attualità, cultura

"Da Sandokan alla Carogna i soprannomi come bandiera", di Roberto Saviano

Se Genny’a carogna fosse stato soltanto Gennaro De Tommaso, quanti titoli avrebbero fatto i giornali su di lui? Privo del suo truce soprannome avrebbe suscitato lo stesso clamore? Certo, i giornali avrebbero scritto quel tanto che bastava a riportare la notizia. Si sarebbero senza dubbio descritte nel dettaglio la sua funzione e le sue parentele, ma è quell’epiteto portato come una bandiera ad aver moltiplicato la sua sinistra fama.
I soprannomi accorciano le distanze: raccogliendo una biografia in una parola, in un attimo fanno sembrare vicine persone mai conosciute. Si nasce con il proprio nome e cognome dal ventre materno. All’anagrafe sei iscritto con il nome scelto dalla famiglia e che determina il santo che ti proteggerà.
Ma in società nasci davvero quando un soprannome ti battezza. È un’usanza antica ancora fondamentale in paesi e quartieri dove i nipoti prendono il nome dei nonni. Quando tutti hanno gli stessi nomi e cognomi, solo i soprannomi rendono unici. La modernità non ha affatto distrutto questa abitudine, anzi, i soprannomi hanno anticipato i nickname usati sul web, con la differenza che il nick te lo scegli e può garantirti l’anonimato. Un soprannome invece lo subisci e ti assicura il massimo dell’identificazione. Se non ti piace raramente riesci a modificarlo.
Senza, nel mondo criminale non esisti. Ed è incredibile come si accettino i soprannomi più ridicoli, feroci e offensivi. Un soprannome è in qualche modo un destino. Dai grandi capi di camorra ai piccoli gregari, tutti hanno soprannomi, o meglio, tutti hanno “contro-nomi”. Possono nascere nel modo più casuale, come accadde al piccolo boss Antonio Di Vicino che una volta chiese al bar una “lemon”. Una che? Una lemon. E da allora divenne Antonio ’ o lemon. Luigi Guida, invece di chiedere un Fernet Branca, un giorno chiese “un drink”, e fu per sempre Giggino ’ o drink . Altri soprannomi arrivano per abitudini singolari: prima delle esecuzioni Antonio Di Biasi non consumava un pasto completo, per evitare il rischio di setticemia in caso fosse stato colpito all’addome a stomaco pieno. Ma siccome poi il nervosismo gli faceva venire crampi allo stomaco, portava con sé biscotti per bambini, e per questo era detto Pavesino. Ogni ragione di soprannome è leggenda e racconto, è storiografia e casellario giudiziario. Un dettaglio è sufficiente e se suona bene e passa la selezione naturale dei soprannomi, si attacca per sempre a chi lo porta.
Raffaele Cutolo era fiero di essere chiamato ’ o prufessore perché quell’immagine combaciava esattamente con la narrazione che gli piaceva si facesse di lui. Carmine Alfieri, suo rivale, era meno soddisfatto del suo soprannome. ’ O ‘ ntufat’, ovvero l’arrabbiato, descriveva una rabbia covata vicina alla frustrazione. Antonio Bardellino — uno degli uomini più potenti d’Italia negli anni ‘70 e ‘80, fondatore del clan dei casalesi, trasferitosi in Sud America dove fu ucciso nel 1988, anche se il suo corpo non è stato mai trovato prova, per alcuni, che è ancora vivo — riuscì a cancellare per sempre
il suo soprannome. Era detto pucchiacchiello ,
termine intraducibile in italiano: pucchiacca in napoletano è la vagina. Soprannome datogli perché da piccolo immergeva nella brillantina il pettine con cui si leccava i capelli e questo lo rendeva sempre umido ed elegante. Diventato capo, nessuno ha mai più osato usare quel nome che ha lasciato il posto al classico Don Antonio. Anche Vincenzo Di Maio, affiliato al clan Misso, ha un soprannome che non ama: Enzuccio ‘ a fighetta, perché sempre attento all’eleganza, troppo, come — nella logica criminale — solo una donna dovrebbe fare. Provò a mutare il soprannome in Enzuccio ‘ a camorr’ , ma non funzionò.
Paolo Di Lauro, capo del clan Di Lauro attivo a Secondigliano e Scampia, ora in carcere, è conosciuto come Ciruzzo ‘ o milionario . Fu ribattezzato così dal boss Luigi Giuliano che lo vide una sera presentarsi al tavolo da poker mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da 100mila lire. Giuliano esclamò: «E chi è venuto, Ciruzzo ‘ o milionario ? ». La battuta di una sera crea un soprannome nato per sopravvivere al soprannominato.
L’indole è un altro elemento da cui derivano i soprannomi: il nervosismo, i comportamenti psicotici. Gennaro Di Chiara era detto fil’scupierto, filo scoperto, perché scattava violentemente ogni qual volta gli si toccasse il viso come fosse un cavo elettrico. Il soprannome ’ o pazz è molto comune e tende a descrivere una personalità volitiva, caparbia, che non ragiona con calma. Come Vincenzo Mazzarella ’ o pazz, boss di San Giovanni a Teduccio, o come Michele Senese ’ o pazz, boss romano, pilastro della camorra nella capitale e chiamato così in gioventù per la sua violenza militare. Poi c’è Giuseppe Gallo ’ o pazz, perché grazie alle perizie psichiatriche riusciva a evitare il carcere. Ma ‘ o pazz più celebre è Michele Zaza, capo vero, boss di camorra negli anni ‘80, vertice del contrabbando di sigarette. Si trasferì negli Stati Uniti e andò a vivere in una delle più eleganti ville di Beverly Hills. Era detto Michel ‘ o pazz perché andava contro ogni prudenza. Ma ci sono anche altri soprannomi che descrivono squilibri psichiatrici. Nando Emolo ’ o schizzat, Nunzio Di Lauro ‘ o nevrastenic, per il cambio continuo di umore.
Infiniti i soprannomi che nascono dal corpo (da Ciro Mazzarella ‘ o scellone, da “scelle”, cioè ali, per via delle scapole visibili a Nicola Pianese ‘ o mussuto, ovvero baccalà, per la sua pelle bianchissima). Quelli che fanno paragoni con gli animali (da Nunzio De Falco, detto ‘ o lupo per il suo aspetto selvatico e il viso triangolare a Salvatore Lo Russo ’ o capitone forse chiamato così perché in grado, come il viscido animale, di sottrarsi a ogni situazione difficile).
I più bizzarri, quasi futuristi, sono i soprannomi intraducibili, che richiamano espressioni onomatopeiche. Agostino Tardi detto picc pocc. Domenico di Ronza detto scipp scipp perché aveva iniziato la sua carriera con gli scippi. La famiglia Aversano detta zig zag. Raffaele Giuliano ’ o zuì.
Antonio Bifone zuzù. Angelo Merola detto gomma gomma . Gianni Melluso, uno dei criminali più ambigui e corrotti, che inventò le accuse contro Enzo Tortora, era detto cha cha cha per la sua passione per le feste. Giuseppe Mignano, invece, che aveva come intercalare l’espressione scè, ossia scemo — Si tutt’ scè oppure Ja scè o Finiscila scè — è diventato Peppe scé scé.
I capiclan, naturalmente, amano effigiarsi di nomi che amplificano il loro potere: Pietro Licciardi detto l’imperatore romano; Mario Schiavone Menelik come il famoso imperatore etiope che si oppose alle truppe italiane; Francesco Verde ’ o negus come l’imperatore di Etiopia, per la sua ieraticità; Raffaele Barbato di Mondragone detto Rockefeller per la mole di liquidità che possiede. Michele Fontana detto ’ o sceriff per il suo atteggiamento guascone e il suo cappello a falde larghe; Vincenzo Carobene detto Gheddafi. Antonio Ranieri, invece, è Polifemo perché durante una rapina gli fu chiesto: “ Se tien’‘ e pall’dimmi il tuo nome ” e lui, credendo di imitare Ulisse, invece di rispondere “Nessuno”, si sbagliò e disse: “Polifemo”. Se poi il contro-nome canta anche la potenza sessuale del capo è ancora meglio: il boss di Portici Luigi Vollaro, era detto ’ o califfo perché ha avuto varie mogli e decine di amanti con cui pare abbia ha generato ventisette figli. Il soprannome è dovuto soprattutto al fatto che queste vivessero nello stesso stabile. Nelle sue ville a San Sebastiano, quando gli è stata sequestrata la proprietà, vivevano sedici donne (non tutte sue amanti o ex amanti, ma anche parenti e figlie). Durante un’intervista Vollaro disse: “Ho lavorato sodo. E nella mia vita ci sono poche soddisfazioni. Tra queste le donne, per l’appunto. Loro mi piacciono. E io, modestamente, piaccio tantissimo a loro. Hanno la passione per me”. Luigi Giuliano detto anche Lovigino, perché amava da giovane accompagnarsi con amanti americane: a Forcella bastò sentire una di loro pronunciare “ I love Luigino” perché fosse ribattezzato Lovigino.
Il soprannome del capo ultras, Genny ‘ a carogna, non è quindi né un caso né un’eccezione bizzarra. I soprannomi esistono ovunque e l’Italia ne conserva in ogni regione l’uso. Ma per gli affiliati è una cifra essenziale. Dietro nomi ridicoli e feroci ci sono poteri e capacità tutt’altro che risibili e abilità comunicative che sfruttano l’estro e la fantasia popolare. Dietro questi nomi ci sono imperi e guerre: decifrarli è una strada maestra per conoscere la realtà del nostro paese. Il soprannome esprime in un mondo complesso la propria unica e irredimibile singolarità: tutti possono chiamarsi Francesco Schiavone, ma uno solo può chiamarsi Sandokan.

La Repubblica 13.05.14