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"Perchè difendo l'Europa", di Enrico Palandri

La rete stradale romana, che si può ammirare anche su internet nella riproduzione della tabula Penteugeriana, si è sviluppata per ragioni militari. Poi l’abbiamo usata tutti. L’Europa, come l’Euro, è un progetto che ha oggi come propulsore l’attività delle banche e ci viene spesso spiegato attraverso molti dettagli economici poco illuminanti per la maggior parte della popolazione. Gli effetti collaterali del progetto europeo sono però così immensi e positivi, che sembra difficile immaginare possa davvero regredire se non con una guerra, un crollo, come purtroppo è spesso avvenuto tra i popoli del vecchio continente. Per farsene un’idea basta pensare alle guerre jugoslave del 1991-95 che sono costate oltre 100.000 morti. Al contrario, l’Europa è la vera ragione per cui tanti conflitti si sono dissolti, dall’Irlanda del Nord agli anni 70 italiani e tedeschi. La libera circolazione di persone e idee, il perdere senso dei nazionalismi a favore di una sempre più chiara identità europea, che si accompagna a identità locali che riprendono la loro antica fisionomia, ci hanno reso profondamente diversi.

All’inizio del novecento, a Trieste, James Joyce ha inventato uno dei personaggi che presentano meglio il conflitto della prima metà del novecento: Leopold Bloom, il protagonista di Ulysses, è un piccolo borghese, pensa al sesso, un po’ al denaro, a qualche questione spirituale, ama la sua città. La Dublino che attraversa è a volte attraente, altre antisemita, piena di donne che gli piacciono ma anche minacciosamente attraversata da Boylan, che quel pomeriggio andrà a trovare sua moglie e con cui farà l’amore in modo memorabile, mentre al nostro eroe non riesce più, almeno con lei. Dalla minaccia nazionalista e dalla sua sottomissione alla Storia, Bloom tira fuori attraverso la letteratura l’alterità. Come i protagonisti di Svevo, Kafka, Proust, Roth, anche qui al centro del romanzo del primo novecento c’è l’ebreo, l’altro. Anche questa alterità dell’ebraismo la secolarizzazione dell’Europa l’ha quasi portata via. Ci sono episodi di avversione agli ebrei anche oggi contro cui è bene vigilare, ma sono molto meno drammatici che in passato. Siamo tutti molto più «altri», simili a Bloom, a Kafka, a Zeno Cosini.

Il conforto della penombra nazionali- sta riguarda solo fasce culturalmente arretrate della società, la violenza negli stadi, la demagogia politica di personaggi irrilevanti che si appellano a nostalgie per paesi immaginari che in Europa avevano nei loro corredi leggi razziali e pregiudizi di ogni genere, frontiere non solo contro altri Paesi, ma frontiere interne atroci, sociali, sessuali, generazionali.

Nelle loro continue campagne elettorali parlano di ricchezze che si riverserebbero nel Paese attraverso la svalutazione della moneta, rimpiangono un benessere che non si capisce da cosa potrebbe esse- re prodotto. Basta fare un salto in uno dei tanti Paesi che nell’Euro non sono ancora entrati, e che tentano disperatamente di entrarvi, per avere un’idea di quale benessere si tratti. Sono alle nostre porte ed è da lì che si riversa continuamente in Europa popolazione migrante, gente, come si dice in Inghilterra, che vota con i piedi, cioè andando dove si sta meglio.

Ma del denaro e del non denaro è difficile ragionare, la percezione della ricchezza è ovviamente soggettiva. Certamente peggio stavano gli italiani durante la crisi del petrolio negli anni 70, oppure nel primo dopoguerra. Se dalla crisi che dicono sia la peggiore dalla guerra siamo stati tutti impoveriti, forse non è colpa dell’Europa. E poi è giusto che tanti Paesi lontani, come il Brasile, l’India, la Cina, anche attraverso relazioni commerciali con noi, si siano arricchiti. Lula ha tirato fuori dalla povertà 45 milioni di persone. Quella che per noi è stata crisi è stato, a livello planetario, una importante assestamento.

Ma anche l’Europa non fosse un affare, mille volte meglio essere impoveriti che non tremare per i colpi di cannoni, i bombardamenti, il terrorismo, come capita oggi a così tanti popoli sulle altre sponde del Mediterraneo, dalla Siria all’Egitto, da Israele alla Libia. Che a Londra o Berlino o Parigi vadano così tanti giovani italiani non è solo per fuggire, ma per le opportunità che essere europei oggi offre. A me anzi pare che nell’industria come nell’università e la scuola, nella società in generale, gli antieuropei siano avvinghiati a piccoli privilegi e incapaci di vedere la vera prospettiva in cui le trasformazioni di questa parte del mondo hanno avuto luogo.

L’Unità 19.05.14