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"Dal web all’alcol così i ragazzi cadono nella rete delle dipendenze", di Fabio Tonacci

I ricercatori del Cnr lo spiegano con la metafora del “paese dei balocchi”. Prima o poi, nel “luna park” delle dipendenze, la maggior parte degli studenti entra a fare un giro. Internet, i social network, il gioco d’azzardo, gli psicofarmaci presi senza ricetta medica, gli energy drink mescolati all’alcol, sono le nuove giostre. I nuovi brividi, anche. E il 17 per cento dei minorenni — questo il dato più allarmante — porta già addosso i segnali di un comportamento a rischio.
Eccola la nuova mappa delle “addiction” giovanili, così come la disegna il rapporto Espad del 2014, che quest’anno è diventato anche un libro (sarà presentato lunedì prossimo). Nel profluvio di cifre, grafici e sondaggi, che raccontano quello che i ragazzi non dicono ai genitori, se ne intravedono le forme e le luci di questo pericoloso “luna park”. Dove anche ciò che all’apparenza è innocuo, come il web, può diventare una droga se è vero che il 93 per cento degli studenti lo usa per chattare su facebook e twitter e l’82 per cento per scaricare musica, film, videogiochi. Conta il cosa, ma soprattutto il quanto. Dunque quel 13 per cento che dichiara di restare attaccato alla Rete per cinque ore di fila o più ogni giorno può diventare un problema. Così come il 23 per cento che si fa le sue tre ore quotidiane a navigare sui social network: «Sono soprattutto le ragazze a chattare. I nativi digitali, tutti i nati a metà degli anni Novanta e cresciuti in case dotate di accesso a Internet sono esposti a nuovi rischi che ancora poco conosciamo», si legge nel rapporto.
Non mancano le vecchie conoscenze, naturalmente. Fuma sigarette uno studente
su quattro, l’eroina è tornata di moda (l’ha provata l’1,2 per cento), la cocaina è ancora in voga: in 65mila l’hanno utilizzata almeno una volta nel 2013, 19mila sono “frequent users” (10 o più volte all’anno), pari allo 0,8 degli studenti delle superiori (era lo 0,3 per cento nel 2000). L’alcol rimane la sostanza psicoattiva più diffusa tra i giovani. Il 4,8 per cento, cioè 112 mila studenti italiani, sono stati classificati “frequent drinkers”, cioè si sono ubriacati più di venti volte nell’arco dei 2012 mesi: con la birra, prevalentemente, ma anche liquori, vino, shottini di superalcolici.
C’è poi chi abusa di bevande che alcoliche non sono, ma che producono lo stesso effetti eccitanti. In media già a 13 anni si comincia a bere energy drinks. Il 3 per cento consuma ogni giorno una o due lattine: tra questi 72mila studenti, secondo le statistiche, una parte consistente è rappresentata da chi ha sviluppato un rapporto problematico con il cibo. E nella galleria delle nuove figure del “luna park” delle dipendenze, compaiono gli “alchimisti fai da te”, che mescolano senza timore energy drinks, smart drugs, liquori.
Lo studio dei ricercatori dell’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr di Pisa si è basato su 40mila questionari anonimi inviati in 480 istituti superiori, 25 per classe, in tutta la penisola. Un campione sufficientemente rappresentativo dei 2,3 milioni di studenti italiani compresi tra i 15 e i 19 anni, che descrive molto, delle vecchie dipendenze e di quelle di ultima generazione.
L’Italia di recente, ad esempio, è saltata ai primi posti in Europa per diffusione di psicofarmaci senza prescrizione medica, pratica a quanto pare molto conosciuta nelle scuole, visto che quasi 400 mila studenti (il 16 per cento) hanno preso pillole e gocce senza la ricetta. «Quelli che lo fanno più di dieci volte al mese sono diventati un’emergenza». E il gioco d’azzardo? Rispetto al 2008 pare esserci un calo di interesse, per quanto l’anno scorso oltre un milione di ragazzi ha giocato somme di denaro con gratta e vinci, scommesse sportive e superenalotto. Perché il “luna park” non chiude mai.

La Repubblica 16.05.14

Le università contro i valutatori «Affidano tutto agli algoritmi», di Gianna Fregonara

Guerra aperta tra i rettori italiani, il presidente della Conferenza Stefano Paleari in testa, e l’Anvur guidata da Stefano Fantoni, l’Agenzia di valutazione delle università italiane. L’oggetto del contendere è l’avvio della valutazione periodica e di accreditamento dei corsi universitari che dovrebbe cominciare con il prossimo anno accademico. Ma il malessere dei rettori è ben più vasto. «Questa è la goccia che ha superato l’orlo. In quattro anni abbiamo perso il 20 per cento dei finanziamenti, ancora non sappiamo quali sono i fondi disponibili per quest’anno. Il turnover è ancora bloccato, abbiamo fatto uno sforzo gigantesco in questo periodo per sostenere il sistema della valutazione della ricerca (Vqr, conclusosi lo scorso anno), abbiamo accreditato tutti i nuovi corsi di laurea, i dottorati, i dipartimenti. Siamo sommersi dalla burocrazia», spiega Paleari.
E infatti, quando è arrivato il documento che presenta le linee guida della valutazione dei corsi di studio degli atenei, la protesta tra i rettori è esplosa. Inizialmente online e sul sito Roars che spesso raccoglie i malumori degli docenti. Ma nell’ultima giunta della Conferenza dei rettori, una settimana fa, si è deciso di procedere uniti. L’indomani Paleari ha preso carta e penna e ha «istituzionalizzato» lo scontro.
«L’Anvur ci ha presentato un documento di 57 pagine per la valutazione — continua il presidente dei rettori — sintomo dell’approccio tutto norme e cavilli. Diciamo no all’ennesima imposizione, siamo invece disponibili a trovare soluzioni tutti insieme. E vorremmo sapere se il Miur è al corrente dell’iniziativa dell’Anvur. Questa è una valutazione sulla carta quando invece il ministro Giannini dice che il giudizio sui corsi va dato ex post , sul campo».
In 24 ore è arrivata la risposta di Fantoni a nome dell’Anvur. In sintesi: la valutazione l’anno prossimo comincia su base volontaria, tutto come previsto, al massimo saranno visitati dagli ispettori 4 o 5 atenei che ne faranno richiesta, le linee guida non contengono adempimenti per le università ma per i valutatori. Non è vero che si tratta di una valutazione ex ante ma è ex post proprio perché fatta con gli ispettori che controllano l’andamento della didattica di un percorso già iniziato.
Caso chiuso? Macché: non si è trattato di un’incomprensione. Mercoledì è stata depositata un’interrogazione parlamentare firmata anche dalla vicepresidente della commissione università e Ricerca Manuela Ghizzoni (Pd), che chiede al ministro Giannini di «sospendere immediatamente le procedure» e di promuovere «una radicale revisione dell’Anvur». Come la pensa il ministro, già rettore a Perugia, si sa. Nelle comunicazioni alla Camera un mese fa aveva detto di voler riformare «i criteri per l’Anvur, la cui istituzione ha portato a un delicato equilibrio fra potere di indirizzo del Miur e poteri di accreditamento e valutazione dell’Agenzia».
Intanto si moltiplicano le illazioni. All’Anvur sono convinti che ci siano resistenze di una parte delle università a ricevere le visite degli ispettori, vissute come visite fiscali. Tra i rettori invece cresce l’insofferenza per l’Agenzia e per un sistema di valutazione «basato sugli algoritmi e non sulla realtà», che vorrebbero bloccare.

Il Corriere della Sera 16.05.14

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Atenei, la responsabilità è dell’Anvur non dell’Europa, di Stefano Semplici

Università Tor Vergata

SONO PASSATE DUE SETTIMANE DA QUANDO, INSIEME ALL’AMICO GIOVANNI SALMERI, HO DECISO DI TENTARE DI DAR VOCE ALLA SOFFERENZA ormai insopportabile dei tanti colleghi che amano l’università e cercano di fare onestamente il loro lavoro. È per questo che abbiamo detto il nostro «ora basta!» al supplizio burocratico che aggiunge al danno del taglio senza fine delle risorse la beffa della tesi che togliendo soldi e aggiungendo moduli, schede e dichiarazioni si fa crescere la qualità. L’ampiezza del consenso che abbiamo ricevuto dimostra che avevamo ragione. Le parole con le quali il presidente dell’Anvur ha risposto ad una lettera del presidente della Conferenza dei rettori e all’articolo pubblicato da Claudio Sardo su l’Unità non possono che rafforzare il lettore nella convinzione che non ci sono argomenti per difendere il diluvio di adempimenti totalmente inutili dal quale siamo sommersi.
Non è un buon argomento l’affermazione che l’obiettivo da noi perseguito è quello di dipingere il processo di valutazione «come un freno alla buona riuscita delle attività accademiche». Ho sempre sostenuto il contrario e proprio per questo mi oppongo ad una valutazione che si concentra in modo ossessivo sul rispetto di procedure che neppure gli addetti ai lavori sono più in grado di seguire e comprendere anziché sui comporta- menti e sui risultati che tutti sono in grado di vedere e apprezzare. Critichiamo questi meccanismi perversi perché vogliamo più trasparenza, più efficienza e, in ultima analisi, più ragionevolezza, non perché abbiamo paura di essere giudicati. I filosofi di Tor Vergata e i 100 presidenti di corso di studio dell’Università di Padova che hanno dato inizio a questa protesta insieme ferma e civile rappresentano realtà che proprio l’Anvur, attraverso il progetto di valutazione della qualità della ricerca 2004-2010, ha riconosciuto ai vertici delle graduatorie nazionali. Io credo che queste classifiche debbano essere lette con molta cautela e che a che queste procedure abbiano bisogno di importanti correzioni. Nessuno può però alimentare anche solo il sospetto che parliamo mossi da rancore e frustrazione.

Ancora più grave e triste è il tentativo di scaricare sull’Europa la responsabilità di quanto è accaduto. Le Linee guida evocate da Fantoni puntano a favorire «una maggiore coerenza nelle procedure di assicurazione della qualità in tutto lo Spazio europeo dell’istruzione superiore». Si tratta anche in questo caso di un obiettivo importante e che non può che essere condiviso. Per restare al tema della qualità dei docenti, questo testo invita le istituzioni ad «accertare che i docenti siano qualificati e competenti» e i docenti ad «essere disponibili a sottoporsi a valutazioni esterne e ad accettarne le conclusioni».

Chiedo al presidente dell’Anvur di spiegare perché corrisponda ad un inderogabile vincolo europeo il requisito per la qualificazione dei docenti e della ricerca così definito: «Per quanto riguarda la qualificazione della docenza, verranno utilizzati i risultati della Vqr riferiti alle varie aree o dipartimenti generando un fattore correttivo (kr) per cui moltiplicare Did (quantità massi- ma di didattica assistita erogabile a livello di sede) ottenendo così la quantità massima di didattica assistita erogabile corretta in funzione della qualità della ricerca: Did(r) = Did x kr». Avrei preferito qualche indicazione in più sul modo in cui le università saranno tenute a garantire che i loro professori si presentino puntualmente in aula a fare lezione e rispettino il loro orario di ricevimento. L’Europa, in ogni caso, non ha colpe. Per questo è più facile rimediare e abbiamo avanzato proposte concrete per dare un primo segnale forte di svolta. Questa dovrebbe anche essere la volontà di un governo che ribadisce ogni giorno la sua volontà di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per disboscare la selva oscura della burocrazia inutile. Finora non abbiamo visto nulla. È al presidente del Consiglio (che dell’università, ancora, non ha mai parlato) e al ministro Giannini che tocca fare qualcosa. È a loro che lo chiediamo e non lasceremo che nascondano la loro responsabilità sotto qualche lontano tavolo europeo.

L’Unità 16.05.14

"Rilanciare la Rai: non basta un taglio", di Vittorio Emiliani

La polemica innescata sulla Rai e dentro la Rai dalle dichiarazioni di Matteo Renzi, a partire dalla richiesta di portare al governo un obolo sotto forma di 150 milioni di euro, può essere positiva se conduce ad una vera riforma in senso «aziendale». Se porta cioè a fare o a rifare della Rai un’impresa. Pubblica sì e però in grado di funzionare come azienda, eliminando, certo, sprechi e sacche di improduttività e però avendo anche compiti meglio definiti. Gli strumenti sono due. Primo, il contratto di servizio che regola i rapporti fra lo Stato e l’azienda in discussione.

Secondo, un organismo di garanzia che la sciolga dall’abbraccio soffocante del governo e del partito di maggioranza, voluto con ogni forza da Berlusconi nell’intento, in parte riuscito, di «affondare la Rai».

Le sedi regionali sono sovradimensionate e quin- di troppo costose? Non è stata sempre la Rai a voler- le così, è stata la politica di un passato spesso lonta- no. Il centro di Firenze è certamente faraonico, da ogni punto di vista, ma risale ai tempi dei tempi, all’epoca bernabeian-fanfaniana. Certo va ripensato e però non è cosa che si improvvisa. In ogni caso però l’informazione regionale fa parte degli obblighi di servizio pubblico. Una Rai agile e snella ne fareb- be volentieri a meno e però le viene imposta in base al canone. Che però quest’anno non è lievitato, chis- sà perché, neppure di un centesimo e che ormai vie- ne evaso «normalmente» da quasi un terzo degli utenti. Molti di loro pagano tranquillamente un ab- bonamento Sky che costa dieci volte il canone Rai e che però non li salva da una vera e propria fiumana di spot, ma quando devono sborsare poco più di 113 euro per la Rai, sostengono che è «un iniquo balzello tutto italiano».

Fesserie. C’è in tutta Europa e costa molto di più. In Germania e in Austria il doppio e anche oltre, in Svizzera il triplo. Nella stessa Irlanda viaggia sui 150

euro. E in Europa l’evasione è contenuta, mentre da noi è diluviale, soprattutto nelle grandi città, a Napoli non lo paga la metà degli utenti. Nel- la terra dei Casalesi lo evade il 90 %. L’esatto contrario del- la provincia di Ferrara, dove a Copparo o a Goro non lo pa- gano, sì e no, due o tre fami- glie in tutto…

Lo Stato, il governo esiga dalla Rai un piano serio, inci- sivo, pluriennale di ristruttu- razione produttiva, di rientro da sprechi e parassitismi, da

maxi-stipendi per gli «appesi» (dirigenti e direttori silurati e rimasti lì), pretenda un piano di riduzione dagli appalti esterni e il ritorno a produrre in pro- prio al fine di utilizzare in modo pieno i suoi oltre 11mila dipendenti. Ma fornisca all’azienda gli stru- menti – che hanno tutte le altre Tv europee, Bbc in testa – per combattere l’evasione. È impopolare? For- se. Ma non è meglio che dire alla Rai di vendere, oplà, Rai Way, la società delle torri e dei ponti, per «sacrificare» 150 milioni sull’altare della Patria?

Ho fatto parte del Consiglio di amministrazione, presidente Roberto Zaccaria, che nell’aprile 2001 aveva ceduto ai texani di Crown Castle il 49 % di quell’azienda ricavandone ben 724 miliardi di lire netti già depositati alla Chase Manhattan Bank in attesa della «presa d’atto» del ministro delle Tlc. Non si sentì di darla alla vigilia delle elezioni il mini- stro Salvatore Cardinale (Udeur). Vinse Berlusconi e ovviamente Maurizio Gasparri disse di no accusan- doci anzi di aver «svenduto» quel 49% di Rai Way. Ci avrebbe pensato lui a trovare altri migliori acquiren- ti.

Balle solenni. Venderla per questi 150 milioni di euro, vorrebbe dire svenderla. O la Rai è una impre- sa, o la si considera il solito carrozzone da mungere (in tempi di vacche magre pubblicitarie da paura). Non si può ignorare che l’azienda di Viale Mazzini viene – secondo le statistiche elaborate da un solerte ex dirigente Rai, Francesco De Vescovi – da un 2012 in passivo per 244 milioni di euro e da un 2013 con un attivo minimo (5,3 milioni) e con ascolti calanti, soprattutto fra i giovani. Per cui nell’intera giornata essa è scesa dal 48% di ascolti del 1998-99 al 38% di quest’anno e in prima serata dal 49 al 40 %, ma nella fascia fra i 25 e i 54 anni precipita al 29 %, diventan- do così la terza emittente dopo Mediaset (in discesa anch’essa e però al 37%) e le altre tv (34%).

Renzi vuole una Rai autonoma da partiti e gover- ni? Non ha che mettere subito in agenda la tanto auspicata Fondazione stile Bbc, proprietaria di tutte le azioni Rai, garantita da «governors» competenti e al di sopra di ogni sospetto (ci saranno anche in Ita- lia) i quali nominano i vertici aziendali. Se ne discute da anni. Si sa tutto di essa. Il sottosegretario Delrio, da Lucia Annunziata (incredula), ha annunciato la ferma intenzione del governo di affrontare il conflit- to di interessi. Benissimo. Cominci con lo sbaracca- re l’iniqua legge Gasparri tutta favorevole a Media- set. Ma partire dalla coda dei 150 milioni, no, non sembra onestamente credibile. Una azienda è una azienda. E il cavallo di Viale Mazzini può davvero stramazzare stavolta. Altro che 150 milioni, dopo.

L’Unità 16.05.14

"Quel cimitero blu ignorato da tutti", di Tahar Bel Jelloun

Nel 1920 Paul Valéry scrisse un lungo poema metafisico sul tempo e la morte. Lo intitolò Cimitero marino, perché era ossessionato dal mistero del mare, dal fascino dei suoi segreti e dalla ricerca dell’immortalità. Da allora, ogni volta che dei marinai non tornano più, si parla del mare come tomba insondabile e senza appello.
Guardando le foto di quei corpi di immigrati che hanno trovato “asilo” nei fondali marini al largo di Lampedusa, viene in mente quella poesia, prima di immaginare come e perché quelle persone abbiano avuto una fine tanto tragica. Uomini e donne che sono precipitati in una spessa assenza, in una profonda solitudine. Il mare è diventato la loro ultima dimora, il cimitero di tutto quello che hanno sognato, la tomba di tutte le loro speranze. I loro occhi si sono perduti nei flutti, i loro corpi si sono dissolti nelle alghe e nel silenzio, la loro memoria si è svuotata dei ricordi.
CHE cosa dire? Che cosa scrivere? Gli dei sono rimasti calmi. Gli uomini sono indaffarati. Il cielo è indifferente.
Partiti da molto lontano, hanno marciato con l’Europa negli occhi, un’illusione, un errore. Sapevano che altri prima di loro avevano compiuto questo viaggio, e che avevano perso la vita. Ma a che vale una vita senza dignità, senza lavoro, senza luce interiore? Quando non si ha più nulla da perdere, si tenta l’impossibile, e il tuo destino prende la via dell’esilio e cade in pezzi finché l’anima non spira.
Hanno marciato e attraversato Paesi, montagne, mari, per finire, quella notte del 3 ottobre 2013, in una cisterna nera che li ha stritolati, inghiottiti: alcuni sono stati rigettati su e altri sono rimasti nelle profondità marine. I loro corpi stanno lì, come oggetti trovati in un’imbarcazione naufragata. Sono prove a carico per un processo che non avrà mai luogo. Sono ancora vestiti, ma che ne è stato dei sogni che avevano costruito mettendoci musica e colore? Si sono sciolti in questo mare divoratore di vite, spietato e senza scampo. Ah, il Mediterraneo che cantano i poeti! È un mare dove molto sangue è stato versato. È diventato un grande cimitero e continua a esserlo, perché contro la disperazione degli uomini, la morte degli altri non serve a niente. C’è qualcosa in loro che dice: «Io ci riuscirò! ».
E intanto certi politici urlano al lupo, seminano paura e incolpano gli immigrati di tutti i mali. Sono sempre più numerosi quelli che sfruttano le sventure degli immigrati per fare propaganda e vincere elezioni. Il razzismo si è banalizzato. Certi intellettuali sono convinti che l’identità europea sia minacciata dal multiculturalismo, che l’islam sia la peggiore delle religioni, che il “razzismo antibianco” non venga perseguito. L’odio e la paura si alleano contro i nuovi “dannati della terra”. L’Europa che ha ancora bisogno di manodopera straniera non ha battuto ciglio di fronte a quella tragedia, che è stata seguita da altri morti, altri drammi. Ha la memoria corta o pigra, egoista e cinica. È così. I Paesi del Sud, alcuni dei quali mal governati, accetterebbero volentieri investitori che dessero lavoro a quegli uomini che emigrano perché si vergognano di non essere in grado di garantire una vita decorosa ai loro figli.
Delle soluzioni ci sarebbero, ma per arrivarci servirebbe che l’Europa prendesse coscienza del problema e lo affrontasse in modo serio. Visto che i sondaggi ci rivelano tutti i giorni che i partiti di estrema destra potrebbero arrivare in testa alle elezioni europee del 25 maggio, il rischio è che la situazione si aggravi e che ci troveremo a guardare altri aspiranti immigrati affondare in nuovi cimiteri marini. (Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 16.05.14

"Terzo settore, investire sul capitale umano", di Paolo Beni

Sarà la volta buona per dare finalmente al terzo settore quelle riforme che da anni chiedo ottenendo solo promesse? È quanto auspicano migliaia di organizzazioni sociali dopo la presentazione da parte del presidente del Consiglio delle linee guida per una legge delega sul terzo settore. Ma stavolta sembra prevalere l’ottimismo, visto il consenso registrato dal documento, che delinea un ambizioso progetto di revisione complessiva delle norme sugli enti non profit. Una messa a punto resa tanto più opportuna dal peso crescente di un terzo settore che si sta dimostrando attore decisivo per reagire alla crisi economica, sociale, culturale che attraversa il paese. Associazioni, cooperative sociali, gruppi di volontariato sono spesso nelle nostre comunità un argine alla frammentazione sociale, protagonisti della tenuta e dell’innovazione del welfare pubblico, volano di sviluppo e di nuova occupazione, palestra di civismo e presidio di democrazia partecipativa.
Ma è proprio la rilevanza del terzo settore che impone l’esigenza di monitorar- ne l’evoluzione nel contesto dei muta- menti sociali e aggiornare il quadro normativo di riferimento, tanto allo scopo di tutelare l’identità, l’autonomia e la trasparenza delle formazioni sociali, quanto con l’obbiettivo di incentivarne l’azione con idonei strumenti di accreditamento e sostegno. Una legge per il terzo settore non è un provvedimento corporativo a favore di una categoria, ma un investimento nel capitale umano del paese, per valorizzare le sue energie migliori: la libera iniziativa dei cittadini che si associano per contribuire al bene comune.
Serve un riordino del corposo insieme di leggi di settore che oggi norma la pluralità di forme organizzative del terzo settore ma che presenta anche il limi- te di essere stato prodotto in tempi di- versi e per «compartimenti stagno». Da qui la necessità – ferma restando l’articolazione dei diversi soggetti – di aggiornare le leggi di settore alla luce di nuove esigenze o vecchie lacune, armonizzare i singoli provvedimenti e verificarne la coerenza con l’evoluzione delle normative europee. Opportunamente le linee guida prevedono la revisione del Libro I del Codice Civile per dare più flessibilità all’attuale disciplina codicistica, semplificare le procedure di riconoscimento della personalità giuridica, favorire l’autonomia statutaria degli enti e definirne al tempo stesso i criteri per la gestione economica e i requisiti sostanzia- li in relazione alla responsabilità verso terzi.
Fondamentale per la sostenibilità di molte attività non profit è l’intento di rafforzare il sostegno al terzo settore col riordino della fiscalità di vantaggio, l’armonizzazione delle agevolazioni fiscali fra le diverse categorie di enti e il potenziamento del 5 per 1000. Una grande opportunità è il rilancio del servizio civile volontario, destinato a coinvolgere fino a 100.000 giovani. Soprattutto, alla semplificazione del quadro normativo si accompagna la conferma della dimensione democratica e partecipativa e dei valori peculiari del non pro- fit italiano: la sussidiarietà, l’economia sociale, un modello di welfare universalistico e inclusivo.
Senza dubbio un buon inizio, anche grazie alla scelta del governo di coinvolgere nella elaborazione del progetto un gruppo di parlamentari espressione di- retta del mondo del terzo settore. Ora, via alla consultazione (terzosettorelavoltabuona@lavoro.gov.it) di associazioni e cittadini. Fino al 13 giugno, poi si procederà alla stesura definitiva della legge.

Presidente nazionale dell’Arci e deputato Pd

L’Unità 15.05.14

"Basta decreti: più forza al governo parlamentare", di Claudio Sard

La Camera ha appena votato la fiducia sul decreto lavoro e, probabilmente, il governo porrà la fiducia oggi di nuovo la questione di fiducia sul decreto per l’emergenza casa. Il decreto-legge è ormai la modalità ordinaria per legiferare e il voto di fiducia è la procedura standard per superare gli ostacoli parlamentari e assicurare così la conversione entro i 60 giorni previsti dalla Costituzione. La prassi viene da lontano, oggi però siamo davanti a una regola assoluta. Totalitaria. E non si può negare che rappresenti uno stravolgimento dei principia cui si era ispirato il costituente.
A ben guardare, qualcosa è cambiato in questa legislatura: la fiducia viene posta prevalentemente alla Camera (il decreto Poletti è stato finora la sola eccezione), dove la maggioranza è più solida. E qualcosa è cambiato pure dopo la recente sentenza della Consulta, che ha vietato i decreti omnibus, contenenti al loro interno le materie più svariate: il governo Renzi ha risposto al divieto sfornando decreti-legge più corti e sicuramente più omogenei (salvo il decreto sulla finanza locale). Comunque, da quando il nuovo esecutivo è in carica, le Camere non hanno approvato altro che leggi di conversione dei decreti.
I leggeri correttivi, insomma, tendono a perfezionare la procedura, a stabilizzarla. Anche i mostruosi maxi-emendamenti di un tempo sono stati di molto ridimensionati, dopo i ripetuti e molto severi intervenuti del presidente della Repubblica. Mail problema non è stilare la classifica dei governi che, nella stortura, si sono comportati meglio. Il problema è come raddrizzare la stortura. I decreti non possono diventare la sola via legislativa praticabile. Il Parlamento verrebbe ucciso e la qualità delle leggi, come si è visto in questi anni, peggiorerebbe ancor di più. Al tempo stesso, però, non sarebbe una risposta accettabile per il Paese un indebolimento dei poteri di indirizzo del governo. Per ricondurre i decreti ai soli casi eccezionali di necessità e di urgenza, bisogna consentire al governo di percorrere la strada principale della legislazione, quella voluta dalla Costituzione ma oggi ostruita da vari fattori, regolamentari e politici.
Nel progetto di riforma del Senato si introduce il voto a data certa sui disegni di legge che il governo considera più importanti. E’ un buon punto di partenza. Che va sviluppato con una riforma dei regolamenti parlamentari, soprattutto della Camera. La presidente Laura Boldrini ha già messo al lavoro la giunta per il regolamento e, a quel che si sa, l’impostazione è promettente. Il governo deve poter disporre di una corsia preferenziale per ottenere il voto finale su alcuni disegni di legge entro 30 giorni dalla presentazione. Non solo. Occorre spostare in commissione il grosso del lavoro sugli emendamenti, selezionando le votazioni in aula e riducendole alle questioni più qualificanti. Non può essere l’ostruzionismo, o comunque il potere di ritardare le decisioni, l’arma più forte a disposizione del Parlamento.
Abbiamo bisogno di una democrazia decidente. E di rafforzare il contenuto democratico delle decisioni. Non è vero che da noi il governo non ha poteri. Dobbiamo evitare che questo potere si fondi su torsioni del sistema. Perché si può rafforzare il governo, rafforzando al tempo stesso il Parlamento. Ad esempio, se in un bimestre il governo porta in votazione tre sue leggi con procedura accelerata, si può riconoscere alle opposizioni il diritto di sottoporre al voto almeno una loro proposta. Con analoghe garanzie e procedure. E così le leggi di iniziativa popolare, finora le grandi dimenticate nel nostro sistema, devono essere portare al giudizio dell’assemblea entro un termine stabilito. Per rafforzare il Parlamento bisogna soprattutto far funzionare i contrappesi (e ovviamente il primo dei contrappesi è recuperare il legame degli eletti con il territorio e i cittadini: basta liste bloccate!).
Ce la faremo a costruire una democrazia più matura e decidente? Le riforme non sono il vezzo di qualcuno. Sono ciò che manca da tempo. Anche perché in assenza di riforme pensate, abbiamo avuto strappi e mutamenti di fatto. Il punto è se vogliamo ricostruire un sistema parlamentare razionalizzato, aggiornando i principi dei costituenti, oppure se vogliamo fuggire altrove, inseguendo populismi e demagogie. In Europa i sistemi flessibili sono quelli che stanno dando le prove migliori. Speriamo di restare su questa strada. Ma ce n’è un’altra: quella del presidenzialismo e di una maggiore rigidità del sistema. L’illusione è che l’uomo forte basti a rendere più forti le istituzioni. E’ un’illusione che può aprire la porta alle avventure.
Comunque, per difendere i valori della nostra Costituzione bisogna avere il coraggio di cambiare. Nella paralisi attuale Berlusconi può aumentare i suoi ricatti e Grillo può continuare a giocare allo sfascio, facendo leva sull’ostruzionismo ad oltranza. Un governo più forte in un Parlamento più forte, comunque, sarà possibile solo se i partiti e i gruppi parlamentari torneranno ad essere sintesi di politica e di interessi sociali: proprio la loro crisi è una delle cause del deterioramento istituzionale. Non ci sarà mai un Parlamento più forte, qualunque regolamento si adotti, se i deputati saranno ridotti alla corte di un capo e se si continuerà ad ascoltare la sirena della democrazia senza partiti.

L’Unità 15.05.14

"La vera storia di un fallimento", di Paolo Soldini

«Pressioni e coartazioni» per cacciare Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi? Ma di che cosa stiamo parlando? Giorgio Napolitano, tirato in ballo per l’ennesima volta, per l’ennesima volta è stato costretto a rimettere i fatti sui piedi: le dimissioni dell’ex cavaliere nel novembre del 2011 furono rassegnate «liberamente e responsabilmente». Tant’è che Berlusconi stesso con il presidente fece cenno a null’altro che ai suoi guai domestici.

Basterà per porre fine alla nuova sceneggiatura della teoria del «complotto»? Dovrebbe bastare, se si rimanesse ai fatti. Che sono semplici: un ex Segretario al Tesoro americano ha scritto che «funzionari europei» nell’autunno del 2011 chiesero all’amministrazione Obama di fare pressioni perché Berlusconi se ne andasse; i presidenti della Commissione e del Consiglio Ue ribattono che no, semmai fu il contrario: furono gli americani a chiedere agli europei di darsi da fare per l’allontanamento del reprobo facendone una condizione per l’assenso di Washington a un prestito di 80 miliardi all’Italia da parte del Fmi. Prestito che poi, com’è noto, non ci fu perché il governo italiano non lo chiese. Che abbia ragione Tim Geithner oppure dicano il vero José Manuel Barroso e Herman Van Rompuy non cambia in alcun modo la sostanza di quel che accadde davvero in quell’autunno: che il

governo guidato da Silvio Berlusconi con Giulio Tremonti ministro fosse giudicato tanto a Bruxelles che a Washington una jattura da superare il più presto possibile era ampiamente risaputo e che il modo perché l’auspicato superamento avvenisse, e al più presto, fosse oggetto dei contatti tra i leader dei governi tra loro e con le istituzioni dell’Unione ne era la logica e naturalissima conseguenza. Lo scandalo che ne menano in queste ore l’ex cavaliere e i suoi amici gridando per l’ennesima volta al complotto altro non è che il frutto di una grave incomprensione sulla natura dell’Unione europea. L’equivoco consiste nel fatto di porre la questione in termini di sovranità violata. Berlusconi e i suoi sostengono che americani ed europei, con la complicità – va da sé – di Napolitano, avrebbero fatto violenza alla volontà del popolo italiano che quel governo se l’era scelto e votato. Si soprassiede sul fatto che le cancellerie e le istituzioni di Bruxelles in quel momento ritenevano che Berlusconi e Tremonti con le scelte che facevano e quelle che non facevano stessero mettendo in pericolo non solo l’Italia ma tutta l’Unione. Allora era dato per scontato il fatto che se l’Italia fosse

arrivata al default, come era nell’ordine delle cose senza una svolta radicale, tutto il sistema europeo sarebbe saltato e le conseguenze sarebbero state gravissime per tutti: la dissoluzione non solo dell’euro, ma forse anche dell’Unione stessa. Il cambio di governo a Roma era considerato ineludibile se si voleva scongiurare il disastro: favorirlo non era un’ingerenza, ma una forma di autodifesa. La questione investe il fondamento stesso dell’Unione europea, che intanto esiste in quanto si basa sulla cessione di quote di sovranità da parte degli stati che ne fanno parte. Può sembrare un richiamo ovvio, ma nei momenti di tensione e di difficoltà l’ovvietà tende a non essere più tale. Basta guardare agli slogan che dominano larga parte della campagna elettorale di questi giorni, non solo (ma soprattutto) in Italia per rendersene abbondantemente conto: un coro di «riprendiamoci la nostra sovranità» che va da Marine Le Pen ai nemici dell’euro tedeschi e scandinavi e, nel loro piccolo, da Giorgia Meloni a Grillo passando per Salvini, senza che nessuno spieghi mai che cosa se ne debba poi fare di questa sovranità riconquistata. C’è una evidente rinazionalizzazione della politica europea, in Europa e sull’Europa, che tende inevitabilmente a riaccendere, con nuovi egoismi, vecchi nazionalismi.
Chi vuole evitare che ciò avvenga sempre più deve dedicarsi a chiarire il Grande Equivoco: non è la cessione di sovranità il torto che viene consumato ai danni dei cittadini degli stati europei ma è, piuttosto, la mancanza di democrazia nell’apparato istituzionale dell’Unione, la sua incompiutezza democratica. L’iniquità delle trojke e di tutti gli altri strumenti di commissariamento delle economie degli stati in nome della disciplina di bilancio non sta nell’essere imposta dall’esterno, dall’alto e da lontano, ma nell’essere imposta da organismi e istituzioni che non sono stati votati e che non rispondono ad alcun parlamento. La cosa più grave che avvenne al vertice del G20 a Cannes nel novembre del 2011 non fu la messa in mora del «legittimo governo italiano», condita con gli offensivi sorrisetti di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, ma l’odiosa imposizione a George Papandreu di annullare il referendum con cui i cittadini greci sarebbero stati chiamati a votare sui provvedimenti della trojka. La sinistra europea sbagliò allora a non ribellarsi a quella prepotenza e lo fece perché tardava, e tarda ancora in una certa sua deleteria attitudine a uniformarsi al pensiero unico economico della destra, a comprendere il nesso strettissimo che esiste tra il monetarismo e il neoliberismo che hanno ispirato tutta la strategia europea contro la crisi del debito e dell’euro e il modo autoritario, antidemocratico, con cui quelle scelte sono state imposte: «affare» di Bruxelles, della Banca centrale europea, del Fmi e delle cancellerie che contano. E partiti, sindacati e cittadini non ci mettano bocca. Il voto ormai vicino per il Parlamento europeo può essere un’occasione per riaprire, dentro le istituzioni dell’Unione, il capitolo della democrazia che manca. Il fatto che i cittadini siano invitati a votare, con il partito, il candidato alla presidenza della Commissione Ue, la cui scelta che fino all’attuale Barroso è stata gelosissima prerogativa dei governi, è un passo avanti. Ma se non sarà accompagnato, non solo ma soprattutto a sinistra, da una presa di coscienza sull’urgenza di superare il deficit di democrazia dell’Unione potrebbe servire a poco.

L’Unità 15.05.14