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Renzi twitta e rilancia: «Settimana chiave per la scuola, l’Italia riparte», di Valentina Longo

A sei giorni dal voto per le europee il presidente del consiglio torna sul patto di stabilità sbloccato e annuncia per venerdì le risposte ai sindaci e poi i cantieri.
Renzi twitta e rilancia: «Settimana chiave per la scuola, l’Italia riparte». Con un tweet mattutino lanciato poco dopo le otto, il presidente del consiglio ha annunciato l’agenda della settimana, l’ultima di campagna elettorale, che riporta in primo piano un tema chiave per Matteo Renzi: la scuola, punto di partenza per il rilancio del paese, come aveva spiegato nel suo discorso di insediamento e poi ribadito tra l’atro nella lettera ai sindaci. Approvato il patto di stabilità, scrive, si può partire.

A meno sei dal voto per le europee di domenica 25, l’impegno del governo è quello di passare in pochi giorni dalla risposta ai sindaci all’atteso avvio dei cantieri per l’edilizia, che dovranno rimettere in sicurezza le scuole.
Prosegue così il rush finale verso le europee, che stasera porterà Renzi in piazza a Napoli. Parla il giorno dopo l’esortazione ad un voto che non sia per i «buffoni»: «Votate per chi vi pare – incitava ieri in un’intervista tv – ma non mandate buffoni», ha detto, convinto che il Movimento 5 stelle «ha avuto meno piazze, meno gente e avrà meno voti».
Il presidente del consiglio ha anche sottolineato che «se vince il governo, vince l’Italia» e che mentre Berlusconi e Grillo si presentano come uomini della provvidenza, «noi non siamo uomini della provvidenza, so che non c’e’ un nome» per salvare l’Italia «ma c’e’ un pronome, “noi”».

"Perchè difendo l'Europa", di Enrico Palandri

La rete stradale romana, che si può ammirare anche su internet nella riproduzione della tabula Penteugeriana, si è sviluppata per ragioni militari. Poi l’abbiamo usata tutti. L’Europa, come l’Euro, è un progetto che ha oggi come propulsore l’attività delle banche e ci viene spesso spiegato attraverso molti dettagli economici poco illuminanti per la maggior parte della popolazione. Gli effetti collaterali del progetto europeo sono però così immensi e positivi, che sembra difficile immaginare possa davvero regredire se non con una guerra, un crollo, come purtroppo è spesso avvenuto tra i popoli del vecchio continente. Per farsene un’idea basta pensare alle guerre jugoslave del 1991-95 che sono costate oltre 100.000 morti. Al contrario, l’Europa è la vera ragione per cui tanti conflitti si sono dissolti, dall’Irlanda del Nord agli anni 70 italiani e tedeschi. La libera circolazione di persone e idee, il perdere senso dei nazionalismi a favore di una sempre più chiara identità europea, che si accompagna a identità locali che riprendono la loro antica fisionomia, ci hanno reso profondamente diversi.

All’inizio del novecento, a Trieste, James Joyce ha inventato uno dei personaggi che presentano meglio il conflitto della prima metà del novecento: Leopold Bloom, il protagonista di Ulysses, è un piccolo borghese, pensa al sesso, un po’ al denaro, a qualche questione spirituale, ama la sua città. La Dublino che attraversa è a volte attraente, altre antisemita, piena di donne che gli piacciono ma anche minacciosamente attraversata da Boylan, che quel pomeriggio andrà a trovare sua moglie e con cui farà l’amore in modo memorabile, mentre al nostro eroe non riesce più, almeno con lei. Dalla minaccia nazionalista e dalla sua sottomissione alla Storia, Bloom tira fuori attraverso la letteratura l’alterità. Come i protagonisti di Svevo, Kafka, Proust, Roth, anche qui al centro del romanzo del primo novecento c’è l’ebreo, l’altro. Anche questa alterità dell’ebraismo la secolarizzazione dell’Europa l’ha quasi portata via. Ci sono episodi di avversione agli ebrei anche oggi contro cui è bene vigilare, ma sono molto meno drammatici che in passato. Siamo tutti molto più «altri», simili a Bloom, a Kafka, a Zeno Cosini.

Il conforto della penombra nazionali- sta riguarda solo fasce culturalmente arretrate della società, la violenza negli stadi, la demagogia politica di personaggi irrilevanti che si appellano a nostalgie per paesi immaginari che in Europa avevano nei loro corredi leggi razziali e pregiudizi di ogni genere, frontiere non solo contro altri Paesi, ma frontiere interne atroci, sociali, sessuali, generazionali.

Nelle loro continue campagne elettorali parlano di ricchezze che si riverserebbero nel Paese attraverso la svalutazione della moneta, rimpiangono un benessere che non si capisce da cosa potrebbe esse- re prodotto. Basta fare un salto in uno dei tanti Paesi che nell’Euro non sono ancora entrati, e che tentano disperatamente di entrarvi, per avere un’idea di quale benessere si tratti. Sono alle nostre porte ed è da lì che si riversa continuamente in Europa popolazione migrante, gente, come si dice in Inghilterra, che vota con i piedi, cioè andando dove si sta meglio.

Ma del denaro e del non denaro è difficile ragionare, la percezione della ricchezza è ovviamente soggettiva. Certamente peggio stavano gli italiani durante la crisi del petrolio negli anni 70, oppure nel primo dopoguerra. Se dalla crisi che dicono sia la peggiore dalla guerra siamo stati tutti impoveriti, forse non è colpa dell’Europa. E poi è giusto che tanti Paesi lontani, come il Brasile, l’India, la Cina, anche attraverso relazioni commerciali con noi, si siano arricchiti. Lula ha tirato fuori dalla povertà 45 milioni di persone. Quella che per noi è stata crisi è stato, a livello planetario, una importante assestamento.

Ma anche l’Europa non fosse un affare, mille volte meglio essere impoveriti che non tremare per i colpi di cannoni, i bombardamenti, il terrorismo, come capita oggi a così tanti popoli sulle altre sponde del Mediterraneo, dalla Siria all’Egitto, da Israele alla Libia. Che a Londra o Berlino o Parigi vadano così tanti giovani italiani non è solo per fuggire, ma per le opportunità che essere europei oggi offre. A me anzi pare che nell’industria come nell’università e la scuola, nella società in generale, gli antieuropei siano avvinghiati a piccoli privilegi e incapaci di vedere la vera prospettiva in cui le trasformazioni di questa parte del mondo hanno avuto luogo.

L’Unità 19.05.14

"La ricetta di Stiglitz agli italiani incerti", di Mario Pirani

Pochi giorni fa il premio Nobel americano Joseph Stiglitz — noto per le sue posizioni anti austerità — ha svolto, nell’Aula Magna dell’Università Luiss di Roma, una Lezione — dedicata ad uno dei più importanti Presidenti di Confindustria del dopoguerra, Angelo Costa — dal titolo: “L’euro può essere ancora salvato?”.
La sua risposta ha quanto mai colpito un pubblico, quello italiano, non abituato a un linguaggio così tagliente quando si tratta di parlare dell’economia europea. Per anticipare la risposta, se è vero che i Paesi non lasceranno l’euro, vi è un altro pericolo all’orizzonte: quello di una “sindrome giapponese” in cui si fa il minimo necessario per preservare la valuta comune, ma ci si condanna a sopportare costi enormi, danneggiando le capacità di lungo periodo dell’economia europea di crescere e generare occupazione.
La sindrome giapponese, è il caso di notare, fu fatta di deflazione e crescita pressoché nulla per quasi un ventennio: due fenomeni che si rafforzano a vicenda tenendo conto che la riduzione dei prezzi è figlia della crisi da domanda e che quest’ultima peggiora con la deflazione, che fa posticipare i consumi, aumentando il costo reale del debito per i debitori già in difficoltà e il costo del lavoro per le imprese che non riescono più a trattenere il personale. Che la Banca Centrale Europea stia annunciando nuove misure di espansione monetaria con i tassi praticamente a zero e che i dati sulla crescita italiana in questo primo trimestre siano peggiori del previsto non fanno che rafforzare i timori che la sindrome sia drammaticamente reale. Proprio quando, ecco l’ironia, il Giappone stesso pare pronto ad uscirne grazie allo stimolo alla domanda proveniente dal piano di consistenti investimenti pubblici annunciati dal premier Abe prima del rialzo della tassazione indiretta sui consumi per finanziarli.
La soluzione proposta da Stiglitz? Visto che l’austerità non ha essenzialmente mai funzionato, c’è bisogno di un piano europeo in cui il Nord (la Germania) espanda più del Sud (l’Italia) la sua economia, così che ambedue sollevino il Continente senza al contempo che si allarghino le differenze nelle nostre rispettive bilance commerciali, accumulando con ciò insostenibili debiti esteri nel Sud dell’Europa.
È il primo passo verso una unione fiscale che sappiamo bene essere lenta e graduale e dunque impossibile da ottenere nel breve periodo, come ci insegna anche la storia degli Stati Uniti, in cui la vera Unione si è celebrata solo dopo più di un secolo e mezzo con l’arrivo del New Deal di Roosevelt. Quando Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa, affermava che «i paesi della Comunità Europea sono in procinto di stabilire tra loro relazioni d’uguaglianza e solidarietà, sarebbe a dire delle relazioni simili a quelle che già esistono in seno ai nostri propri paesi» dava il segno più di una direzione da intraprendere che di una soluzione a portata di mano. Il primo gesto di solidarietà che si richiede dunque alla Germania non è poi così drammatico: aiutare se stessa permettendo ai propri lavoratori di spendere di più (abbassando le tasse ed aumentando i salari ai lavoratori tedeschi) fa bene all’export italiano e ci aiuta a guadagnare tempo riprendendo fiato per fare le riforme che servono al Paese.
La prima riforma che ci spetta di fare è quella della lotta alla corruzione, come dimostra la vicenda Expo, ben più dura come sforzo di quella che coinvolge la vendita delle auto blu. Da essa proverranno le risorse per fare anche noi senza debito quegli investimenti pubblici che rimettono in piedi il Paese.
Stiglitz giustamente ricorda come la crisi di cui viviamo le conseguenze non è un disastro naturale ma una situazione che ci siamo masochisticamente imposti. Solo nel tempo ne sentiremo gli effetti se non arrestiamo l’emorragia: scoraggiamento giovanile, distruzione di piccole imprese e anche disillusione verso i meccanismi democratici di rappresentanza.
Ecco, le elezioni. Come ha notato Gustavo Piga, professore di Economia a Tor Vergata e organizzatore dell’evento, l’appuntamento europeo di questo fine settimana, di fatto, diventa un’ultima ciambella per inviare al Parlamento europeo chi potrà con tenacia difendere gli interessi italiani all’interno del progetto europeo: nell’euro, in
un’altra Europa.

La Repubblica 19.05.14

"Per sconfiggere il grillismo", di Michele Prospero

Prima di affondare il giudizio di censura sul pericolo mortale rappresentato dal grillismo, è bene chiedersi cosa ancora induca migliaia di persone a gremire le piazze per ascoltare le intemperanze espressive di un comico che manda tutti a quel paese. Quello che sembrava avere i tipici connotati di una episodica esplosione di rivolta, catastrofica nell’impatto immediato ma destinata a un rapido spegnimento dopo il crollo sistemico del 2013, ha invece assunto tratti più complessi e meno effimeri nelle sue prospettive di durata.

Comprendere la genesi nascosta del fenomeno, prima di aggredirne con efficacia la patologia visibile, diventa perciò una cautela analitica necessaria.

Sul piano simbolico sono stati adottati o annunciati in questi mesi dei provvedimenti legislativi che avrebbero dovuto prosciugare in gran fretta il terreno di coltura del movimento e ridurlo entro di-ensioni quantitative prossime alla irrilevanza. Abolito il finanziamento pubblico dei partiti, alzata la bandiera del Senato a costo zero, soppresso il ruolo amministrativo delle province, inasprito il conflitto con il sindacato, la volontà di sangue contro il ceto politico avrebbe dovuto incassare la vittoria e cessare le cruente ostilità. E invece no. La domanda di una sbrigativa vendetta non si placa. Il torrente dell’antipolitica torna a scorrere con una forza impetuosa e minaccia altri sfaceli.

Non si cura una cruda escrescenza di antipolitica, la cui simbologia cova da anni nel senso comune dominante, con delle iniezioni di un populismo dal volto mite somministrate dallo stesso ceto politi- co che è disposto a ordinare delle repentine ritirate strategiche pur di sopravvive- re all’assedio. Certe concessioni simboliche per accarezzare l’onda anomala che tutto travolge, possono essere peggiori dell’arroccamento miope a difesa della cittadella circondata. E non a caso Grillo intima con la solita veemenza la resa senza condizioni e promette degli esemplari castighi (virtuali, precisa) comminati in sbrigativi processi di piazza. L’inseguimento del comico, condotto sul lessico e sulle metafore dell’antipolitica, non arresta la insorgenza cancerosa dell’antipolitica, che anzi penetra ovunque senza incontrare più resistenze. Se vengono a mancare degli essenziali anticorpi, consapevolmente di minoranza ma attivi sul terreno della risposta culturale, tutto si complica e più niente tiene.

È un grosso errore interpretativo individuare il ventre molle del grillismo nella scenografia anticasta e di riflesso dirottare la competizione con esso sul piano dell’antipolitica. L’antipolitica è soltan- to la forma esteriore con cui un movi- mento antisistema dà senso e visibilità ad una rivolta. Non ne è però la causa. La genesi del fenomeno risiede piuttosto nell’alienazione politica di intere generazioni condannate all’anomia sociale, nel terrore della caduta di status che paralizza chi ha beni posizionali, nella mancanza di presente e nel furto di futuro che induce alla disperazione chi non ha canali di ascesa. La decrescita economica, che raggiunge livelli record, l’immobilità sociale che accompagna il declino, pre- cedono in Italia la grande crisi del 2008. E per questo, come disegnare un governo pubblico della crescita economica e dell’inclusione sociale-generazionale, è la vera sfida per la rimotivazione della funzione della politica.

I poteri forti dei media e del denaro, che dapprima hanno gonfiato Grillo per bloccare la sinistra in agguato e per dare così compimento al sogno assurdo di una politica senza partiti, ora tremano al cospetto della loro stessa demoniaca creatura che scherza con il fuoco, annuncia di essere oltre Hitler e stuzzica la rabbia per ora contenuta dei sorveglianti del mercato mondiale. Si fa un immenso favore al comico, che urla nelle piazze frequenti battute sessuali, se vengono spezzate le catene dei legami sociali, sacrificate le organizzazioni delle classi lavoratrici, se sono decostruite le residuali strutture di partito per compiacere una malintesa personalizzazione della politica.

La riforma della politica, con canali di partecipazione continua che spazzino via i tanti emuli del ras di Messina ora in manette che sono disseminati nei territori più desolati, il recupero della rappresentanza sociale dei ceti popolari che vagano inermi senza più referenti ideali, la cura della esplosiva differenziazione territoriale che minaccia la frantumazione istantanea della cornice nazionale, sono questi i campi d’azione per contenere il germe patogeno del grillismo. Meno demonizzazione della follia del comico e più politica, dunque. E soprattutto occorre una visibile autocritica della sinistra per le forme degenerative e subalterne alle culture del ventennio che l’hanno re- sa priva di identità, organizzazione, clas- si sociali di riferimento. Il grillismo non si combatte senza una riforma radicale dei modi di essere della sinistra e senza un recupero della sua ambizione ad assalire la stratificazione sociale dell’Italia delle ingiustizie.

L’Unità 19.05.14

"Balcani sotto il diluvio che unisce i popoli nemici", di Paolo Rumiz

Il preludio è già sopra Fiume. Ammassi di betulle storte, schiantate dalla tempesta di febbraio — gelo e bora — come asticelle del gioco chiamato “Sciangai”. Montagne russe per piccoli canyon, fra montagne storte, sotto un cielo inchiostro con accenni di nevischio. Gli evacuati di Obrenovac (Serbia) ospitati in un palazzetto dello sport
A Delnice , ancora boschi stremati, persino tralicci piegati dal gelicidio. È lo stesso posto dove vent’anni fa vedevi i primi segni di guerra, le case dinamitate o sforacchiate dai kalashnikov. E poi via, oltre una cordigliera desertica, dove penetrarono le avanguardie del Turco, e dove la Bosnia col suo labirinto di acque spinge come un cuneo verso la valle della Kupa, ultimo fiume delle Alpi.
Lassù sembra che Mediterraneo e Centro Europa si diano battaglia a colpi di vento. Oltre, pensi, andrà meglio. E invece no. Dopo Gradiska, quando la Sava sembra raddoppiare di portata per l’immissione dei primi affluenti di destra — l’Una e il Vrbas — proprio lì le prime colline di Bosnia sono inghiottite da uno strato di nubi grasse color topo. L’aria è ferma, in bilico fra i monti e la Pannonia. Ma il peggio arriva col fiume Bosna, lo stesso che sfiora Sarajevo. Fra Derventa, Modrica e Doboj il traffico si interrompe, i ponti sulle montagne son venuti giù, la precedenza è tutta per i mezzi di soccorso.
Ora esce il sole, il paesaggio luccica di rivoli, mostra plasticamente la dimensione della catastrofe. Maglaj è sotto quattro metri d’acqua. A Doboj si parla di settanta vittime e di numerosi dispersi. A Srebrenica, fa sapere Azra Ibrahimovic, si arriva solo per la strada alta delle miniere; Bratunac e Potocari sono isolate. Travnik, la città di Ivo Andric, è andata sotto, e così anche Prijedor e Zenica. Fra Modrica e Zepce il fiume si è mangiato 200 metri di ferrovia e chilometri di asfalto stradale. Ma il peggio è il seminato perduto: granturco spazzato via, alberi di prugne e ciliegie che hanno perso i frutti. Dopo l’alluvione, la paura della carestia.
C’è una colonna croata che sale da Slavosnski Brod, la catena della solidarietà è partita alla grande, anche fra ex nemici, sulle stesse strade della pulizia etnica. Serbi, croati, musulmani, cartelli in cirillico, in alfabeto latino, ora nessuno guarda la differenza. E’ saltato tutto, l’emergenza ridicolizza le spartizioni di Dayton. «Dite che mandino aiuti
dall’Italia, ma non al governo che si mangerebbe tutto. Portate direttamente a noi. Cibo, vestiario, materassi, coperte, badili».
Ma italiani non si vedono, gli aiuti governativi sono a quota zero. Dalla Serbia, dove il disastro prosegue oltre la frontiera della Drina, arriva notizia di colonne slovene, ungheresi e anche russe. Mosca è già al lavoro con squadre a Obrenovac, cuore del disastro a Sudovest di Belgrado. Annunciano aiuti gli Emirati. Manca solo l’Europa. La gente non la vede, in Serbia come a Sarajevo. All’Unione, ti fanno capire, i Balcani interessano per i giochi della geopolitica, e chi se ne frega se «stavolta è quasi peggio della guerra», se i fiumi si portano via villaggi e fabbriche, se “le colline si muovono” e sommergono quel poco che due Paesi in ginocchio sono riusciti a ricostruire.
Alcune strade si stanno già riaprendo, ma il rischio è sulle montagne dove i campi minati ancora non bonificati smottano in alcuni punti. Una situazione afgana. Il territorio abraso dall’incuria e dalla guerra è diventato un acceleratore di piene, e così non tanto i grandi fiumi, ma i piccoli “potok” si trasformano in killer, centuplicano la portata in poche ore. A Dobrinja, periferia di Sarajevo, un rigagnolo ha trascinato via un uomo. A Modrica e a Zvornik c’è chi ha visto corpi portati dalla Drina come nei giorni della pulizia etnica, quando le bande trasformarono i ponti in scannatoi.
La gente si è ritirata sui piani alti o sui tetti, e aspetta soccorso. Vecchi, adulti e bambini dormono all’aperto, sulle colline. Per via degli ospedali tagliati fuori molte donne hanno partorito in casa o in ambulatorio. Le facce. Indescrivibili. Molto oltre la rassegnazione.
Ti guardano per dire: che può succederci di peggio? Cosa ancora, dopo gli scannamenti, il silenzio dell’Occidente, il genocidio impunito, la criminalità al governo e una grande alluvione? Eppure non c’è fatalismo. Nessuno aspetta la protezione civile, come da noi. Qui sono vent’anni che non c’è. Quelli che possono, sono a spalare. E sarebbero tanti di più, se li si rifornisse di stivali di gomma. Stivali che, ovviamente, non ci sono.
Capacità di scherzare, anche col fango alle cintola: «Va male, malissimo. Ma intanto facciamoci un cicchetto». Frase già sentita, vent’anni fa, a Sarajevo assediata. Quattro giorni fa, quando la Miljacka si è improvvisamente gonfiata nella capitale, qualcuno aveva sparato l’immagine dell’onda con sopra, in fotoshop, un surfista. “Grazie Tito”, ghigna Emina Bruha Brkovic, alludendo alla diga di Lukavac piena fino all’orlo. Il senso è: meno male che fu Tito a farla costruire. Se l’avessero appaltata quelli di oggi, sarebbe già venuta giù.
La note stonate, come sempre, dalla politica. «Sabac non deve cadere» proclamano i giornali serbi, gonfi di Dio-Patria-Famiglia. E fanno il verso alla Grande Guerra, quando proprio Sabac, sulla Sava, fu nucleo della resistenza contro l’austro-ungarico invasore. «Mobilitazione generale!», volano parole così. Ma funzionano: in diecimila hanno accumulato sacchi di sabbia attorno alla città, e ora il top della piena è passato, scende su Belgrado. E intanto partono appelli al mondo: “È una delle peggiori emergenze climatiche del secolo. Gli sfollati fra Bosnia e Serbia solo almeno settantamila».
La Drina dalle parti di Bijeljina è inavvicinabile: la confluenza con la Sava è diventata un lago dove solo le cicogne sembrano a loro agio. Ci sono già stato un mese fa, sul fiume cantato da Ivo Andric attraverso la storia di un ponte. Le colline a Sud di Loznica, specialmente, mi sono parse un piccolo Eden. Sterminati frutteti, le prugne più buone del mondo, cespugli di more e mirtilli e, ai crocicchi, piccoli chioschi “turchi” profumati di grigliata. Ma soprattutto acqua, un reticolo luccicante di acqua benedetta tra i boschi, villaggi e mille piccoli ponti. Nessuno avrebbe detto, un mese fa, che quei rigagnoli avrebbero mosso le montagne.

La Repubblica 19.05.14

"Contro di lui niente timidezze", da L'Unità

Con Hitler non si può scherzare. Milioni di morti è costato all’umanità. Beppe Grillo invece ci gioca volentieri. Vuole mettere paura, dissacrando valori e principi comuni. Per essere altro da tutti. E, in effetti, fa paura la sua violenza verbale che scatena ovazioni nelle piazze. Non fidandoci dei sondaggi preferiamo attendere la sera del 25 maggio per discutere il peso dei consensi a Grillo. In ogni caso, tanti nostri concittadini voteranno ancora Cinque stelle. Alle europee più che alle amministrative. Il tripolarismo italiano, insomma, si consoliderà proprio nel voto più politico. E non è prevedibile che uno dei tre poli scompaia nel breve periodo: piuttosto la stabilizzazione di una forza di protesta antisistema, refrattaria a qualunque coinvolgimento per migliorare le cose che non vanno, tenderà a modificare il confronto pubblico. Non sta cambiando solo la scena, la novità incide anche sulle offerte politiche alternative. Del resto, il consenso di Grillo è apparentato con quello dei partiti populisti e antieuropei nel resto d’Europa.

Questo impone alla sinistra una riflessione più impegnativa di quanto non sia finora avvenuto. Siamo davanti alla manifestazione più clamorosa della crisi democratica e di sistema: invece, c’è stata una sottovalutazione. Beppe Grillo è la febbre, non certo una medicina. Ma la malattia che provoca questa febbre è grave e il corpo sociale è debilitato da un declino strutturale della nostra economia, da una crescita delle diseguaglianze, da un’erosione delle reti di solidarietà e di comunità. La democrazia, che pensavamo irreversibile e in permanente espansione, si sta rivelando un bene fragile. I poteri democratici fuggono fuori dalle istituzioni, verso le astratte entità dei mercati finanziari e delle tecnostrutture internazionali. E la politica si scopre impotente. Incapace di rispondere a bisogni, desideri, interessi reali della società che chiama al voto. I cittadini sentono che le loro capacità soggettive continuano a crescere nel mondo della comunicazione istantanea e universale, ma la democrazia li delude. Perché è lenta, inefficace. In Italia ancor più lenta e più debole, ma sbaglieremmo a pensare che si tratti solo di un problema nazionale.

È questo misto di onnipotenza soggettiva e di impotenza oggettiva che genera la sfiducia, la delusione, la rabbia. Talvolta la disperazione, quando si aggiunge il carico del bisogno materiale, del lavoro che non c’è, della famiglia che non arriva alla fine del mese. Da questo impasto nasce il movimento che fa a meno della democrazia, che ne disprezza le forme, che taglia le radici su cui è stata fondata. Diciamo la verità: finora si è risposto a Grillo sfidandolo un po’ sul terreno delle istituzioni, un po’ su quello della comunicazione. Tutte cose giuste, sia chiaro. Visto che i grillini sono presenti in Parlamento, è bene chiamarli a una qualche responsabilità. La democrazia è un processo e non di rado ha battuto ideologie ostili affermando il proprio metodo: è dunque salutare che Grillo paghi ogni tanto il prezzo del dissenso e della rottura con quanti tra i suoi si ribellano alla linea sfascista del «tanto peggio tanto meglio».
Ma non è una strategia sufficiente. Per fortuna che Matteo Renzi ha oggi una popolarità e una forza personale che gli consentono di stare sul ring, di combattere con Grillo a viso aperto, di contrastare la sua furia distruttiva, di difendere l’Italia mentre parla dei cambiamenti necessari all’interno e in Europa. Tuttavia, non basterà Renzi se tutto verrà affidato a uno scontro personale tra leader. Sbaglia l’analisi chi pensa che il consenso di Grillo dipenda da circostanze accidentali. Che, insomma, lo si possa battere sul suo terreno. Magari, utilizzando le sue parole d’ordine per piegarle altrimenti. Questa è una strada sbagliata. Sulla quale si rischia di sprecare l’occasione che Renzi offre oggi alla sinistra.

È tempo invece di una battaglia politica e culturale a tutto campo. Una battaglia in cui la sinistra rimetta in discussione se stessa, abbandonando presunzioni e pigrizie. La partita non si chiuderà certo il 25 maggio. Qualunque sia il risultato. Bisogna dire con chiarezza che le parole violente sono pietre. Grillo non può cavarsela sostenendo che, senza di lui, arriverebbe Alba dorata in Italia perché così facendo le sta, appunto, preparando la strada. Bisogna contrastare senza paura il razzismo implicito di Grillo quando tratta gli immigrati con le categorie di Marine Le Pen. La solidarietà è forza di cambiamento. E poi bisogna dire che l’utopia disegnata da Casaleggio – una società senza partiti, senza corpi intermedi, senza libertà religiosa – è né più né meno che l’incubo orwelliano. Non c’è democrazia senza la mediazione delle istituzioni, senza il pluralismo sociale. Il sistema di cui parla Grillo, quello del 100% di consensi, è autoritario, incompatibile con qualunque Costituzione democratica. È giusto ricordare a noi stessi che il consenso dei Cinque stelle si alimenta anche con la corruzione e le degenerazioni del sistema.

Questo impone un’azione politica decisa. E risultati concreti. Ma non è più l’alibi per diplomazie o opportunismi. La minaccia di Grillo è oggi più forte di quella delle destre. Non è un caso che sta bruciando molti spazi della sinistra. Anche per questo la responsabilità del Pd è grande: è nel Pd, e non in territori angusti fuori dal Pd, che la sinistra giocherà la sua partita decisiva.

L’Unità 18.05.14

"Ma in Italia si «gioca» il secondo tempo del voto 2013", di Lina Palmerini

Più che elezioni europee sembra il secondo tempo delle politiche dello scorso anno. Perfino il confronto sulle percentuali di voto non si è fatto e non si farà con il 2009, ma con il 2013, come se davvero questo voto fosse l’omologo di quello di un anno fa. Eppure i sondaggisti spiegano che non sono dati comparabili perché «quando va a votare almeno un 15% di cittadini in meno, come accade alle europee, è tutta un’altra partita», spiega Roberto Weber di Ixè. È vero che nel 2009 non c’era Grillo e non c’era la versione renziana del Pd (Berlusconi c’era), ma questo voto si gioca su un equivoco pienamente “riuscito”: e cioè che le europee possano cambiare il destino della legislatura e del Governo. È un equivoco su cui ha giocato per primo Beppe Grillo annunciando la «marcia su Roma» più che su Bruxelles, riuscendo così a centrare l’obiettivo di puntare contro Matteo Renzi e non contro le politiche europee. Un gioco a cui il premier non ha potuto sottrarsi perché una legittimazione democratica è quella che gli manca e il 25 maggio sarà il primo “tu per tu” con i cittadini. Ma sarà anche la prima volta che un leader di sinistra rompe dei tabù e si avventura nel campo avverso alla ricerca di voti moderati. Lo dice il politologo Mauro Calise che Renzi «è il primo populista di sinistra» così come Piergiorgio Corbetta dell’Istituto Cattaneo qualifica la campagna elettorale del premier come un misto di «politica e anti-politica». Una miscela che apre varchi perfino in terra di centro-destra usando delle parole chiave come Cgil o Rai, su cui nessun leader di sinistra si era finora esposto. Invece Renzi ci prova e riesce a dire che «chi vota per me non vota per la Cgil» e che alla Tv pubblica «toccherà fare sacrifici come tutti». Due totem usati proprio per richiamare quei voti in uscita dal recinto dell’ex Pdl. Ed è così ambito quel bottino che anche Grillo sembra un Berlusconi “al quadrato” e non solo quando parla di «marcia su Roma», ma anche quando attacca con più decisione quei “target” che erano dell’ex Cavaliere: dalla Merkel a Schulz, da Auschwitz a Lenin fino a sentirsi «oltre Hitler». Simboli tutti novecenteschi per uno che smanetta con i ragazzi del web, ma che sono il segno di come stia sfidando Berlusconi per il suo stesso elettorato. A lui, all’ex premier, non resta che buttarsi sul complotto del 2011 cercando, così, la sua via per una rilegittimazione politica. Dunque combatte da posizioni più arretrate in un inseguimento a cui non era abituato: rincorre Grillo sulla marcia su Roma, rincorre Renzi offrendo – invece che gli 80 euro di bonus fiscale – un aumento delle pensioni minime. Nel 2009 Matteo Renzi combatteva la sua prima sfida vera, quella di sindaco di Firenze. Il Pd aveva da poco perso il suo primo leader, Walter Veltroni e dal 33,4% del 2008 era finito al 26,1%. Era invece in salute il Pdl che 5 anni fa arrivò al 35% e fu perfino un risultato deludente visto che i sondaggi lo davano quasi al 40 per cento. Insomma, almeno un paragone con il 2009 si può fare ed è su quel 15% (circa) di voti in meno per l’ex Cavaliere. Proprio quelli su cui oggi si sfidano Grillo e Renzi.

Il Sole 24 Ore 18.05.14