le macchine meglio di noi, ma c’è un dannato bisogno di altri lavori: in Europa si calcola un milione di posti di lavoro pronti per persone che siano computer savvy , ovvero a proprio agio con i computer. È su questo punto che in Italia siamo in fondo a tutte le classifiche possibili. Ed è per questo che un ragionamento sui lavori del futuro non può non partire dalla scuola. Sono sempre le skills, le competenze, il prerequisito del work, del lavoro. E le competenze ormai sono, non possono non essere, legate alla rivoluzione digitale.

"La forza pubblica del «familismo morale»", di Gabriella Turnaturi – Il Sole 24 Ore 09.11.14

Può esistere in Italia un familismo morale? Una declinazione del legame familiare che scavalchi il giardino segreto del privato e si apra alla sfera pubblica? Le parole di Ilaria Cucchi e il suo impegno sembrano testimoniare come da quell’impasto di emozioni, vincoli, interessi che è la famiglia possano nascere parole e azioni che riguardano tutta la collettività. A dispetto del conosciuto e abusato «familismo amorale» coniato da Banfield, la storia di familiari che irrompono nella sfera pubblica e nel discorso pubblico italiano è lunga e densa. Inizia negli anni Ottanta con la nascita delle associazioni di familiari delle vittime di stragi (Bologna, piazza Fontana, piazzale della Loggia, Italicus, Ustica) e arriva sino ai nostri giorni con gli interventi e le mobilitazioni dei familiari di Aldrovandi, Uva e Cucchi. In nome degli affetti familiari, genitori, ma soprattutto, madri, figlie e sorelle, hanno dedicato il loro tempo e la loro vita a richiedere verità e giustizia non solo per i loro cari ma per tutti i cittadini.
«Non che ti rivolti solo per amore – scriveva Licia Pinelli nel 1982 quando in Italia cominciava a farsi sentire la voce dei familiari – se è solo amore, rimani schiacciata dal dolore, reagisci per una questione di giustizia». A partire dal privato si rivendica rispetto di diritti e valori validi per tutti e la rete affettiva, il legame familiare diviene risorsa per agire nel pubblico e per esercitare la propria cittadinanza. Per questi familiari il dolore non produce separazione, chiusura, rancore o desiderio di vendetta, ma scelta della voce e di connessione con gli altri cittadini. Le loro richieste s’impongono all’attenzione pubblica non solo perché fortemente connotate dalle emozioni e perché smuovono emozioni, ma perché svuotano il discorso pubblico di ogni retorica e lo riempiono di esperienze vissute, perché parlano di diritti concreti, perché pongono domande di senso.
Non è il familismo tradizionale a dare coraggio e forza a Ilaria Cucchi e agli altri familiari, ma un’etica della responsabilità che muove da una idea di sé come fatto di relazioni, di legami sociali, da un’etica della responsabilità individuale e collettiva. C’è una intuizione e una consapevolezza morale che spinge a far sentire la propria voce su temi e diritti, ragioni ed emozioni sui quali non si può tacere. Altrimenti l’offesa alla propria identità sarebbe insopportabile. Perché persone abitualmente fuori dal discorso pubblico decidono di irrompere e di far sentire la propria voce se non in nome della propria dignità?
In situazioni drammatiche, come la morte non spiegata e non spiegabile di un familiare, viene alla luce quel nucleo di affettività e di solidarietà che è antico ma al tempo stesso innovativo per l’esercizio di una cittadinanza attiva e responsabile. La richiesta di verità e giustizia avanzata da questi familiari è antica e modernissima perché è resa possibile dall’ampliarsi della sfera pubblica e dei suoi accessi, dal moltiplicarsi della comunicazione e dei suoi media. Ciò che trasforma il particolarismo e l’individualismo in esercizio della cittadinanza e nella difesa di diritti collettivi non è la riscoperta di buoni sentimenti, o dell’uso manipolatore e manipolato delle emozioni ma una declinazione della propria dignità e del legame sociale permessa proprio dallo sviluppo di una sfera pubblica che nonostante tutto fornisce risorse, motivazioni all’azione, modi di reinterpretare la propria identità come privata e pubblica come individuale e collettiva. In questa doppia anima fatta di affettività e partecipazione al discorso e alla sfera pubblica sta la modernità della mobilitazione dei familiari. Nella loro attivazione interesse individuale e impegno collettivo coincidono e si forma un luogo di mediazione fra pubblico e privato, fra emozioni e ragioni. Qui sta l’innovazione culturale e politica a cui bisognerebbe fare più attenzione, andando oltre le singole vicende e schieramenti di parte. Ed è per questo che dovremmo essere grati ai familiari e dovremmo prestare molta e continua attenzione alle domande che questi familiari caparbiamente continuano a porre a tutta la collettività.

"Donare conoscenza pura", di Gilberto Cobellini – Il Sole 24 Ore 09.11.14

In America stanno aumentando in maniera significativa le donazioni per la ricerca. Ma deve passare l’idea che bisogna favorire quella di base. Da lì arriveranno le innovazioni
A metà marzo dell’anno in corso, «The New York Times» pubblicava un lungo articolo che nel titolo si chiedeva se «miliardari (billionaires) con grandi idee» stessero in realtà «privatizzando la scienza americana». L’inchiesta andava letta insieme all’editoriale di «Nature», uscito negli stessi giorni, dove si lanciava l’allarme per il fatto che quest’anno non aumenteranno i finanziamenti alla ricerca e all’innovazione negli Stati Uniti. Non solo, ma al netto dell’inflazione e dell’aumento dei costi, la decisione significa una riduzione dal 15 al 20% rispetto al budget del 2010. Sempre «Nature» di gennaio aveva dedicato uno speciale alla scienza “sponsorizzata”, in cui fornivano consigli pratici su come «corteggiare un filantropo». I nomi dei filantropi i cui investimenti e progetti stanno facendo crescere un sistema della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica quasi parallelo rispetto a quelli pubblico e industriale, sono per esempio quelli di Bill e Melinda Gates, la cui fondazione è la più generosa (con 10 miliardi di dollari investiti), o dell’altro fondatore di Microsoft, Paul Allen, il cui Allen Brain Institute di Seattle guida, insieme ad altri enti e filantropi, il progetto pubblico lanciato da Obama sul cervello («The Brain Initiative»), e i cui ricercatori pubblicano sulle maggiori riviste del settore e che mette a disposizione di tutta la comunità neuroscientifica una serie di “atlanti” del cervello tra cui la recente «geografia genetica del cervello» (casestudies.brain-map.org/ggb). E poi Bloomberg, Koch, Kavli, Ellison, Schmith eccetera.
Con questi modelli a disposizione, le donazioni filantropiche alla ricerca e alle università in Nord America negli ultimi quindici anni sono cresciute molto più dei finanziamenti federali e statali (anche se rimangono circa il 5% in valore assoluto), quindi le classi dirigenti e i politici cercano di capire come coniugare le strategie dei miliardari con quelle degli enti che esprimono politiche influenzate da dinamiche democratiche. Si prevede che nell’arco dei prossimi tre decenni si avrà un incremento quasi esponenziale delle donazioni filantropiche, e già ora le più prestigiose università americane dipendono per il 30% del loro budget destinato alla ricerca dalle donazioni: fra trent’anni la percentuale potrebbe diventare anche due o tre volte tanto. L’economia della ricerca e dell’innovazione forse sta andando incontro a cambiamenti importanti.
L’idea che i finanziamenti privati implichino necessariamente – questa la principale preoccupazione espressa su «The New York Times» – un vantaggio per la ricerca cosiddetta traslazionale, cioè che le donazioni di privati non vadano agli studi di base per far avanzare la conoscenza, non è necessariamente vera. È un luogo comune politico, cioè demagogico e populista, che sia un bene mettere soldi in progetti dedicati a curare malattie o inventare nuovi dispositivi tecnologici. Ma chi sa come funziona la scienza è consapevole che le innovazioni sono conseguenti a un buon livello di investimenti nella ricerca di base. Ebbene non ci sono prove storiche a favore di un pregiudizio esclusivo contro la ricerca fondamentale e di una preferenza assoluta per la cosiddetta ricerca applicata nel mondo della filantropia. Ci sono stati e ci sono numerosi esempi di filantropi illuminati che hanno puntato sulla ricerca di base. La fondazione Giovanni Armenise-Harvard è un esempio di filantropia, dove il donatore riconosce che gli avanzamenti in campo biomedico dipendono direttamente dai progressi della conoscenza fondamentale e quindi si ripromette di finanziare in modo significativo, selettivo e continuativo la ricerca di base: una ricerca che è a elevato rischio di insuccesso, ma che è essenziale per migliorare la comprensione del funzionamento fondamentale delle cose, senza la quale la scienza non avanza e quindi l’innovazione per sfruttare le domande ai fini delle applicazioni a vantaggio del benessere umano. La scelta del conte Giovanni Auletta Armenise, primo industriale italiano a produrre la penicillina nel dopoguerra, sfidando economicamente il monopolio pubblico, di privilegiare la ricerca di base, fu il risultato di una ragionevole meditazione che partiva dalla constatazione che nessun progetto traslazionale può far avanzare in modo decisivo la medicina del cancro o della malattie neurodegenerative.
Negli ultimi anni, per altro, gli stessi finanziamenti pubblici, che dovrebbero coprire proprio la ricerca di base, ritenuta non di interesse per industriali e filantropi, privilegiano i progetti che hanno lo scopo di curare malattie o trasferire innovazioni ai settori produttivi. È quindi probabile che se le ricadute degli investimenti continueranno a languire perché ci sono poche novità teoriche ed esplicative nella scienza, saranno i finanziamenti privati a indirizzarsi verso la ricerca di base; cioè nella misura in cui i progetti cosiddetti traslazionali continueranno a rivelarsi tanto costosi quanto sterili quando avvicinano campi di frontiera, dove non si sa ancora abbastanza per manipolare intelligentemente i processi naturali. Un’altra questione abbastanza discussa nelle analisi economiche e politiche delle forme che assume la filantropia che finanzia la scienza, è in che misura conviene che le donazioni private vadano ad aggiungersi ai finanziamenti pubblici per incrementare la massa critica; ovvero se le donazioni debbano andare a coprire quelle aree laddove il pubblico non può o non riesce a intervenire. Anche in questo caso bisognerà probabilmente lasciare che siano le opportunità, favorite anche da vantaggi strategici offerti dalla politica e dal governo, a costruire nuove strade e strategie per gli investimenti filantropici. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale sono state sviluppate politiche fiscali mirate a promuovere il flusso di donazioni liberali o d’investimenti direttamente in campi di utilità sociale. La filantropia e il bisogno di costruire un disegno comunitario da parte di personalità che in altri campi hanno già primeggiato potrebbe essere una strategia da perseguire anche in Italia; favorendo con agevolazioni fiscali il ruolo attivo di filantropi e fondazioni interessate a investire nella scienza.

"Venticinque anni fa qui vinse un sogno ora la mia Berlino lo insegni al mondo", di Daniel Barenboim – La Repubblica 09.11.14

A distanza di 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della Guerra fredda, la comunità internazionale si trova a dover far fronte a una serie di sfide senza precedenti. Nei titoli dei giornali e nella nostra coscienza collettiva predominano carestie, crisi come l’epidemia di Ebola, e incalcolabili focolai di conflitto in Medio Oriente, Africa ed Europa orientale. Il mondo pare quanto mai indifeso e i nostri governi sono divisi sulle modalità con le quali porre rimedio ai problemi. In tutto il mondo milioni di persone sono in movimento, fuggono da guerre, fame, repressione e povertà, e i paesi europei, in particolare la Repubblica Federale, appaiono loro come l’ultimo rifugio sicuro. Il pericolo che incombe sulle ricche nazioni occidentali è un’emergenza tanto morale quanto sociale. In questi tempi difficili, il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro è un momento appropriato per riflettere sulla situazione del mondo odierno e sulle responsabilità che ricadono sull’Europa tutta e specificatamente sulla Germania, riunificata da un quarto di secolo.
Il crollo dell’Unione Sovietica e la prospettiva di un nuovo ordine mondiale hanno segnato la fine di un equilibrio precario e l’inizio di un’apparente unipolarità dominata dall’Occidente – prima di tutto dagli Stati Uniti, seguiti dai paesi europei. Quando i sistemi capitalistici e democratici occidentali hanno preso il sopravvento, si sarebbe potuta venire a creare una chiara egemonia degli Usa e dell’Occidente, che avrebbe potuto plasmare la politica internazionale della nuova era. Invece, l’Occidente non è stato capace di affermarsi come leader globale. Con la mancanza di coesione, uno sconsiderato tripudio ideologico, e il suo fallimento morale in crisi internazionali come il genocidio in Ruanda e l’illegittima invasione dell’Iraq con gli scandali di Abu Ghraib e di Guantanamo, gli Stati Uniti d’America in particolare poco alla volta hanno abdicato all’autorità morale e politica che si erano saputi costruire in Europa con il piano Marshall all’indomani della Seconda guerra mondiale.
Anche il sistema capitalistico ha le sue pecche, e l’occasione di dar vita a un sistema nuovo e sostanziale che incorporasse gli aspetti positivi di socialismo, capitalismo e democrazia non è stata colta. Non ultimi, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo che ha sprofondato un’intera regione in crisi senza fine, dimostrano che la posizione di potere dell’Occidente è radicalmente mutata.
Oggi il mondo sembra privo di timoniere. Sorprende poco, di conseguenza, che perfino i piccoli conflitti locali si espandano e degenerino, andando fuori controllo. L’11 settembre, le guerre in Medio Oriente e in Ucraina: sarebbero stati inconcepibili se l’Occidente avesse trovato un nuovo equilibrio e avesse tenuto fede alle sue nuove responsabilità dopo la fine della Guerra fredda. Invece siamo in presenza di un vuoto di potere internazionale. Sono convinto che l’Europa in generale e la Germania in particolare in tempi così difficili debbano farsi maggiormente carico delle responsabilità.
Per molto tempo – e senza dubbio per ottimi motivi – la Germania si è rifiutata di assumere un ruolo di leader, preferendo una politica basata sul consenso e la cooperazione, soprattutto quando c’è di mezzo l’Unione europea. In futuro, la Germania non dovrebbe agire da sola, ma potrà in ogni caso prendere parte più attiva agli affari esteri di quanto abbia fatto finora.
Il successo della ricostruzione della Germania dopo la Seconda guerra mondiale fu possibile solo con l’aiuto internazionale. Ciò comporta una responsabilità, e nessun paese ne è più consapevole della Repubblica Federale, che adesso è nella posizione di poter fornire aiuto ai popoli che nel mondo soffrono e scappano. E dovrebbe farlo. La storia recente della Germania è la storia del successo della democrazia e di conseguenza alla Repubblica Federale spetta il compito di offrire ad altri popoli e Paesi una possibilità per ricostruire le loro nazioni e le loro vite.
Io, ebreo, ho vissuto a Berlino negli ultimi 23 anni, e non sarebbe stato possibile se non avessi creduto che i tedeschi hanno riflettuto a lungo e seriamente sul passato. Nessun altro è riuscito a farlo nella stessa misura, e per questo li ammiro. Ma l’auto-riflessione non dovrebbe precludere un impatto sulla politica estera.
La Germania ha un approccio di poco conto sul conflitto israelo-palestinese, perché non vuole urtare le suscettibilità a causa del suo rapporto con Israele. Ma se deve esserci una soluzione al conflitto, la Germania deve fare qualcosa: può e dovrebbe esercitare pressioni politiche su Israele. Dopo tutto, stiamo parlando del futuro intellettuale e politico dello Stato di Israele. La logica alla base di questo ragionamento è semplice: la Germania è impegnata nei confronti della sicurezza dello stato di Israele, ma ciò è possibile a lungo termine solo se il futuro del popolo palestinese sarà garantito in un suo stato sovrano. Se ciò non accadrà, le guerre e la storia di quella regione continueranno a ripetersi e proseguirà questo stallo intollerabile. C’è stato un uomo che non si è fatto illusioni in proposito, ed era il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin: «Sono stato un soldato e so che Israele può vincere guerre contro la Siria, il Libano e l’Egitto e forse sconfiggerli anche tutti insieme, contemporaneamente. Ma Israele non potrà vincere una guerra contro il popolo palestinese. Il mio primo dovere è proteggere la sicurezza del popolo israeliano e potrò onorare tale impegno soltanto se faremo pace con i palestinesi ». È stata proprio questa opinione, espressa in pubblico, a costare la vita a Rabin.
Compito della Germania, in qualità di Paese leader nel mondo, è far comprendere con chiarezza questo dato di fatto al governo di Israele: che il futuro a lungo termine di Israele dipende dalla volontà del suo governo di firmare un genuino accordo di pace con i palestinesi. E va sottolineato che altrettanto occorrerà far comprendere ai palestinesi radunati attorno a Hamas. Entrambe le parti in causa devono capire che dovranno convivere, nel bene e nel male, e che l’odio, il terrore e l’esclusione territoriale, etnica e religiosa non hanno mai prodotto la pace, ma hanno causato invece sempre più morti. Anche questa è una lezione che la Germania, più di molti altri Paesi, ha appreso a caro prezzo. Ed è una lezione che potrebbe e dovrebbe improntare la politica estera della Repubblica Federale.
( Traduzione di Anna Bissanti)

Parole e silenzio – Manuela Ghizzoni 08.11.2014

Parole e silenzio
Le parole sono quelle dei #Q96Scuola: sono parole giuste ed io ho avuto ed ho orecchie per ascoltarle. Il silenzio (parziale e presunto) che mi viene imputato è quello di chi si riserva di parlare nei momenti appropriati e di chi prende molto sul serio quello che fa (e ha pagato qualche scotto personale per averci creduto fino in fondo). Il silenzio di chi è stato accusato, illogicamente, di avere condotto una battaglia pur consapevole della sconfitta. Chi lo afferma pare dimenticare quanto accaduto solo 3 mesi fa, in occasione del decreto legge Madia. Allora lo voglio ricordare, sinteticamente: alla Camera è stato approvato l’emendamento a mia prima firma per il pensionamento dei Q96. Approvato prima in Commissione Affari costituzionali, poi dalla Bilancio (e non senza discussione con il governo) e infine dall’intera Aula, con un voto di fiducia sul testo complessivo del decreto. Al Senato, pochi giorni dopo e per unilaterale decisione del governo che ha assunto i dinieghi della Ragioneria dello Stato e dell’INPS nei confronti della copertura individuata alla Camera (tagli di spesa), la norma è stata stralciata e il nostro lavoro vanificato. Non mi soffermo, in questa sede, su cosa abbia rappresentato quel passaggio sotto il profilo del rapporto tra potere legislativo ed esecutivo, perché mi porterebbe lontano dall’argomento del post, ma è solo rinviata la riflessione sullo sbilanciamento che da anni è impresso all’equilibrio tra poteri dello Stato (questione non piccola). Ma di certo, se il Parlamento ha espresso la sua volontà su Q96, è il Governo che ha potuto decidere.
Il silenzio, quindi, non è una rinuncia. Mentre le parole possono alimentare false speranze. Cosa che non voglio fare. Non parlo per i colleghi, ma per me: dopo quanto accaduto in agosto, riterrei per voi totalmente insopportabile una nuova attesa tradita.
Nei 3 mesi che ci separano dal dl Madia, il governo poteva cambiare il proprio orientamento? Avrebbe potuto. E inizialmente lo ha affermato, annunciando un decreto ad hoc. Che però non ha mai visto la luce. Così come non v’è traccia di “ravvedimento” nelle Linee guida de La Buona Scuola, sebbene lì vi sia un piano assunzionale importante, che potrebbe assorbire il pensionamento dei Q96. Sono, questi, segnali inequivocabili sulle intenzioni del governo: abbiamo ugualmente agito perché su di esso vi fosse un “cambio di verso”, invano. Ecco perché ho ritenuto che non fosse fruttuoso, nelle settimane passate, presentare una interrogazione al governo per conoscerne le intenzioni su Q96: perché la risposta era nei fatti, sotto gli occhi di tutti.
Anche nella fase di preparazione degli emendamenti alla Legge di Stabilità si è discusso dell’argomento, ma il governo ha confermato il blocco alla soluzione di Q96: presentare un emendamento avrebbe significato prefigurare il ripetersi di quanto accaduto nel dl Madia.
Ma nel frattempo è intervenuto un fatto importante: la sentenza di Salerno (mercoledì sono intervenuta in commissione perché agli atti ne restasse memoria). Una sentenza che ha ridato speranza, perché conferma la bontà delle ragioni che portiamo avanti dal gennaio 2012. Una sentenza che non può essere ignorata: lo fu quella di Roma, dell’agosto del 2012, ma questa – che interviene su 42 ricorrenti – potrebbe rappresentare un tornante dell’intera vicenda. Nel merito, il governo dovrà esprimersi (e in questo caso, una interrogazione è invece utile e appropriata) perché non si può lasciare questa vicenda interamente nella mani dei tribunali.