Oggi è il secondo anniversario della prima scossa che devastò la bassa modenese.
Lo dico con sincerità, senza spocchia: non sono necessari gli anniversari per ricordare le vittime, per impegnarci nella ricostruzione, per assumere il punto di vista di chi combatte ogni giorno per tornare alla normalità. Da allora, ogni giorno è il 20 /29 maggio. Ma questo è il giorno giusto per ringraziare tutti quelli che nell’emergenza e, ora, nella ricostruzione si impegnano – su fronti diversi – perché si ritorni a quella quotidianità violata dal sisma. Voglio, cioè, ringraziare le migliaia di persone che operano per la ripresa, attraverso il loro lavoro materiale oppure con le loro proposte, visioni e idee. E anche con le loro proteste. Perché per ricostruire abbiamo bisogno di tutti. Solo così saremo di nuovo comunità
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"Un voto contro la crisi", di Massimo D'Antoni
Il dato sulla crescita del Pil italiano nel primo trimestre 2014 è arrivato come una doccia fredda sulle speranze di ripresa, alimentate nei mesi scorsi dall’inversione del ciclo in Europa e dal clima di fiducia portato dall’attivismo del nuovo governo. Quel – 0,1%, una sostanziale crescita zero per l’Italia, deve farci riflettere, ma dobbiamo anche evitare di trarne conclusioni sbagliate. La prima considerazione da fare è che ancora non ne siamo fuori. Va sottolineato a questo riguardo che il dato dell’Italia non è isolato. È vero che ancora una volta facciamo peggio degli altri, ma l’eurozona, con una crescita dello 0,2%, se la passa solo marginalmente meglio di noi. Anche i dati della Germania (+ 0,8%) e della Spagna (+ 0,4%), vanno correttamente compresi. Sarebbe ad esempio un errore concludere che, siccome la Germania va bene, il problema della bassa crescita è un problema nazionale e non europeo. Il problema resta quello più volte denunciato: l’attuale sistema europeo di governo dell’economia non è attrezzato ad affrontare quello che in gergo viene definito uno «shock asimmetrico»; a fronte di sollecitazioni esterne come la crisi finanzia- ria o la concorrenza dai paesi emergenti, manca qualsiasi meccanismo di correzione degli squilibri determinatisi per la diversità istituzionale e di specializzazione produttiva dei di- versi Paesi.
Nella visione dominante presso le istituzioni europee, tale correzione dovrebbe avvenire attraverso variazioni nei prezzi e nei salari, quindi per l’Italia attraverso una riduzione dei salari reali. Viene citato l’esempio della Spagna, che sta recuperando più rapidamente di noi il divario di competitività con i Paesi dell’area tedesca. Purtroppo, questo risultato, come quello più incoraggiante del nostro sul- la crescita, viene raggiunto al prezzo di una disoccupazione al 26% (doppia rispetto a quel- la italiana). Non dobbiamo inoltre dimentica- re che il deficit spagnolo nel 2013 è stato pari al 7,1%, contro il 3% italiano: se l’Italia avesse avuto a disposizione spazi fiscali nell’ordine del 4% non sarebbe stato difficile replicare o superare la performance spagnola.
Il dato deludente sulla crescita ci dice inoltre che, a meno di sorprese, è difficile che possano essere centrati gli obiettivi di crescita in- dicati nel Def. Questo significa che presto il governo Renzi si troverà a dover decidere se continuare sulla linea di rispetto rigido degli obiettivi di bilancio o chiedere con forza all’Europa un vero “cambio di verso”.In che direzione? Nell’immediato occorrerebbe utilizzare in modo più deciso le leve del- la politica monetaria e la politica fiscale. Una politica monetaria più marcatamente espansi- va aiuterebbe a restituire liquidità alle imprese, ad alzare il tasso di inflazione medio nell’eurozona così da favorire il riassorbimento degli squilibri e da aiutare la sostenibilità dei debiti; a determinare infine un deprezza- mento dell’euro rispetto alle altre valute per incoraggiare l’export. Mario Draghi ha annunciato prossimi interventi di segno espansivo, ma la sua azione è frenata dalle resistenze tedesche.
Sul fronte della politica fiscale si tratta di recuperare spazi di manovra. Il provvedimento degli 80 euro è una boccata d’ossigeno per una specifica categoria, i lavoratori dipendenti, ma se coperto da riduzioni di spesa rischia di avere effetti limitati o addirittura nulli sulla domanda interna. Occorre liberare risorse per gli investimenti, introducendo la golden rule sia nelle regole europee che in Costituzione.
C’è poi la questione del debito. Una crescita debole ne mette in dubbio la sostenibilità, e in questa situazione basta poco a modificare le aspettative sui mercati finanziari e determinare una nuova impennata degli spread. Proprio a fronte dell’insostenibilità del sentiero individuato dal fiscal compact, un’economista non certo radicale come Lucrezia Reichlin ha parlato esplicitamente di ristrutturazione del debito pubblico: un’ipotesi che in molti considerano estrema e che tuttavia (pur con tutte le prudenze che comporta affrontare un argomento che potrebbe destabilizzare i mercati finanziari) non può essere così sbrigativamente esclusa.
Se questo è il quadro, è sorprendente quanto il dibattito di questa campagna elettorale sia dominato da temi nazionali e trascuri le grandi scelte che ha di fronte l’Europa. Cosa possiamo attenderci dal risultato di domenica? Un’affermazione del Pd e dei partiti della famiglia socialista metterebbe Martin Schulz nella condizione di chiedere il posto chiave di presidente della Commissione. Un risultato importante, ma la fatica maggiore per l’Italia sarà convincere i partner europei, a cominciare proprio dai rappresentanti socialisti, della necessità di un cambio di rotta, nell’interesse di tutti. Purtroppo, da questo punto di vista, non aiuta l’illusione, diffusa anche nel nostro Paese, che per uscire dalla crisi basti qualche riforma strutturale e fare i “compiti a casa”.
L’Unità 20.05.14
"Così l’Europa ha migliorato la nostra vita", di Vladimiro Zagrebelsky
L’appello rivolto dal presidente Napolitano insieme ai Presidenti di Germania e di Polonia a «Votare e Votare per l’Europa», non ha trovato l’attenzione che merita, travolto nel gorgo di insulti, sciocchezze e battute di spirito che avvelenano la campagna elettorale. E invece quell’appello è importante. È innanzitutto importante perché viene dai Presidenti di tre grandi Paesi dell’Unione europea, che, pur rappresentando storie e caratteri diversi, chiamano all’unità d’Europa. A prova che il motto della Unione europea, Uniti nella diversità, risponde ad una realtà ancor viva, che i vari stereotipi di contrapposizione (primo fra tutti quello dei Paesi del Nord opposti a quelli del Sud) non riescono ad annullare.
è poi fondamentale il contenuto dell’appello, perché finalmente attira l’attenzione su temi diversi da quello, importante ma non esclusivo, della politica economica e della relativa crisi.
La pace nella grande area dell’Unione viene data per scontata. La maggior parte delle attuali generazioni non ha visto la guerra, non ne conosce l’orrore, non sa che per secoli gli europei si sono combattuti in un’infinita guerra civile europea, che nel secolo scorso, ha trascinato nel conflitto l’intero mondo. Ma la pace acquisita è anche il frutto di un’audace iniziativa politica, lanciata alla fine della seconda guerra mondiale, da uomini politici lungimiranti e convinti che l’Europa non avrebbe potuto vivere in pace se non unificandosi. La costruzione europea cominciò a realizzarsi concretamente mettendo in piedi istituzioni comuni. La nostra Costituzione già nel 1948 offriva la disponibilità dell’Italia a cedere porzioni della sua sovranità a favore di istituzioni internazionali capaci di assicurare la pace e lo sviluppo delle nazioni.
L’Europa era distrutta materialmente e moralmente. L’Europa nei secoli recenti aveva indicato al mondo la via della libertà di pensiero e di espressione, della libertà religiosa, della libertà di associazione, della tolleranza e del rispetto delle persone. Ma poi aveva prodotto i fascismi e il nazismo. I Paesi d’Europa rimasti dall’altra parte della Cortina di Ferro erano costretti nel comunismo sovietico. La ricostruzione dunque doveva certo riguardare l’economia, ma anche la democrazia, i diritti umani, le libertà fondamentali. La pace, bene supremo, avrebbe potuto realizzarsi solo se entrambi i campi di azione fossero stati curati. Al primo venne destinato l’insieme delle Comunità europee che sono ora raccolte nella Unione europea, al secondo doveva dedicarsi il Consiglio d’Europa. A quest’ultimo venne confidato il compito di promuovere la democrazia e i diritti umani, con l’azione culturale e politica e attraverso l’opera della Corte europea dei diritti umani.
L’influenza di quest’ultima sull’armonizzazione e la protezione dei diritti in Europa è stata ed è profonda, anche se qualche volta è accolta con irritazione da chi rilutta a seguire il movimento europeo verso il maggior rispetto dei diritti e delle libertà di ciascuno. Ora la dimensione delle libertà economiche – inizialmente riassunte in quelle di movimento in Europa dei lavoratori, delle merci, dei capitali e dei servizi – ha incontrato inevitabilmente quella delle libertà civili e politiche e quella dei diritti sociali. L’Unione europea non è più solo strumento di un mercato comune europeo. Essa nei suoi trattati fondativi e nelle sue istituzioni protegge la sicurezza dei suoi cittadini, i loro diritti e le loro libertà in tutta la vasta area dell’Unione. E i cittadini dei 28 Paesi dell’Unione sono anche cittadini europei.
Se ora in Italia il Parlamento modifica la legge sul divorzio, semplificandone e abbreviandone la procedura, è perché non possiamo rimanere isolati dall’Europa in cui viviamo. Se i diritti delle coppie che devono procreare con l’aiuto della scienza medica vengono ora assicurati anche in Italia, è perché non regge l’imposizione di divieti in una Europa che conosce la libertà. Se ora anche in Italia i figli, tutti i figli, comunque nati, sono eguali, è perché le discriminazioni non sono ammesse in Europa. Se i criminali che ignorano le frontiere possono essere ricercati e perseguiti efficacemente in Europa, è perché i Paesi dell’Unione collaborano e riconoscono reciprocamente le sentenze dei loro giudici. Se l’Italia dovrà adattarsi a regolare le discariche dei rifiuti in modo da non danneggiare la salute delle persone, è perché la salute in Europa è bene comune e l’Unione impone sanzioni ai governi che non se ne curano. Se, quando necessario, è possibile farsi curare in Europa nei servizi sanitari pubblici di altri Paesi, è perché vi sono accordi europei che lo consentono. La lista può continuare e certo si arricchirà in futuro se all’Unione si chiederà di aumentare l’integrazione e rafforzare le politiche comuni. Un tema urgente e grave è quello della gestione delle immigrazioni dall’esterno dell’Unione. Ma c’è contraddizione in chi accusa l’Unione di non fare abbastanza e di lasciar sola l’Italia (e la Spagna, e la Grecia) e al tempo stesso fa crescere idee di abbandono dell’Unione e di isolamento nazionale. L’Italia può pensare di affrontare da sola simili epocali movimenti di popolazioni?
Ora, proprio a partire dalle prossime elezioni europee, il Parlamento dell’Unione vedrà i propri poteri di iniziativa e decisione aumentati rispetto a quelli restanti dei singoli governi. La sua composizione è dunque più importante di prima e sarà determinante il conflitto tra i gruppi che vogliono andare avanti e quelli che vogliono abbandonare il disegno grandioso della federazione dell’Europa.
La libertà di movimento nell’Unione non è solo una comodità, né riguarda solo la libertà di viaggiare. Significa invece libertà di lavorare e di studiare e vivere in tutta l’Europa dell’Unione. Essa è un diritto per i cittadini dell’Unione. Quando era necessario il passaporto, la persona doveva chiederlo alle autorità del proprio Stato e doveva presentarlo a quelle dello Stato in cui voleva entrare. Doveva chiedere e poteva ricevere un rifiuto. Non aveva diritto. Ora non ci si rende nemmeno conto di attraversare le antiche frontiere. I cippi in pietra che si vedono sulle creste alpine per segnare che più oltre c’è Francia, sono ora una curiosità, ma per quei confini, che abbiamo abolito e che qualcuno vorrebbe veder rinascere, si sono combattute guerre e sono morte persone. Ricordiamocene ora che abbiamo il diritto di votare per comporre il Parlamento di noi europei.
La Stampa 20.05.14
"Nuove imprese e lavoro con i fondi Ue", di Giuseppe Chiellino
Più di 47mila posti di lavoro creati in Italia grazie ai fondi europei. E poi 3.700 nuove imprese; banda larga estesa a più di 940mila persone; sostegno per 26mila Pmi. Il bilancio della Commissione europea sull’efficacia della politica di coesione nel periodo 2007-2013 è ancora provvisorio. Non solo perché si ferma al 2012 ma anche perché molte regioni sono ancora indietro nella realizzazione dei progetti cofinanziati dalla Ue. All’attivo ci sono anche 1.500 chilometri di ferrovie, costruite o ricostruite, e progetti di depurazione delle acque reflue per un milione di persone.
Queste cifre si riferiscono solo agli interventi del Fesr (Fondo per lo sviluppo regionale) che rappresenta circa la metà delle risorse europee disponibili, considerando anche il Fondo sociale (Fse) e il Fondo per l’agricoltura e le aree rurali (Feasr). Servono a dare concretezza alla politica di coesione dell’Unione e ai fondi europei, troppo spesso associati nell’immaginario collettivo all’idea di spreco e malagestione.
Non che non ci siano – purtroppo – episodi di truffa o corruzione, ma come sempre un albero che cade fa più rumore di un bosco che cresce. E al bosco bisogna guardare per cercare di capire non solo il senso delle politiche europee di coesione, ma anche come sfruttarle per la crescita e l’occupazione. Perciò il confronto con gli altri Stati membri, che ancora una volta vede l’Italia nelle posizioni di coda, va vissuto non come uno smacco ma come l’occasione per capire cosa possono fare regioni e ministeri per spendere meglio e più velocemente le risorse europee.
Per esempio guardando alla Germania, che con risorse inferiori a quelle destinate all’Italia è riuscita a creare 88mila posti di lavoro e ha sostenuto la nascita di 6.500 nuove imprese e 5.900 progetti nelle energie rinnovabili. O alla Spagna che, è vero, aveva più risorse dell’Italia, ma sembra anche averle spese molto meglio, sia in termini di nuova occupazione (58mila) che di supporto alle Pmi (43mila) o, ancora più significativo, a sostegno di 30mila progetti di ricerca. L’elenco potrebbe continuare, per esempio con il Regno Unito che, con un terzo dei fondi rispetto all’Italia, ha creato 87mila posti di lavoro. Dettaglio non secondario, il Regno Unito, come la Germania, ha speso le risorse del Fse dopo aver definito una strategia che andava al di là dei corsi di formazione (“il corsificio”, come lo chiamano a Bruxelles) e puntava ad obiettivi ben individuati.
Salvo improbabili grosse modifiche imposte dalla Commissione all’Accordo di partenariato che è sotto esame, da qui al 2020 le regioni dovranno gestire direttamente più di 30 miliardi di euro (il dettaglio nella tabella a fianco), senza contare il cofinanziamento. Più di 1.000 euro procapite, neonati compresi, in diverse regioni del Sud. E sempre che non si applichi davvero la clausola che impone di tagliare la dote alle regioni che si sono dimostrate meno efficienti, ampliando ulteriormente i programmi nazionali.
Il Sole 24 Ore 19.05.14
Dieci risposte ai “no euro”, a cura dei Deputati PD
A che cosa serve l’Europa? È importante dire innanzitutto a che cosa è servita, perché talvolta si ha l’impressione che l’Europa per molti rappresenti soltanto la politica di austerità degli ultimi cinque anni. Ma l’Europa è nata sessant’anni fa ed è servita in primo luogo a garantire la pace nel cuore dell’Europa, una pace che era stata brutalmente strappata due volte nel corso del Novecento…” (Presidente Napolitano, Palazzo del Quirinale, 13 aprile 2014).
1) L’euro ha privato l’Italia della sovranità monetaria. Ora non abbiamo gli strumenti per affrontare la crisi.
I tassi di cambio sono determinati in larga misura dalle forze di mercato, è illusorio pensare che prima dell’euro le autorità monetarie decidessero autonomamente delle loro monete. Un tempo l’economia mondiale aveva come riferimenti principali il dollaro statunitense e il marco tedesco. Se perdita della sovranità c’è stata, questa non è stata determinata dall’euro o dall’Europa, ma dall’incapacità di tenere sotto controllo i conti pubblici. Come è accaduto quando la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo non sono più riusciti a collocare titoli di debito pubblico sul mercato e hanno dovuto chiedere aiuto all’Unione europea e al Fondo Monetario internazionale. Già a partire dagli anni Novanta, quindi ben prima della crisi globale del 2008, l’economia italiana aveva evidenziato ritmi di crescita molto contenuti, intorno all’1,5% in media all’anno, denotando una sua fragilità indipendente da fattori di carattere congiunturale. L’euro ha offerto una occasione unica all’Italia: la possibilità di ridurre il debito pubblico senza ridurre la spesa pubblica, grazie al dimezzamento delle spese da interesse. Peccato che questo regalo sia stato sostanzialmente sprecato. Insomma: l’euro non penalizza le economie deboli ma quelle economie che crescono in modo squilibrato, accumulando debiti che poi rischiano di diventare insostenibili. Un Paese che non cresce fatica a sostenere il proprio debito.
2) Uscire dall’euro e tornare alla lira ci consentirebbe di svalutare in modo da favorire le esportazioni.
In realtà chi propone di uscire dall’euro vuole l’Italia fuori dall’Unione europea. Non è da escludere che, nell’immediato, la svalutazione possa favorire la competitività delle merci che non dipendono da materie prime importate o settori dell’economia come il turismo. Anche se, allo stesso tempo, non sono neppure da escludere ritorsioni commerciali da parte degli altri paesi, con l’introduzione di dazi nei confronti delle merci esportate dalle nostre imprese. Tuttavia gli effetti positivi sarebbero effimeri e di breve durata, a causa della ripresa dell’inflazione. L’Italia tornerebbe indietro agli anni ‘70-80, con un’economia segnata da una spirale di svalutazione e inflazione e fughe di capitali; per evitare danni peggiori si dovrebbero ripristinare restrizioni difficilmente compatibili con un mercato integrato come quello realizzato in Europa negli ultimi decenni. Le limitazioni ai movimenti di capitale potrebbero non bastare, si dovrebbero porre dei limiti ai prelievi bancari, per evitare l’assalto ai bancomat da parte di chi correrebbe a ritirare i propri risparmi. Nell’ultima grande crisi valutaria, quella del settembre 1992, la lira si svalutò del 30% in soli quattro mesi. Il picco fu raggiunto nel marzo del 1995, con il marco a 1.274 lire: + 66% rispetto al settembre 1992. E questo scenario è da considerarsi ottimistico: il panico e le reazioni a catena nel sistema finanziario italiano potrebbero determinare una crisi economica e una svalutazione ben superiore a quelle sperimentate in passato, perché una cosa è uscire da un sistema di cambi fissi e un’altra è uscire da una unione monetaria. L’uscita dell’Italia dalla zona euro farebbe ripartire la speculazione contro i paesi più fragili, provocando una pesante recessione in tutta Europa, con una reazione a catena che investirebbe anche il nostro Paese. Con l’inflazione che torna a salire avremmo stipendi più bassi e prezzi più alti, la bolletta energetica schizzerebbe verso l’alto, i mutui impazzirebbero. Uscire dall’euro non ci aiuterebbe, anzi peggiorerebbe la vita sociale e la qualità democratica del Paese, con un impoverimento generale della popolazione.
3) L’Italia non potendo svalutare l’euro è obbligata a ridurre i salari per recuperare competitività.
All’interno dell’unione monetaria, dove non c’è possibilità di modificare i tassi di cambio, gli squilibri di competitività possono essere recuperati attraverso una “dinamica delle remunerazioni” più contenuta rispetto agli altri partner europei. Tradotto brutalmente, vuol dire salari più bassi, ma questa è una misura oggi inaccettabile che comprimerebbe ulteriormente la domanda interna facendo crollare i consumi. La politica fiscale può dare un contributo rilevante alla riduzione del costo del lavoro, attraverso una diminuzione del cuneo fiscale, le imposte che gravano sul lavoro, ma la sua fattibilità dipende dallo spazio di manovra concesso dalla situazione delle finanze pubbliche. Non è l’euro, quindi, a ridurre i salari, ma l’incapacità dei paesi di riformarsi e di fare scelte di finanza pubblica che favoriscano il lavoro invece delle rendite e della spesa improduttiva. Se torna la lira non illudiamoci di vedere tornare chissà quali stipendi, anzi gli scenari sono da incubo. La banca svizzera Ubs ha calcolato, per i paesi come l’Italia, quanto costerebbe lasciare l’euro: il costo per ogni cittadino sarebbe di 9.500 – 11.500 euro solo per il primo anno, per salire a 3.000 – 4.000 euro negli anni successivi. L’inflazione e l’aumento dei prezzi delle materie prime colpirebbero soprattutto le fasce sociali più deboli. Gli Stati baltici, si dice, uscirono dal rublo negli anni ’90 e ora stanno bene. E’ solo un caso che Lettonia e Estonia siano oggi nell’euro?
4) Usciamo dall’euro e non paghiamo il debito pubblico o paghiamone solo una parte.
Rinnegare il debito o ristrutturarlo consentirebbe, secondo alcuni, di liberare risorse per la crescita della nostra economia. Purtroppo, però, non è così semplice. Dietro questa affermazione c’è innanzitutto l’idea che il nostro debito pubblico sia stato creato in modo disonesto da una classe politica corrotta in combutta con la finanza e che quindi non riguardi i comuni cittadini. I titoli emessi dallo Stato non rappresentano soltanto un debito per l’Italia: per i risparmiatori rappresentano un credito, sono una ricchezza e pertanto una fonte di reddito. E’ bene ricordare che la quota di titoli di Stato in mano a detentori esteri è ormai solo del 30%, il restante 70% è quindi in mano direttamente o indirettamente, attraverso le banche e le assicurazioni, ai nostri risparmiatori; di questo, il 10% è detenuto dalle famiglie italiane. Non adempiere agli impegni assunti con il debito avrebbe conseguenze pesanti prima di tutto per i nostri risparmiatori, quelli meno sofisticati che una volta si chiamavano i “bot people”. Quanto è accaduto in Grecia dimostra che la ristrutturazione del debito pubblico è un processo tutt’altro che facile e indolore. Non solo vengono colpiti i risparmiatori più deboli, come i pensionati, ma anche quelle istituzioni finanziare che investono in titoli pubblici, come i fondi pensione e le assicurazioni, con un impatto negativo sui trattamenti previdenziali. Ulteriori problemi, è evidente, sorgerebbero con i creditori esteri: una decisione unilaterale
comporterebbe la chiusa dei mercati internazionali e la fuga dei capitali. Dopo di che, chi comprerebbe più i nostri titoli di Stato? E come faremmo a pagare le pensioni o gli stipendi dei dipendenti pubblici? Altro sarebbe una politica coordinata europea per la gestione solidale delle quote dei debiti sovrani eccedenti il 60% del Pil, con meccanismi di questo tipo si potrebbero ottenere i benefici di una ristrutturazione senza subirne i costi. Per costruire questo scenario, però, occorre, stare dentro l’Europa, non fuori, ed esercitare influenza, come il PD potrà fare nel PSE.
5) Il cambio all’entrata nell’euro era sbagliato e ha penalizzato l’economia italiana. Si poteva fissare a 1.000 lire per euro invece di 1.936,27.
L’entrata nell’euro non è stata decisa in una notte ma arriva al termine di un lungo processo di convergenza iniziato negli anni ’70 con il “Serpente monetario europeo” e poi proseguito con il “Sistema monetario europeo” (Sme), che attraverso una unità di conto comune (Ecu), perseguiva l’obiettivo di ridurre le fluttuazioni dei cambi. I tassi di cambio utilizzati per convertire le monete facevano riferimento alle quotazioni registrate sui mercati valutari prima dell’entrata in vigore dell’euro. A determinare il tasso di conversione dell’euro è stata la combinazione ponderata dei cambi tra le valute partecipanti all’unione monetaria. Se il tasso di cambio fosse stato troppo vantaggioso per gli esportatori italiani si sarebbe verificato un aumento dei prezzi dei beni importati e dunque dell’inflazione e probabilmente dei tassi d’interesse. Un tasso di cambio troppo forte avrebbe comportato una perdita di competitività e una recessione per l’Italia. La colpa degli aumenti non è dell’euro ma della mancanza di concorrenza e dell’inadeguata vigilanza sull’andamento dei prezzi.
6) Il Fiscal Compact impone all’Italia un taglio di 50 miliardi all’anno che in 20 anni equivalgono a quasi mille miliardi.
Il Fiscal Compact richiede che i paesi ad alto debito pubblico riducano ogni anno di 1/20 il debito pubblico in eccesso rispetto al 60% del Pil. Per l’Italia, che ha un debito pubblico di circa il 130% e supera la soglia di 70 punti, la riduzione deve essere dunque pari al 3,5% di Pil. E’ un errore tradurre questa riduzione automaticamente in miliardi di euro. Nel nostro caso se il Pil “nominale” (crescita più inflazione) cresce, il rapporto tra debito e Pil si riduce e il criterio viene rispettato. Altro errore è ritenere che la riduzione del rapporto tra debito e Pil richieda ogni anno una manovra da 50 miliardi. Non è così, perché una volta raggiunto il saldo di bilancio che consente una riduzione del debito, il rapporto si riduce poi automaticamente, senza ulteriori manovre negli anni successivi. Non è finita: il Fiscal Compact non è uno strumento rigido ma contiene alcune clausole di salvaguardia. Prevede infatti una procedura per quegli Stati, come il nostro, che non riescano a ridurre il debito come previsto, che prende in considerazione tra l’altro l’impatto di effetti specifici, come i periodi di grave recessione economica e i contributi al Fondo salva Stati, che per l’Italia ammontano ad oltre 50 miliardi. Nella valutazione sul percorso di riduzione dell’eccedenza di debito possono inoltre essere considerati una serie di fattori significativi, nei quali l’Italia ha le carte in regola: 1) la posizione in termini di risparmi netti del settore privato; 2) il livello del saldo primario; 3) il varo di politiche a favore della crescita nel contesto di una strategia comune dell’Unione; 4) l’attuazione di riforme strutturali della spesa pubblica.
7) L’euro ha favorito la Germania, le sue banche e le imprese esportatrici.
L’euro ha favorito la mobilità dei capitali e l’integrazione dei mercati finanziari europei, eliminando il rischio di cambio. Nei primi cinque anni dell’unione monetaria, gli investimenti sono calati in Germania, a un ritmo medio di circa l’1% all’anno, mentre sono aumentati di circa il 6% all’anno in Spagna e in Irlanda e del 9% in Grecia. A beneficiare dell’euro, soprattutto all’inizio, sono stati anche i paesi del Sud Europa. Il problema è che questi paesi hanno ottenuto prestiti, a tassi più bassi di quelli in vigore prima dell’euro, non solo per investire nel sistema produttivo ma anche per finanziare consumi e acquisto di immobili, favorendo la creazione di una bolla speculativa che ha, successivamente, messo in grave difficoltà il loro sistema bancario. E’ quello che è accaduto in Spagna e in Irlanda. Ora però con la creazione dell’unione bancaria, e il trasferimento dei poteri di vigilanza alla Bce, sono previste misure per evitare il rischio di ripetersi di queste bolle speculative. La chiave del successo dell’economia tedesca, che produce beni di elevata qualità, non deriva tanto dalla stabilità del rapporto di cambio con gli altri paesi europei quanto dalla sua crescente integrazione nell’economia mondiale, che ha consentito alle esportazioni tedesche verso il resto del Mondo di crescere in modo esponenziale mentre quelle verso l’Unione europea sono rimaste sostanzialmente immutate.
8) La Bce favorisce gli interessi della Germania e non quelli dei paesi più deboli.
Prima dell’euro, la politica monetaria dell’Europa veniva di fatto decisa dalla Bundesbank. Per un lungo periodo di tempo, la lira, come altre monete, è stata fortemente influenzata dalla politica monetaria della Germania. Se la Banca centrale tedesca alzava i tassi d’interesse, la Banca d’Italia era costretta a fare lo stesso. Se non lo faceva, gli investitori vendevano lire per comprare marchi, che avevano un rendimento maggiore, per effetto dell’aumento dei tassi. Il governo tedesco non “domina” la Bce, come si è visto negli ultimi anni, quando alcune delle decisioni più importanti sono state prese nonostante il voto contrario dei membri tedeschi. Il Comitato direttivo della Bce è composto dai diciotto governatori delle banche centrali dei paesi membri dell’euro più i sei membri del Comitato esecutivo che siedono in via permanente e gestiscono la Banca, ciascuno con un voto. Il governatore della Bundesbank ha dunque un voto su ventiquattro come il governatore della Banca centrale del Lussemburgo o di Malta. Se vi è un tedesco tra i sei membri del Comitato esecutivo, il numero complessivo di tedeschi sale a due su ventiquattro.
9) Questa è l’Europa delle élite non dei cittadini.
L’Europa è stata costruita sin dall’inizio rispettando i processi democratici di ciascun Paese, le cessioni di sovranità sono state decise attraverso trattati internazionali e spesso, laddove previsto dalla Costituzione, sono passate al vaglio di referendum popolari. In Italia, il trattato di Maastricht è stato ratificato dalla Camera dei deputati con 406 voti a favore, 46 contrari e 18 astenuti. Anche se i sondaggi d’opinione non sono sempre giudicati molto affidabili, è bene ricordare che secondo i dati di Eurobarometro, nel 1998 l’88% degli italiani era favorevole alla moneta unica. Nessuno può negare che l’Italia, per decenni, è stato il Paese più europeista del continente. E’ una forzatura sostenere oggi che l’adozione dell’euro non sia avvenuta in modo democratico. L’Italia ha affrontato la crisi globale in condizioni di estrema fragilità e ne ha sofferto più di altri paesi. Dare però la colpa alle élite è una fuga dalle responsabilità, un rifugiarsi nelle teorie complottiste che vedono dietro il sogno europeo la “grande finanza internazionale”. Il tema del deficit democratico dell’Europa non può essere usato strumentalmente per tornare indietro, semmai per rafforzare la partecipazione e aumentare la trasparenza delle istituzioni europee. Le elezioni del maggio 2014 saranno l’occasione per rafforzare questa legittimità democratica. Tra l’altro queste sono le prime elezioni da quando, nel 2009, il Trattato di Lisbona ha conferito al Parlamento europeo nuovi e importanti poteri, tra cui quello di eleggere il presidente della Commissione europea.
10) L’Europa dei burocrati ci impone solo austerità.
Scaricare tutte le colpe dell’austerità sugli euroburocrati di Bruxelles è facile, consente ai governi europei di fuggire dalle loro responsabilità. La recente esperienza ha dimostrato che i paesi che hanno affrontato la crisi globale partendo da una situazione più fragile delle finanze pubbliche hanno sofferto maggiormente. E’ evidente però che la crisi dell’Eurozona non può essere risolta solo con gli strumenti monetari, dalla BCE, da Draghi: ci vuole anche una politica fiscale comune e ci vogliono meccanismi incardinati nel bilancio europeo per il finanziamento dei sussidi alla disoccupazione e, soprattutto, per il sostegno dell’occupazione giovanile. Il Programma “Garanzia Giovani” (Youth Guarantee), il Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile, è un primo importante passo, ma molto di più andrà fatto. Occorre una maggiore flessibilità per il rientro dei conti pubblici alla luce del ciclo economico avverso. Una gestione che tenga conto della necessità di tornare su un sentiero duraturo di crescita, superando approcci a volte ottusamente tecnocratici. Significa disegnare un nuovo e credibile sistema di vincoli che sia al passo coi tempi, che permetta di risanare i bilanci realisticamente, senza uccidere il malato e che possa essere rispettato da tutti. Occorrono meccanismi di gestione delle crisi pienamente incardinati nelle istituzioni democratiche europee. Occorrono meccanismi di solidarietà finanziaria europea per la gestione dei debiti sovrani. Ora l’Italia con le riforme può acquistare la forza e la credibilità necessarie per chiedere all’Europa di cambiare le sue regole e perfino i suoi paletti. Solo se iniziamo a cambiare verso all’Italia, poi abbiamo le carte in regole per chiedere che cambi verso l’Europa.
Lo spunto per la redazione di questo dossier è giunto dopo la lettura di Lorenzo Bini Smaghi, “33 False verità sull’Europa”, edito da il Mulino, a cui abbiamo attinto a piene mani; soprattutto ci è piaciuta l’idea delle domande e risposte. Non meno interessante anche se più problematico abbiamo trovato Luigi Zingales, “Europa o no”, appena pubblicato da Rizzoli. Altrettanto utili sono i contributi apparsi su alcuni siti come nelmerito.com, Nens, lavoce.info, di cui segnaliamo lo speciale elezioni 2014, “Euro pro e contro”. Le argomentazioni dei nemici dell’euro sono così diffuse e facilmente rinvenibili che ci risparmiamo di segnalarle. Per la parte propositiva e di “attacco” rinviamo al programma elettorale del PD-PSE: “Europa cambia verso”.
"Laureati, l'Italia è ultima", di Gianni Trovati
Il consuntivo dice «ultimi in Europa», e gli obiettivi ufficiali comunicati dall’Italia a Bruxelles nell’ambito della «strategia Europa 2020» lo confermano: ultimi siamo e ultimi resteremo, almeno fino al 2020.
Tanta coerenza riguarda il tasso di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni di età. L’indicatore è piuttosto trascurato nel dibattito pubblico di casa nostra ma è centrale nei documenti europei, perché ancor più dei titoli di studio nella popolazione complessiva misura il «capitale umano» più importante per il presente e il futuro di un Paese.
I numeri sono tutti scritti in documenti ufficiali – li ha spulciati per primo Roars.it, blog animato da un’associazione di docenti presieduta da Francesco Sylos Labini (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 aprile) – e sono parecchio efficaci nel raccontare una delle cause della crisi italiana. Il fenomeno non è nuovo, perché già nel 2009 superavamo in graduatoria solo Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania e Macedonia, ma negli ultimi anni si è aggravato: mentre l’Italia procedeva con i ritmi “tranquilli” del passato, portando al 22,8% la quota di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni, gli altri Paesi correvano di più: la Repubblica Ceca, con un balzo del 9,2% in quattro anni, si è portata al 26,7%, ma anche la Romania (dove il Pil pro capite è meno di un quarto del nostro) e la Macedonia, caratterizzata da una ricchezza per abitante pari al 58% di quella rumena, hanno fatto meglio. La media europea, che conta 36,8 laureati ogni 100 giovani 30-34enni, è lontana, così come i dati registrati nei Paesi che più di Macedonia e Romania dovrebbero rappresentare i “concorrenti” diretti dell’Italia: la Germania si attesta al 33,1%, la Francia è al 44% e il Regno Unito vola al 47,6 per cento.
Fin qui il presente. Ma a evidenziare la scarsa ambizione della politica italiana sulla questione strategica della conoscenza sono soprattutto gli obiettivi ufficiali che negli anni scorsi abbiamo comunicato alla Commissione europea nell’ambito del progetto 2020. Il target continentale chiede di arrivare nei prossimi sei anni almeno al 40% di laureati, dato in effetti non lontanissimo dal 36,8% raggiunto nel 2013, ma noi ci accontentiamo di molto meno. Se rispetterà il proprio programma, l’Italia arriverà infatti al 27%, una percentuale che la abbona all’ultimo posto nel continente almeno fino al 2020: quando in Francia, stando agli obiettivi ufficiali, sarà laureato un giovane su due, e in Irlanda si arriverà al 60 per cento.
La modestia degli obiettivi italiani, del resto, è coerente con le performance di un sistema universitario che non accelera (i laureati 2012, ultimo dato disponibile nelle banche dati Miur, sono stati 295.699, lo 0,2% in più di quelli del 2008), e anzi pare tempestato dai segni «meno» in molti indicatori. Il fondo di finanziamento ordinario, cioè il cuore della spesa statale per l’università, ha perso dal 2008 a oggi 706 milioni, cioè il 9,73% del totale, mentre le stime parlano di un dimezzamento degli professori ordinari e di un taglio del 27% degli associati da qui al 2018. Con questi numeri, il consiglio universitario nazionale (Cun) ha lanciato l’allarme sul «collasso strutturale» delle università, mentre la Conferenza dei rettori si è appena lamentata per la pioggia di adempimenti burocratici «in arrivo da più parti». La carta, insomma, pare l’unica cosa che oggi abbonda nell’università italiana.
Serracchiani: "Con noi i fatti da loro solo insulti e rabbia", di Corrado Castiglione
Presidente, oggi Renzi torna a Napoli, nella stessa piazza in cui qualche giorno fa ha parlato Grillo: sarà un test anche per il Pd. Il partito come si presenta ad una settimana dal voto?
«Il Pd – risponde Debora Serracchiani, vice-segretario dei Democratici e governatore della Regione Friuli – si fa forte del lavoro fin qui portato avanti dal governo. Abbiamo dalla nostra la forza dei fatti. Il governo ha dimostrato di poter cambiare molte delle cose che non piacciono agli italiani. Al di là delle riforme, c`è la concretezza del bonus mensile di 80 euro che sarà riconosciuto per sempre a 10 milioni di italiani, c`è il taglio Irap per le imprese, c`è il decreto lavoro con il quale si mette ordine con una norma di buon senso per i contratti a termine. Sono le premesse per garantire un`Europa diversa».
Il confronto elettorale si sta riducendo ad un duello Renzi-Grillo: vi galvanizza o vi toglie qualcosa?
«Guardi, noi pensiamo soltanto a portare avanti la nostra proposta. Per il resto io non credo ci sia partita fra il Pd e loro: noi offriamo agli elettori una prospettiva e una speranza, loro solo insulti e rabbia».
Renzi ha ricordato che se Grillo arriva primo non sarà un sorpasso perché già alle Politiche è stato il primo partito. Questo vuol dire che il Pd mette le mani avanti e teme una nuova debacle?
«Niente affatto. È solo una precisazione: a fare il sorpasso possiamo essere solo noi, visto che loro alle Politiche sono stati il primo partito. E io sono ottimista. Non solo: il Pd è pronto a conseguire un risultato importante anche al Sud, laddove sappiamo che si gioca una partita fondamentale per i fondi strutturali, affinché siano sempre di più volano di sviluppo».
Non sempre i fondi strutturali sono stati spesi al meglio. Lei che ne pensa?
«Effettivamente ci sono state delle difficoltà a far progetto, al Sud ma anche nel resto d`Italia. C`è bisogno invece di prediligere iniziative di lungo respiro. Soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture. Bisogna fare in modo che sui territori cresca la competitività. Si punti su ricerca e innovazione. Ed è necessario anche che si sappia fare sistema: la vicenda Electrolux dimostra che si possono creare le condizioni perché le multinazionali investano ancora in Italia».
Fondi Ue e progetti: ritiene che le difficoltà delle Regioni possano essere superate dall`Agenzia prevista per la coesione territoriale?
«Ci sono molti aspetti che vanno rivisti. Uno di essi riguarda i co-finanziamenti: sarebbe importante che la quota destinata ad accompagnare l`erogazione dei fondi europei stia fuori dal patto di stabilità. Quanto all`Agenzia, l`obiettivo è sempre quello di uno snellimento delle pratiche dal punto di vista burocratico».
A proposito di Sud, l`indicazione della Picierno capolista con la conseguente rinuncia di Emiliano può penalizzare il Pd?
«Picierno ed Emiliano hanno fatto scelte diverse. Il Pd ha cercato di comporre delle liste molto competitive. Non solo: la scelta delle donne capolista è una sfida culturale. D`altronde penso che Emiliano, in prospettiva, abbia messo nel mirino la presidenza della Regione Puglia il prossimo anno».
La sensazione è che nel Pd stia prevalendo una tregua: fino a quando?
«C`è la consapevolezza tra di noi della grande responsabilità cui siamo chiamati in questo momento storico. D`altro canto è anche vero che il modo puntuale, veloce, efficace con il quale abbiamo lavorato stia facendo superare molte fibrillazioni».
Se il Pd perde si va a elezioni anticipate?
«Questo problema non si pone: il governo sta lavorando a riforme di lungo respiro, per cui l`obiettivo è la scadenza del 2018. Certo, conseguire un buon risultato può contribuire a superare qualche fibrillazione eccessiva».
E se va male?
«Non penso che andrà male».
Il Mattino 19.05.14