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"La posta in gioco nella Procura divisa", di Massimo Giannini

C’È una posta in gioco altissima, che non si può e non si deve perdere di vista, in quella che viene volgarmente e strumentalmente liquidata come la “faida” interna alla Procura di Milano. Il pg di Cassazione Ciani farà le sue verifiche. Le due commissioni del Csm interessate al caso stenderanno martedì le relazioni da trasmettere al plenum per il giudizio finale. Ma intanto, dietro lo scambio di accuse tra il sostituto Alfredo Robledo e il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati si nasconde solo incidentalmente un conflitto “gerarchico”, che chiama in causa due diverse visioni su come si assegnano i fascicoli nel più importante ufficio inquirente del Paese dai tempi di Tangentopoli in poi. Un ufficio che ha sciolto il colossale grumo di malaffare costruito intorno al Caf, ha gestito le inchieste più scottanti sulla micidiale macchina corruttiva berlusconiana, e oggi ha riacceso i riflettori sul gigantesco e mai dismesso mazzettificio di quelli che un tempo rubavano “per” il partito, e oggi rubano “al” partito.
UN UFFICIO che è storicamente un avamposto della legalità: capace comunque, con tutti i suoi limiti, di illuminare la “zona grigia” in cui i poteri pubblici e privati si confondono, spartendosi tangenti ed appalti.
Dunque, chi più o meno consapevolmente sfrutta lo scontro tra il procuratore capo e il suo sostituto per gettare i “soliti sospetti” sulla Procura di Milano, rappresentandola agli occhi di un’opinione pubblica già smarrita come un “covo” di vipere e un coacervo di correnti, sta compiendo un’operazione politica molto precisa. Non conta più stabilire chi ha ragione, tra Robledo e Bruti Liberati. Conta solo denunciare la “piaga”, e infiammarla ogni giorno con il fuoco mediatico e politico. Negare che quello ambrosiano, oltre che un “rito”, sia anche un “mito”. Dimostrare che anche quella magistratura, che ha sempre rappresentato un’élite non soltanto giudiziaria, non è affatto diversa dal resto del Paese. Vive delle stesse ambiguità, degli stessi vizi e delle stesse miserie. Altro che autonomia, altro che indipendenza. Se si può insinuare anche solo il dubbio che il capo di quella Procura distribuisca le inchieste secondo l’appartenenza dei suoi sostituti a Magistratura democratica, allora l’operazione è compiuta. Quella Procura non è più credibile. E insieme a quella Procura, si delegittima l’intera giurisdizione. Si giustifica l’urgenza di una “riforma della giustizia” che non favorisca i cittadini, ma che punisca i magistrati.
Questa è la vera posta in gioco. Incrocia scadenze tecniche (il 6/7 luglio si elegge il nuovo Csm dove cresce il peso della corrente di destra di Magistratura Indipendente, e scade il primo mandato di Bruti Liberati) e urgenze politiche (l’agenda riformista di Renzi è tuttora sostenuta da Berlusconi, secondo il “patto del Nazareno” di febbraio). Con quali effetti pratici sulla giurisdizione, nessuno lo ha ancora capito.
L’ATTACCO DI ROBLEDO
Tra i 90 sostituti guidati da Bruti Liberati, Alfredo Robledo è un magistrato moderato, vicino a Magistratura Indipendente. Nella sua audizione al Csm del 13 aprile, contesta “la cultura della gestione delle funzioni del procuratore… nel senso che Minale è
sempre stata una persona che insieme ai precedenti procuratori, cioè sia con Borrelli che con D’Ambrosio, ci ha sempre garantito… Con l’avvento di Bruti questo clima è cambiato, perché è cambiata la concezione…”. Il sostituto cita una riunione del marzo 2012 in cui Bruti “si dichiarava disponibile ad assegnarmi comunque in futuro fascicoli dei reati di corruzione su cui avessi manifestato interesse… Gli dissi che io non ero affatto d’accordo con questa suddivisione e con questa sorta di dispensa quasi feudale: vuoi un processo? Te lo do. Io non ho mai ragionato così in trentasei anni di magistratura… La cosa che mi lasciava stupito era questa sorta di coesistenza, questo mischiarsi incredibile tra funzioni giudiziarie e forza correntizia… Questa impostazione era intollerabile per me…”.
Da questa incompatibilità strutturale, Robledo fa discendere i dissensi di merito. Dal presunto ritardo nell’iscrizione nel registro degli indagati di Roberto Formigoni nel luglio 2011, per l’inchiesta su Daccò e sul San Raffaele, all’analogo scontro sul forzista ex presidente della Provincia di Milano Guido Podestà per le false firme nelle liste alle elezioni del 2010 (Robledo vuole iscriverlo subito nel registro degli indagati, e invece Bruti obietta “no, tu lo iscrivi soltanto quando te lo dico io”). Fino ad arrivare ai dossier più recenti: dall’inchiesta Ruby (che Robledo chiede per sé, contestando l’assegnazione a Ilda Boccassini) a quella sull’Expo (nel quale Robledo si considera escluso dalle indagini, e cerca di reinserirsi con iniziative autonome.
Robledo lamenta metodo e merito, denunciando esclusioni e arbitri da parte del procuratore capo. In questa offensiva, trova sponde all’interno della Procura. Ferdinando Pomarici (già concorrente di Bruti alla guida della Procura, sconfitto 4 anni fa) e
Manlio Minale.
LA DIFESA DI BRUTI LIBERATI
L’arringa di Bruti Liberati è affidata a una prima relazione di 7 cartelle, trasmessa al Csm il 12 maggio. Il procuratore capo smonta punto per punto le contestazioni. A partire da quella sull’Expo. “Sin dalla primavera del 2012 — scrive — è stato attuato, in scrupolosa osservanza delle regole dettate dai vigenti ‘Criteri organizzativi’, il coordinamento” tra Dda (Direzione distrettuale antimafia, guidata dalla Boccassini) e II Dipartimento (quello guidato da Robledo, appunto). Lo stesso Robledo, “a seguito della coassegnazione del sostituto D’Alessio, del suo dipartimento, ha avuto immediata cognizione che il filone di indagine che si prospettava nasceva nell’ambito di un procedimento Dda per reati Dda ed ha avuto piena disponibilità di tutto il fascicolo e costante informazione sullo sviluppo delle indagini… La successiva prospettazione avanzatami dal procuratore aggiunto Robledo di stralcio del filone di indagine relativo ad Expo… non solo avrebbe fatto perdere la unitarietà di visione di questa vicenda specifica, ma avrebbe comportato un sicuro intralcio e ritardo alle indagini…”. E di questo “intralcio e ritardo alle indagini” è prova il famigerato “doppio pedinamento” che, come testimoniato dalla Boccassini nell’audizione al Csm di giovedì, “purtroppo è avvenuto, e a misure cautelari già chieste”.
Ma Bruti Liberati non si ferma qui. Sull’inchiesta Formigoni scrive: Robledo “senza alcuna interlocuzione né con il sottoscritto Procuratore né con il procuratore aggiunto Greco coordinatore del I Dipartimento, né con i sostituti assegnatari del fascicolo, ha preso visione, estratto copia e trasmesso a codesto Csm atti di un procedimento di cui non era assegnatario…”. Con le polemiche sollevate sui ritardi nell’iscrizione di Formigoni tra gli indagati, avrebbe anche offerto argomenti pretestuosi al Celeste, “come risulta dal verbale di udienza 6 maggio 2014”, dove uno dei suoi difensori ha affermato: “Non capisco cosa c’entrano i soldi del san Raffaele, perché tra l’altro da lì nasce il processo, come abbiamo visto, che pare addirittura… non pare, è agli atti, ci sono interrogatori fatti un anno prima in cui Formigoni risultava già accusato e non viene iscritto per un anno intero, altra pagina non encomiabile’…”. Infine Bruti Liberati obietta che la denuncia civile per diffamazione, promossa da Robledo nei confronti dell’ex governatore della Lombardia il 12 gennaio 2011, “non mi era stata segnalata nel luglio 2011, quando egli riteneva di dover iscrivere l’onorevole Formigoni”.
La stessa “omissione” che, come ha scritto Piero Colaprico ieri su questo giornale, rende inammissibile la pretesa di Robledo di gestire l’inchiesta su Ruby. Anche qui pende una causa civile per danni che lo stesso procuratore aggiunto ha promosso contro Berlusconi a Brescia (anche in questo caso, senza informare Bruti Liberati), e che gli avrebbe precluso comunque di indagare sul Cavaliere “al posto” della Boccassini. D’altra parte, se fosse vero che affidando a lei l’inchiesta sul Rubygate Bruti Liberati avrebbe violato le regole, questa sarebbe stata un’arma che i difensori del Cavaliere non avrebbero esitato ad usare. Lo ha confessato lo stesso Niccolò Ghedini, con una battuta ironica, in una telefonata fatta in Procura mercoledì: “Ah, l’avessimo saputo prima! Avremmo chiesto la nullità del processo…”.
Il Procuratore capo chiede ora al Csm “una sollecita definizione della vicenda”. Spera così che la Procura di Milano possa tornare a “svolgere il suo difficile compito in un clima di ‘normalità’ …”. Al suo fianco ci sono le toghe storiche, del peso della stessa Boccassini e di Francesco Greco, oltre ai Forno, i Romanelli, i Nobili.
LA DESTRA IN AZIONE
Nessuno può escludere che Robledo si sia mosso per motivazioni personali. Ma è un fatto che, da quando il caso è esploso, la politica abbia iniziato ad azionare la vecchia, cara macchina del fango. E’ un fatto che, a sostenere nel Csm le accuse di Robledo e a voler tenere aperta la “pratica”, sia la squadra di Magistratura Indipendente guidata da Antonello Racanelli (è stato proprio lui, mercoledì scorso, a sollecitare un’ispezione ministeriale a Milano, iniziativa senza precedenti nella storia del Consiglio). Ed è un fatto che a orientare le mosse delle toghe di Magistratura Indipendente sia Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia. Già due volte leader della stessa Magistratura Indipendente, coinvolto in Calciopoli e nelle intercettazioni sulla P3 e sulla connection Berlusconi-Agcom per bloccare una puntata di “Annozero”, Ferri si finge un “tecnico” senza esserlo. E’ amico fraterno di Denis Verdini. Ha un fratello nel consiglio regionale Pdl in Toscana (Jacopo), e un altro fratello nella security del Milan (Filippo). Su di lui, nel primo CdM dell’era renziana, il 28 febbraio
scorso, si è scatenato un braccio di ferro. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando non lo voleva sottosegretario, il premier lo ha voluto a tutti i costi. La sua prima uscita da sottosegretario era già un programma: «La mia nomina è un segnale importante che la politica lancia alla magistratura:
inizia una stagione nuova… «. Risultato: oggi Ferri ispira la “campagna” anti-Procura.
I giornali della destra si muovono di conseguenza. Si tratta di esaltare “il caos a Milano”, i “veleni tra toghe” (Libero). Si tratta di far rimbalzare “Quelle balle in Procura che il Csm vuole insabbiare” (Il Giornale). Si tratta, infine, di macchiare una Procura che “da anni si arroga una gestione delle inchieste costruita sulla finzione giuridica dell’obbligatorietà dell’azione penale” (Il Foglio). E dunque, ancora una volta, quello che conta è manipolare la realtà, dimostrando che le inchieste fatte e le sentenze già emesse sono un “golpe rosso”, e che quelle appena aperte “non stanno in piedi”. A Milano come a Napoli o a Reggio Calabria.
La Procura di Milano non è l’Eden. Ma in questi anni ha portato fino in fondo le più grandi inchieste italiane, come quelle su Berlusconi e i diritti tv Mediaset (la condanna è già definitiva), sulla ‘ndrangheta (dopo 4 anni i procedimenti sono in Cassazione), sul San Raffaele e Daccò (le condanne per bancarotta sono già definitive), sulla sanità di Formigoni (il Celeste va a giudizio dopo solo tre anni di inchiesta). Una riforma della giustizia è necessaria, purchè acceleri i processi e non freni chi li deve istruire. Per questo la Procura ambrosiana non può diventare il pretesto per un regolamento di conti non tra persone, ma tra istituzioni. Lo ha detto il vicepresidente del Csm: “Mi auguro che si giunga a una conclusione rapidissima”. Michele Vietti si è mosso dopo un colloquio con il presidente della Repubblica Napolitano, che i suoi consiglieri descrivono “molto preoccupato per gli effetti di questa nuova strategia di delegittimazione dell’intera magistratura”. Forse c’è ancora tempo per fermarla. Purchè gli italiani sappiano che di questo si tratta. Cioè, ancora una volta, di una questione cruciale chiamata democrazia.

La Repubblica 18.05.14

"L'integrazione europea risposta al populismo", di Roberto D'Alimonte

Le elezioni europee sono sempre state elezioni un po’ particolari. Queste lo sono ancora di più. La gente le sente come meno importanti di quelle nazionali. Si vota per un parlamento distante di cui si sa poco o niente. La posta in gioco è minore e si va meno a votare. A partire dal 1979 l’affluenza è sempre calata. Alle ultime elezioni del 2009 è stata il 43%, ma con rilevanti variazioni territoriali. Escludendo i paesi con voto obbligatorio (Belgio e Lussemburgo) si va dal massimo di Malta (79%) al minimo della Slovacchia (20%). L’Italia è sempre stata uno dei paesi in cui si è votato di più, il 65,1% nel 2009. Ma il calo, a partire dal 1979, è stato costante anche da noi.
La differenza tra quanto si vota alle politiche e quanto si vota alle europee è un altro dato che coglie bene il relativo disinteresse dei cittadini europei verso la competizione per il Parlamento di Strasburgo. Anche in questo caso gli andamenti sono molto diversi territorialmente. Mettendo a confronto l’affluenza alle europee del 2009 con quella alle ultime politiche nei vari paesi (e sempre escludendo i paesi con voto obbligatorio) si va da una differenza minima di 6 punti in Lettonia a una massima di 39 punti in Svezia e Slovacchia. Tutto sommato – fino ad oggi – la differenza in Italia è stata modesta: 10 punti percentuali. In Germania è stata di 28 punti.
Questo è il quadro storico della partecipazione al voto. Il 25 maggio sarà la stessa cosa? Due le novità che possono fare la differenza. La prima è legata alla norma del Trattato di Lisbona che parla di un presidente della commissione nominato dal parlamento europeo su proposta del consiglio «tenuto conto del risultato delle elezioni europee». Grazie a un’interpretazione estensiva i partiti europei hanno nominato dei propri candidati alla presidenza della commissione. Così, per la prima volta i cittadini voteranno non solo per i propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo ma anche per un candidato alla presidenza dell’esecutivo di Bruxelles. Quasi un’elezione diretta. Peccato che pochi lo sappiano. Resta una novità simbolicamente importante, per quanto controversa. Ma non cambierà molto le cose. Non questa volta almeno.
Non è così per l’altra novità di queste elezioni. Sono le prime dopo la più grave crisi che l’Ue abbia attraversato nella sua storia. Sono le crisi che producono il cambiamento, soprattutto quelle profonde e prolungate. Quella cominciata nel 2010 certamente lo è. Milioni di persone in tutti gli stati membri ne sono state toccate e sono state costrette a fare i conti con i costi e i benefici dell’appartenenza ad una comunità che prima della crisi era ancora una cosa vaga per i più. Oggi l’euro e l’Unione sono diventati in molti paesi il tema centrale della campagna elettorale. Da questo punto di vista queste sono le prime vere elezioni europee. Lo sono perché l’Europa è diventata una linea di divisione tra i partiti, tra quelli che difendono le ragioni dell’euro e dell’Unione e quelli che invece sono scettici o addirittura contrari all’uno e all’altra.
Partiti populisti, euroscettici o eurofobi sono presenti in quasi tutti i paesi europei. Dove più e dove meno. Non c’è da meravigliarsi se avranno successo, soprattutto in alcuni paesi come Gran Bretagna, dove lo UKip di Lafarge è dato addirittura davanti a laburisti e conservatori, Francia e Italia. La rabbia, il disincanto, la paura ne alimentano l’appeal. Giocano a loro favore molti fattori. La crisi economica è uno. Ma c’è anche il fatto che queste sono elezioni in cui, proprio perché la posta in gioco non è il governo nazionale, gli elettori si sentono più liberi di votare in modo diverso, più liberi di punire i partiti maggiori e soprattutto quelli al governo, e di premiare i partiti più radicali e anti-sistema. Anche il meccanismo elettorale proporzionale li favorisce.
Il successo relativo di questi partiti domina il dibattitto, ma non è un grave rischio di per sé. Anzi, la loro presenza servirà a dar vigore al discorso sull’Europa e alla fine a legittimare maggiormente istituzioni e politiche dell’Unione. È finito il tempo del consenso acritico. È giusto che l’Europa non sia più un fatto scontato. I partiti europeisti saranno costretti a chiarire il loro messaggio e a difendere le ragioni dell’integrazione. Il vero rischio è che si faccia una lettura distorta del risultato del 25 maggio. E allora è essenziale che tutti tengano presente che non è affatto vero che l’idea di una Europa unita sia cosa del passato. Su questo i dati dei sondaggi dell’Eurobarometro sono istruttivi. Nonostante cinque anni di crisi profonda e lacerante, nemmeno l’euro ha perso il sostegno della maggioranza dei cittadini europei (fig.2). Questo è vero addirittura in Grecia. Ciò che colpisce di più è la convinzione che per affrontare la crisi e la sfida della globalizzazione non si possa più contare sui vecchi stati nazionali. Convinzione che è maggioritaria e diffusa in maniera omogenea in tutti i paesi Ue (fig. 3-4). Su questo tema praticamente scompaiono le differenze tra paesi. Ed è la stessa convinzione che spiega il sostegno a una maggiore integrazione nei campi della politica di difesa e di sicurezza oltre che della politica estera (fig.6).
Per questo non sorprende che il sentimento di cittadinanza europea sia più diffuso di quanto si creda. Certo, ci sono differenze importanti tra paesi su questa dimensione (fig.5). La crisi pesa. Nei paesi più colpiti, come Italia, Grecia e Cipro è un sentimento minoritario. I cittadini di questi paesi sono allineati, ma per ragioni diverse, agli inglesi nel sentirsi meno europei degli altri. Questo deve far riflettere. Non era così una volta. Ma nel complesso il quadro non è negativo. Non si può dire che sia in crisi l’idea di un destino comune dei popoli europei. È in crisi il messaggio sul come perseguirlo. Con quali politiche e con quali obiettivi. Al messaggio nichilista dei partiti populisti ed euroscettici si deve contrapporre con forza quello dei partiti convinti che l’Europa se non sarà una non sarà niente.

Il Sole 24 Ore 18.05.14

"A scuola di inclusione", di Franco Bomprezzi

C’è un problema nella scuola italiana, evidente a occhio nudo. Il sistema attualmente in vigore dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità sta paurosamente scricchiolando, sotto il peso degli anni, della burocrazia, della contraddittorietà delle norme, della mancanza di risorse, della scarsa convinzione a livello dirigenziale, del rigetto anche psicologico da parte degli stessi genitori di bambini con disabilità che temono più esclusione che inclusione. L’elenco dei campanelli d’allarme potrebbe continuare a lungo. Ma fortunatamente l’Italia è un Paese nel quale operano, spesso sotto traccia, energie intellettuali e morali di alto livello, competenze che ci vengono invidiate all’estero, persino case editrici che in questo periodo così difficile riescono a produrre contenuti utili al confronto culturale, senza che questo avvenga subito e solo in chiave politica. E’ il caso del bel libro di Dario Ianes, “L’evoluzione dell’insegnante di sostegno – verso una didattica inclusiva” edito recentemente da Erickson e già al centro di un vivacissimo dibattito.

La tesi di Dario Ianes (nella foto di questo post), uno dei punti di riferimento culturali nel campo della pedagogia speciale e della didattica speciale, è molto forte. Una specie di rivoluzione rispetto al sistema attuale. L’idea è che gli insegnanti di sostegno da “speciali” diventino “normali” entrando di fatto nella scuola come docenti curricolari, lasciando a una task force di docenti iperspecializzati il compito di presidiare il territorio, di formare, di informare, di risolvere le situazioni più complesse. Non sono assolutamente in grado di valutare tecnicamente la validità o la fattibilità concreta, in tempi brevi, di questa profonda modifica del sistema scolastico. Una prima seria riflessione è stata fatta, ad esempio, da Salvatore Nocera, storico riferimento per la Fish, la Federazione Italiana per il superamento dell’handicap, nel portale Superando.it .

Ma una cosa è certa, c’è un bisogno assoluto di riprendere con vigore lo spirito di una delle più belle riforme mai attuate in Italia. La presenza degli alunni con disabilità nella scuola italiana è un traguardo di incredibile valore per tutti, soprattutto per gli insegnanti e per gli alunni non disabili, a patto naturalmente che funzioni, che non sia soffocata da barriere, vincoli burocratici, formalismi, mancanza di fiducia e di impegno pedagogico e di socializzazione. Altrimenti succede che, mitridaticamente, i genitori per primi cominciano a vacillare, e a cercare alternative, sperando che una scuola “specializzata” faccia qualcosa di meglio rispetto alla scuola pubblica. Si riaffacciano così, in modo soft, le scuole speciali, che non sono previste dal nostro ordinamento, eppure esistono.

E anche quando si rimane nell’ambito della scuola pubblica, dall’infanzia alle superiori, spesso l’insegnante di sostegno è di fatto un parcheggiatore dell’alunno che non si è in condizione di includere nella classe in modo normale, tenendo conto delle sue specifiche esigenze e capacità di apprendimento e di comunicazione. Basti pensare che fanno comunque fatica a integrarsi anche alunni con disabilità semplicemente motoria o sensoriale, che quindi, in teoria, potrebbero benissimo cavarsela da soli, come, per esempio, accadde a me tanti anni fa, quando le leggi neppure esistevano, ma le scale sicuramente sì.

Ecco perché ho provato un momento di grande emozione e di speranza quando mi è stato chiesto, pochi giorni fa, da Roberta Garbo, docente dell’università della Bicocca a Milano, di intervenire all’incontro di presentazione dei corsi di specializzazione per insegnanti di sostegno,che dureranno per un anno intero. Mi sono trovato davanti a un’aula piena di oltre cento docenti, prevalentemente giovani, che hanno ascoltato in silenzio una persona con disabilità come me raccontargli una cosa semplice, ma che spesso si dimentica: andare a scuola è una gioia incommensurabile per un bambino che vive sulla propria pelle una situazione di deficit. E’ il luogo più importante, nel quale si costruisce un progetto di vita, una speranza di normalità, si stabiliscono le prime amicizie, ci si confronta, si soffre come tutti, ma si partecipa e non ci si sente esclusi, come ha scritto, qui sul Corriere, Fulvio Ervas. Presidiare la scuola, oggi, è un dovere morale prima ancora che un dovere civile. Per chi sceglie questo mestiere, difficile e di grande responsabilità, deve sempre esserci un unico pensiero: è la persona al centro della scena. Quel singolo alunno, che ha un nome, una vita, un diritto da condividere con gli altri alunni, che impareranno a conoscerlo, a occuparsene, a inserirlo negli scherzi, nello studio, nelle gite, nel tempo libero. Forse la scuola, ancora una volta, ci salverà

Il Corriere della Sera 18.05.14

"Corruzione, giro di vite torna il falso in bilancio più poteri a Cantone", di Liana Milella

A Cantone veri poteri per Expo, ovviamente con un decreto legge. Senza sovrapposizioni con la magistratura. E svolta sulla riforma della giustizia, a partire dal falso in bilancio, dalla prescrizione, dall’auto- riciclaggio. Parola di Renzi per Cantone e di Orlando per la manovra anti-corruzione. Bisogna solo aspettare che si voti per le europee e poi il premier manterrà la promessa che ha fatto sulla giustizia sin dal suo arrivo a palazzo Chigi, cui si è aggiunta adesso l’emergenza di
Expo a Milano.
PRIM’ANCORA di rivelare quali saranno gli effettivi poteri per il commissario anti- corruzione, merita una finestra l’anticipazione sulla riforma della giustizia.
Raccontano in via Arenula che il Guardasigilli Andrea Orlando abbia deciso di bruciare i tempi. A fargli rompere gli indugi le notizie, sicuramente non buone, che arrivano dal Senato sul ddl anti- corruzione, che nasce come ddl Grasso, ma rischia di diventare tutt’altro, soprattutto perché l’Ncd di Alfano ha già manifestato perplessità sul falso in bilancio. Una riforma — riportare a 5 anni, come in passato, la punibilità massima del delitto azzerato da Berlusconi con la riforma del 2002 — di cui Orlando parla riservatamente sin dal primo giorno della sua nomina come di quella su cui, assieme alla prescrizione, vorrebbe legare il suo nome e la sua storia di ministro della Giustizia. Al punto da non ufficializzarla per evitare le inevitabili guerre di religione che il ripristino di quel reato ha sempre provocato. Ma ora non si può più aspettare, perché il rischio, ha ragionato Orlando, è quello di perdere quest’occasione importantissima. Il primo passo sarà quello di confrontarsi con l’Ncd, che a via Arenula conta sul vice ministro Enrico Costa, per inserire subito il nuovo falso in bilancio nel ddl, in lista di attesa a palazzo Chigi già da alcune settimane, sull’inasprimento delle misure antimafia e sull’auto-riciclaggio. C’è, poi, la riforma della prescrizione, tappa epocale per chi vuole davvero invertire la tendenza sui reati di corruzione. Orlando ha deciso di metterci la faccia, per usare un’espressione cara a Renzi, tant’è che lo ha già annunciato al Csm, nel suo primo incontro ufficiale di mercoledì scorso, ma senza entrare nei dettagli del futuro meccanismo.
Ma il ddl che riforma pezzi strategici della giustizia arriverà in seconda battuta, preceduto dal decreto per consentire a Raffaele Cantone di garantire effettivamente la trasparenza e la correttezza degli appalti di Expo. Il commissario e il premier Renzi si sono parlati e scambiati sms dopo le parole forti pronunciate venerdì a Napoli dall’ex pm («Non vado in gita a Milano, voglio i poteri») soprattutto per sgombrare il campo da fraintendimenti. Cantone non è in polemica con Renzi, tutt’altro, anche se questo farebbe piacere ai maligni, e magari a chi vuole che all’Expo continui un andazzo illegale. Ma i due sono nella stessa barca e la pensano allo stesso modo. Tant’è che sui poteri non ci sono dubbi, né esitazioni, è solo questione di qualche giorno.
Cantone avrà quattro atout. Eccoli, in rapida sintesi: supervisione su tutti gli appalti in corso; presenza del commissario nelle nuove gare; revoca degli appalti per chi è finito sotto inchiesta; trasparenza totale per Expo e Infrastrutture. Personale ad hoc (cioè esponenti delle forze di polizia) per studiare gli appalti. Sanzioni per chi ha già violato le regole.
Come si può vedere, non c’è nulla che riguardi la magistratura, perché Cantone non ha mai chiesto, né tantomeno intende chiedere, di “entrare” nelle inchieste degli ex colleghi. «Con loro ci parlo, non ho bisogno delle loro carte, il ruolo dell’Authority anti-corruzione è diverso » ha detto subito Cantone a Renzi, proprio per sgombrare il campo da pericolose e inopportune sovrapposizioni. Anche perché Cantone conosce fin troppo bene il grado di riservatezza che il materiale di un’inchiesta giudiziaria deve avere. Esso non ammette alcuna discovery, tantomeno per il commissario anti-corruzione, perché tra l’altro sarebbe solo un precedente pericoloso.
I poteri di Cantone, invece, punteranno tutto sulla prevenzione e sulla trasparenza. Senza conflitti o scavalchi né con la magistratura, né con la prefettura di Milano. Anzi, il commissario utilizzerà i gruppi ispettivi che già oggi, proprio in prefettura, lavorano sulle infiltrazioni mafiose e già conoscono gli appalti. In concreto, vediamo i futuri poteri di Cantone. Il principale è il controllo di tutti gli appalti, sia i vecchi già in corso, che i nuovi ancora da affidare. Il decreto di Renzi darà al commissario la possibilità di vedere tutti gli atti e le informazioni sulle stazioni appaltanti. Dati sensibili e diretti, quindi. L’Authority anti-corruzione parteciperà con un suo esponente alle commissioni di gara per le nuove aggiudicazioni, previo controllo sui bandi, che spesso possono contenere anomalie e distorsioni. Va da sé che sia Expo che la società Infrastrutture dovranno essere, d’ora in avanti, un libro aperto per Cantone. Tutto sul web, disponibile, in maniera chiara e comprensibile, anche per il controllo dei cittadini. Molto delicato il capitolo delle revoche degli appalti per le imprese che sono finite nelle indagini della magistratura. Una sorta di Daspo, a cominciare dalle aziende che, in queste ore, sono finite nell’inchiesta della procura di Milano su Expo. Com’è evidente dall’elenco dei nuovi poteri di Cantone, tra questi non c’è nulla che riguarda le inchieste dei magistrati. Quelle continueranno per la loro strada, del tutto autonoma, Cantone farà un altro e, a ben vedere, più invasivo lavoro, perché i pm possono agire solo su una notizia di reato, lui invece andrà a caccia di quelle irregolarità, di quei favoritismi, di quei bandi di gara su misura che sono l’anticamera della corruzione. Un lavoro che, in Italia, si fa adesso per la prima volta e che rappresenta una grande sfida al malaffare.

La Repubblica 18.05.14

"L’Europa e la notte dei musei, al Colosseo i dirigenti fanno le guide", di Alessandro Capponi e Maria Rosaria Spadaccino

Il costo del biglietto è di un euro ma lo spettacolo, il più delle volte, è di grande fascino: anche per questo forse, in Italia, i primi dati in arrivo nella «Notte dei Musei» raccontano di file ordinate, di famiglie con bambini e coppie di turisti, di pensionati sorridenti per l’ingresso pagato con una sola monetina. Tutti ad aspettare il proprio turno, col buio, e il cuore leggero di chi va incontro all’arte. «Pienone e file ovunque», scrive su Twitter il ministro Dario Franceschini. E la gente è così tanta che non mancano le proteste: a Pompei, ad esempio, perché la serata è a numero chiuso (370 persone) e in molti sono costretti a tornare indietro.
A Roma è una notte tiepida, il cielo senza nuvole, e i visitatori del Colosseo sono accolti da Barbara Nazzaro, la direttrice che due mesi fa raccontò l’Anfiteatro Flavio a Barack Obama; stavolta, lo spiega ai tremila fortunati che sono riusciti a prenotare un biglietto. Ma sia chiaro: il Colosseo, sia pure a numero chiuso, è solo uno dei luoghi accessibili dal tramonto a mezzanotte; un appuntamento europeo con quarantasette Paesi aderenti, un’infinità di musei e di persone, da San Pietroburgo a Parigi, da Milano a Roma a Firenze, fino alla Sicilia. «Sarà giorno tutta la notte», recita lo slogan scelto dal ministero dei Beni culturali: gli Uffizi, a Firenze, fin dalle otto della sera vedono lunghe code di persone in attesa lungo tutte e due le ali del loggiato. E lo stesso afflusso si registra a Pompei (e negli altri siti della zona, Ercolano, Oplonti, Stabia e Boscoreale), alla Reggia di Caserta nonostante la pioggia, alla pinacoteca di Brera. A Roma, code a Palazzo Farnese, alle Terme di Diocleziano, alla galleria Nazionale d’arte Moderna. E poi c’è il Colosseo, naturalmente, che nei giorni scorsi è stato teatro di una trattativa estenuante con i ventinove custodi: alla fine, spetta ai funzionari della Soprintendenza (incluse la soprintendente ai beni archeologici di Roma, Mariarosaria Barbera, e al direttore del Colosseo, Rossella Rea) il compito di accogliere i visitatori (pensionati, famiglie, turisti) e di «sorvegliare» — con l’ausilio in piazza dei carabinieri in congedo — che tutto si svolga senza danni. All’interno dell’Anfiteatro c’è un solo percorso possibile, e alla fine i visitatori saranno tremila quando la media quotidiana è di oltre sedicimila: ma, almeno, il «numero chiuso» ha evitato la figuraccia dell’ingresso sbarrato per tutti. Nella capitale ci sono persone in attesa, fin dalle sette della sera, anche per i Mercati Traianei, le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni. E la partecipazione è tale che il Campidoglio prolunga la chiusura del centro alle auto fino alle tre del mattino: in piazza Venezia, sotto l’Altare della patria, alle dieci della sera c’è una lunga fila di persone in attesa di visitare le mostre del Carcere Mamertino.
Il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, alle otto in punto cinguetta su Twitter: «Parte la notte dei musei. Io al Museo Nazionale di Arte Orientale. Raccontate il museo che avete visto». Allega un selfie: ha l’euro per il biglietto in mano ed è davanti all’ingresso. Aveva già detto, il ministro, che l’apertura notturna sarebbe stata «un’iniziativa utile a far conoscere i musei a un pubblico più vasto, non solo ai turisti ma anche a quanti non sono mai entrati nei musei». In effetti, i «visitatori low cost» sembrano essere ovunque: col cuore leggero, e il portafoglio anche.

Il Corriere della Sera 18.05.14

E nella rossa Emilia Renzi riscopre il fascino del «noi», da l'Unità

Tre camicie cambiate in corsa, due bocconi di maccheroni al ragù mangiati in piedi perché rifiutare non è cortese, un’ora di allenamento in palestra dalle sette alle otto di mattina. Il ciclone Matteo Renzi investe l’Emilia Romagna e porta nelle piazze decine di migliaia di persone come neanche Stefano Bonaccini, qui in casa sua, responsabile Enti locali, si aspettava. Qui dove il M5s è andato fortissimo alle ultime politiche conquistando pezzo pezzo la terra rossa d’Italia.

Voleva la piazza il segretario Pd e la piazza si è preso, con buona pace di quanti temevano che stando al governo tempi di piazze piene non fossero. Lontanissimi i tempi delle convention al chiuso, della Leopolda del giovane sindaco che sfidava il ghota del partito. Il primo banco di prova da quando è arrivato a Palazzo Chigi è proprio la campagna elettorale per le europee e le amministrative con un vero unico sfidante,

Beppe Grillo a testa bassa contro Renzi.

Non cambia solo verso al Paese, cambia verso alla sua strategia comunicativa il premier. «Voglio stringere mani e stare in mezzo alla gente, quindi ragazzi mettiamo da parte l’orologio». A Forlì il fiume di gente si gonfia nel parco urbano Franco Agosto, sotto un sole che brucia come fosse luglio. Trema la sicurezza mentre il premier va verso i militanti, entra in mezzo alla folla e stringe mani, bacia, si lascia trascinare e vai con i selfie che non si contano. «Tìn bòta», proprio come si dicevano tra di loro nei giorni del terremoto, gli urlano un gruppo di ragazzi di vent’anni, Lui prova a ripetere ma niente l’accento fiorentino storpia tutto. Allora provano in italiano, «tieni duro». Non mollare, tira dritto. Una, dieci, mille volte. È questo che vuole la gente Pd, andare avanti e non farsi fermare, rimettere insieme i pezzi del partito e del Paese. A Forlì, come a Sassuolo, cena sociale che attira così tanta gente che molti mangiano fuori dai grandi capannoni, se ne aspettavano trecento e sono più di mille. «Il lavoro, Matteo, abbiamo bisogno di lavoro», è la fra- se che torna e ritorna. Quando sale sul palco, qui a Sassuolo, come più tardi a Modena, risponde e dice che no, il Pd non punta al reddito cittadinanza, «noi vogliamo dare lavoro, non elemosina». Quando chiede se qualcuno dei presenti ha votato in passato Fi si alzano quattro mani, sei quando la domanda riguarda il M5s. C’è chi confessa di aver votato prima l’uno poi l’altro e adesso è qui e si spella le mani per il leader dem. E Renzi manda in soffitta anche quel vecchio pudore a chiedere i voti dall’altra parte. Non ne ha mai fatto mistero di puntare a chi ha votato Berlusconi o Grillo, adesso è ancora più diretto se mai ce ne fosse bisogno: «Dovete andare a parlare con loro, dirgli che dopo vent’anni sarà il caso di cambiare».

Chi ha sempre seguito le campagne elettorali del Pd non può registrare questa nuova presenza rispetto al passato: sono loro, ragazzi e ragazze giovanissimi, che arrivano un’ora prima e si mettono ad aspet- tare e popi chiedono il selfie e gli urlano «Siamo con te, vai forte».

Emanuele ha 13 anni, ha chiesto a sua madre di portarlo a sentire Renzi a Sassuolo. A 13 anni andare a un comizio? «Beh, che c’è di strano? Renzi mi piace perché quando parla si fa capire, ha in testa l’innovazione», spiega come fosse normale, scontato. Marco Barbieri di anni ne ha 41, ambulante, racconta che lui grazie a Renzi si è avvicinato alla politica, ora è un militante Pd. Premo- no per una foto signore over 60, forse le stesse che qualche anno fa lo guardavano con sospetto quando parlava di rottamazione. Tempi lontani, perché oggi Renzi dice che dopo San Francesco e Santa Caterina, il terzo santo italiano dovrebbe esse- re San Nonno, quello che regge le sorti economiche delle famiglie in difficoltà. Se Grillo e Berlusconi hanno forgiato a loro immagine e somiglianza i rispettivi partiti-movimenti Renzi cambia registro, punta sull’orgoglio di appartenenza, sul noi contrapposto all’io, chiama alla mobilitazione collettiva, «siamo una comunità», non vince il sindaco, non vince il parlamentare europeo, «vince il Pd». Ha deciso con puntigliosità ogni tappa di questo tour, l’incontro con gli industriali a Sassuolo, cittadina strozzata da una crisi che ha colpito quella che era la punta di eccellenza di questo pezzo di Emilia, le ceramiche. Ascolta e prende nota, come quando incontra a Medollo i sindaci dei comuni terromotati e poi in piazza cita l’Emilia come esempio di dignità, di gente che si spezza la schiena ma non si piange addosso e ricostruisce ciò che la terra impazzita ha distrutto. Lo avvisano che a Modena i grillini lo contesteranno, hanno il banchetto proprio sulla via Emilia. «Bene, facciamo la via Emilia a piedi», insiste. Saluta i militanti di Fi, gli stringe la mano, qualche fischio. Saluta quelli del M5s che gli alzano il dito medio, lui sorride e continua. In piazza una trentina di loro si mescola tra la folla e soffia nei fischietti per tutto il tempo, Renzi dal palco dice «lasciamo a loro i fischi, noi cantiamo l’inno d’Italia». Gli applausi più forti, in ogni piazza, arrivano quando cita gli ottanta euro in busta paga, il taglio ai costi del- la politica, il tetto agli stipendi dei manager. «Sono felice, felice perchè ci siamo ripresi la piazza, questo è il nostro posto», dice ai suoi collaboratori mentre sfreccia verso Reggio Emilia, per il comizio finale, dove la piazza è piena zeppa un’ora prima che arrivi. È la stessa piazza dove è arrivato Grillo qualche giorno fa. Piena zeppa. Matteo Richetti e Stefano Bonaccini si danno il cinque. Il Pd si è ripreso la piazza e la sua gente.

L’Unità 18.09.14

"Ombre deviate sul caso Scajola", da l'Unità

Esiste un apparato specializzato e deviato, formato da agenti della Repubblica italiana, che fornisce notizie, dossier o documenti coperti da segreto? E se sì, che ruolo ha avuto nell’affaire Matacena-Scajola? È quanto si domandano gli inquirenti che ieri hanno messo agli arresti 18 persone. Alcune sono ritenute legate al clan dei Casalesi, coinvolte in un’inchiesta della Dda di Napoli su infiltrazioni della camorra in Toscana. Fra questi due sarebbero poliziotti in servizio alla Presidenza del Consiglio e al- la Camera dei Deputati.

I due agenti della Polizia di Stato sono accusati di avere rivelato informazioni coperte da segreto istruttorio e per questo gli agenti della Squadra Mobile di Caserta hanno notificato gli arresti domiciliari. I due presta- no servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Ufficio tecnico logistico gestionale) e alla Camera dei Deputati (Ispettorato Generale di PS). Si tratta, rispettivamente, di Franco Caputo, napoletano di 56 anni, e di Cosimo Campagna, 57 anni, originario di San Pancrazio Salentino (Brindisi).

Che cosa c’entra tutto questo con il caso Scajola?

Le indagini sulla violazione del segreto istruttorio e sulle attività dei due agenti di Polizia secondo indiscrezioni, potrebbero incrociarsi con la vicenda degli appalti dell’ Expo che vede coinvolto l’ex ministro Scajola. Anche in quel caso, in- fatti, è emersa l’ipotesi dell’esistenza di una talpa che avrebbe fornito in- formazioni riservate all’ex ministro. Secondo i magistrati della Procura di Reggio Calabria, Scajola, arrestato giovedì scorso, era parte di un complesso sistema criminale, «desti- nato inoltre ad acquisire e gestire in- formazioni riservate, fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione collegati anche ad apparati istituzionali e canalizzate a favore degli altri componenti della ramificata organizzazione». E proprio qui si inserisce l’ipotesi investigativa degli inquirenti partenopei che stanno verificando se tra i «soggetti in corso di individuazione», di cui parla la procura calabrese, possano figurare anche i due agenti, da ieri accusati di favoreggiamento e rivelazione di segreto ad alcune persone ritenute legate al clan dei Casalesi. Al momento si tratta di un’ipotesi tutta da verificare ma sulla quale è concentrata l’attenzione degli investigatori. «Allo stato dell’inchiesta non sono emersi riferimenti all’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola e all’ex parlamentare Amedeo Matacena» ha precisato il procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Colangelo lasciando però aperta ogni possibilità.

Gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia sarebbero, dunque, intenzionati ad approfondire le indagini riguardanti la rivelazione di informazioni ricoperte da segreto istruttorio. La volontà dei pm della Dda di Napoli di approfondire questo aspetto, nell’ipotesi che vi possa essere un vero e proprio apparato deviato dello Stato «specializzato» nel fornire notizie coperte da segreto, è legata ad alcune circostanze emerse nelle indagini sul clan dei Casalesi e che riguardano Ciro Manna, un carrozziere del Casertano arrestato ieri e ritenuto in contatto con i capizona della cosca. Manna è colui che poi, materialmente, avrebbe bonificato nella sua officina le auto di presunti affiliati al clan dalle spie installate dalla forze dell’ordine, dopo avere avuto la «soffiata» da Caputo. Il carrozziere, secondo quanto si apprende da fonti investigative, nel dicembre del 2012 avrebbe chiesto a Caputo di metterlo in contatto con personalità politico istituzionali per risolvere dei problemi personali (pendenze con il fisco), sollecitando il poliziotto a metterlo in contatto con un deputato del Pdl.

Nel corso delle perquisizioni gli agenti della Squadra Mobile di Caserta hanno trovato 60mila euro in contanti a casa di Franco Caputo. Sequstrati anche documenti ritenuti utili alle indagini e computer. Trovati an- che numerosi tesserini con il logo del- la Federazione Italiana Gioco Calcio. A lui, secondo gli investigatori, avrebbe fatto riferimento anche un funzionario della Lega Nazionale Dilettanti della Figc Calcio per chiedere informazioni su un calciatore extracomunitario.

Caputo, sempre secondo gli investigatori, avrebbe anche fornito informazioni riservate riguardo il giro di false fideiussioni da 230 milioni di euro su cui ha indagato la Procura di Pescara. Altre notizie coperte da se- greto, il poliziotto le avrebbe fornite a Francesco D’Andrea, fratello di un affiliato alla ‘ndrangheta già condannato per associazione mafiosa e traffico di cocaina.

L’Unità 17.05.14