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"Le zone franche dove lo Stato non comanda", di Gianni Riotta

Provate ad immaginare lo Yankee Stadium di New York circondato da sparatorie, con pistolettate e feriti lungo le Avenues. Considerate lo stadio Stamford Bridge di Londra, casa del Chelsea, ostaggio di un avanzo di galera, imparentato con la mafia, detto Genny The Scum, che discute con i garbati bobbies, i poliziotti, e il capitano dei Blues da pari a pari. Completate il viaggio nell’Impossibile con l’Allianz Arena di Monaco, l’elegante struttura disegnata dagli architetti Herzog&deMeuron, assordata dall’esplodere di bombe carta ed ordigni così potenti da far piangere, terrorizzata, la bambina della Cancelliera tedesca: fuori la capitale bavarese preda della guerriglia urbana.

Spiace ammettere subito che nessuna delle situazioni descritte è lontanamente possibile nella realtà, in America, Gran Bretagna, Germania. Paesi che hanno profondi problemi sociali, ma in cui lo sport non può finire in mano a racket violenti perché mai lo Stato cederebbe all’anarchia spazi pubblici. Capire come invece noi italiani ci siamo ridotti così è stilare una diagnosi che ci porta subito lontani dal calcio-sport, 4-4-2, falso 9 centravanti, ripartenze di fascia, gioco che milioni di tifosi perbene adorano, «la cosa più importante tra le non importanti» nella definizione del mister Arrigo Sacchi. La Repubblica italiana ha progressivamente ceduto il controllo di territori nazionali, il potere, a minoranze faziose, organizzate, estremisti politici, ultras del calcio, criminalità organizzata, devianze e soggetti eversivi. Citare insieme questi usurpatori del diritto di controllo sociale non significa pensare che No Tav violenti, Commandos della Serie A, Clan camorristi, gang di quartieri, siano la stessa cosa, abbiamo gli stessi obiettivi o siano pericolosi alla pari, come i soliti faziosi insinuano online.

Malgrado i rapporti di Polizia, Carabinieri, gli studi di sociologia e le cronache dei reporter testimonino di larghe aree di convivenza tra i settori illegali – e il signor Gennaro De Tommaso, corpulento ultras detto Genny a’ carogna, figlio di un camorrista, condannato e bandito dagli stadi ne è prova vivente – le violenze pubbliche hanno motivi, strategie e radici diverse.

Quel che le unisce però, ed è il veleno che la Repubblica dovrebbe combattere, temere e neutralizzare, è il monopolio della violenza nei territori che presidiano, siano quartieri, valli, impianti sportivi, porti, traffici, commerci. Il cardine di una democrazia è la delega dell’uso della forza alla comunità e «the rule of law», la legge, in vigore sull’intero Paese, senza nessuna franchigia, zona franca, dove il diritto non si possa applicare, come capitava nei periodi bui del Medio Evo, nella Cina dei Signori della Guerra, nel Far West americano.

Davanti alle autorità, dal presidente del Consiglio tifoso della Fiorentina, alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Grasso che festeggiava nel cuore la promozione del suo Palermo, i violenti, dentro e fuori lo stadio Olimpico, fischiando l’inno nazionale, fermando la partita, bloccando la Capitale, hanno provato che la Repubblica non è più, ovunque, sovrana. Questo è un pericolo così drammatico, vera emergenza nazionale, che ci si aspetterebbe dalla politica, e dalle istituzioni, uno scatto unito, per una volta, per dire «Basta!». Le forze dell’ordine hanno da tempo proposte, in parte di repressione in parte di bonifica sociale, per contrastare la rivolta ultras.

Bene ha fatto il premier Renzi a chiamare la signora Raciti, vedova di un funzionario dello Stato ucciso mentre faceva il suo dovere da un ultras, a Catania, che sconta pochi anni di pena mentre i suoi sodali lo elogiano dalle telecamere. Ma i leader politici per troppo tempo hanno offerto totali, o parziali, giustificazioni ai violenti, e oggi non hanno credibilità. Sentire online chi parla del doloroso caso del giovane Aldrovandi, per coprire i violenti, è sintomo di una comunità dispersa. Se la violenza è commessa da studenti autonomi, contadini anti Europa, tifosi arrabbiati, estremisti anti sindacato, abusivi di ogni risma, c’è sempre in parlamento un drappello di deputati pronti a dire «ben altri sono i problemi, la violenza va compresa».

No, va repressa. E poi vanno recise le eventuali ragioni di ingiustizia che l’hanno prodotta. Ma provare a blandire la piazza per una manciata di voti è grave. Spiace dunque che ieri, nel condannare il caso Olimpico con toni per una volta misurati, il leader del movimento di opposizione più forte, Beppe Grillo fondatore del M5S, non abbia saputo resistere all’insulto elettorale contro Renzi. Piccolezze che indeboliscono la reazione alla violenza e indeboliscono lo Stato. Grillo ha ormai un potere grande nella Repubblica: deve gestirlo con responsabilità, o finirà travolto come capita sempre agli Apprendisti Stregoni.

Chi ha vissuto gli Anni di piombo seguiti al 1969 sa che la violenza, una volta accesa la miccia, brucia senza quartiere. La crisi economica da cui l’Italia non sa uscire lascia milioni di giovani disoccupati a vita, senza speranze, valori, indicazioni. Nelle periferie, soprattutto al Sud, arruolarsi nella criminalità è spesso il solo cursus honorum. Qualche intellettuale blatera ancora di «decrescita felice», ma questo è il volto della decrescita, la trasformazione di ragazzi in gamba in plebei pronti ad arruolarsi per una mancia, generazione sfortunata relegata al ruolo di Lazzari senza arte e destino.

È questo che vogliamo per i nostri figli più deboli? Che andare in piazza con casco, spranghe, fumogeni, ordigni, pistole sia la loro università e Genny ’a carogna il leader di riferimento?

La stampa 05.05.14

"Lettere dal carcere del prigioniero di Enrico Berlinguer", di Simonetta Fiori

A ventidue anni Enrico Berlinguer viene arrestato a Sassari per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro Badoglio. È il 17 gennaio del 1944, un inverno di fame nera.
Nell’Italia divisa in due – il centro Nord occupato dai
tedeschi e il Mezzogiorno liberato dagli angloamericani – la Sardegna resta come separata, priva di alcun approvvigionamento. A pagarne il prezzo sono le classi più povere, guidate nella sommossa dal segretario della sezione giovanile comunista. Prossimo alla laurea in Legge, Enrico proviene da una famiglia di solida borghesia professionale, con una radice di piccola nobiltà agraria: il padre Mario era stato deputato antifascista nel 1924 e ora è uno dei leader del partito d’azione. Il più moderato genitore non approva la “rivolta del pane”, liquidata come manifestazione di “estremismo infantile”. Ma questo non gli impedisce di stare al fianco di quel suo figlio molto amato, affannandosi perché il caso venga chiuso al più presto.
Enrico trascorrerà nel carcere di San Sebastiano cento giorni, per ciascun giorno un piccolo segno sul muro della cella. Cento giorni di letture intense, documentati da un corpus di 32 lettere che Walter Veltroni ha avuto dalla famiglia e che rende pubbliche per la prima volta nel suo nuovo libro Quando c’era Berlinguer . Le missive, che qui in parte riproduciamo, lumeggiano una formazione intellettuale molto varia – non solo Marx ed Engels ma anche Tocqueville, Croce, Voltaire, Locke, Liszt, Poe tradotto da Baudelaire – e un carattere naturalmente sobrio. «Non mandate troppo da mangiare», «non drammatizzate la mia situazione»: l’intento, con i famigliari, è sempre quello di spegnere ogni enfasi. Se c’è freddo, Enrico non lo sente. Patisce le privazioni ma è «sereno d’animo». Soprattutto vuole ottenere la libertà «senza umiliazioni e conservando la dignità», «né ridicolo né vile» («non voglio farmi passare per vittima»). Su tutte le passioni prevale la vocazione politica, per la quale ricorre alla inusuale formula di “comunista-anarchico”. Nella primavera del 1944, in un modificato clima politico, arriva il proscioglimento in istruttoria per non aver commesso il fatto. Dopo cento giorni, finalmente la libertà. E il definitivo passaggio alla vita adulta.

CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.
***
Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia piena approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che
si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. […]
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Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmente ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.
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Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc…) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.
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Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico

La Repubblica 05.05.14

"Cercando il lavoro si trova l’Europa", di Giuseppe Provenzano

Primo: il lavoro: Ma prim’ancora il lavoro che non c’è. Il primo maggio c’era poca aria di festa, per l’Italia dei disoccupati, per i troppi che ancora rischiano di perderlo, il lavoro. E hanno fatto bene la Cgil e l’Unità a rimarcare quel giorno ciò che dal 2008 sappiamo troppo bene, raccontato dalle lettere dei lettori, dai messaggi di tanti coetanei: il 1° maggio di chi non ha un lavoro per festeggiare. Il giorno dopo, col ritardo consueto della statistica sulla vita, l’Eurostat avrebbe certificato tutto questo nella cifra – sempre più sconvolgente – del 12,7%, in controtendenza rispetto al lieve miglioramento registrato in Europa.
E però, non ci stancheremo di ripeterlo: si discuta pure, con maggiore preoccupazione, del dato nazionale della disoccupazione, ma nella consapevolezza che questo ne nasconde altri, che restituiscono un’immagine assai più reale – più drammatica, cioè – della crisi. L’immagine di un’Italia spezzata, con un Centro-Nord che peggiora la sua condizione ma che, con poco più del 9% di disoccupati (giovani, nella stragrande maggioranza), rimane ben al di sotto della media Ue e un Sud che, secondo le stime della Svimez, raggiungerebbe circa il 20% – è come in Spagna, in Grecia. Sono oltre tre milioni i disoccupati italiani, e la metà nel solo Mezzogiorno. Solo che a questi, come se non bastasse, va aggiunta una «zona grigia» di disoccupati «nascosti» (persone che cercano lavoro, ma non attraverso i canali formali) e di «scoraggiati» (che nemmeno lo cercano perché sanno di non trovarlo, ma che sarebbero ben disponibili a lavo- rare) di circa 3,5 milioni (sempre stime Svimez) – quasi i due terzi dei quali sono meridionali.

Abbiamo voluto ricapitolare i numeri che si nascondono tra le pieghe delle percentuali della disoccupazione, perché, ad un’analisi un poco attenta (ma «velocissima», tranquilli), indicano precise priorità politiche: lavoro e Mezzogiorno. Il lavoro in verità è già al centro dell’attenzione del governo – dagli 80 euro al Jobs act. Solo che l’emergenza è il lavoro che non c’è, prima fonte di disuguaglianza interna e di divario Nord-Sud, in una misura che mina la vita democratica assai più di qual- che emendamento all’accordo sul Senato. Un’emergenza che non può essere affrontata con l’«illusione giuslavoristica» che ha dominato questi vent’anni, traducendosi in una precarietà che ha indebolito il lavoro di tutti, e che ancora permea il decreto Lavoro in discussione, tanto più alla luce delle recenti modifiche volute da Sacconi.

Con l’urgenza delle cose attuali, delle vere priorità , si possono scegliere con maggiore accuratezza le leve da attivare. Quei numeri drammatici, ad esempio, ci dicono di un «ritorno» nel mercato del lavoro: tanti «inattivi» hanno moltiplicato le azioni di ricerca di occasioni di lavoro, anche nel Sud dov’è maggiore il grado di scoraggiamento. C’è anche questo, infatti, dietro l’aumento del tasso di disoccupazione. Mai come adesso, allora, è il momento di affrontare uno dei maggiori punti di debolezza del nostro sistema: il passaggio dalla formazione al lavoro. Oltre la Garanzia giovani, serve una riforma complessiva dei luoghi dove formalmente va fatta incontrare l’offerta e la domanda di lavoro, nel senso dell’efficienza e della trasparenza, per orientare meglio non solo i lavoratori ma anche quelle imprese (troppo poche) che ancora investono e assumono, aiutandole a compiere le scelte migliori senza «sprecare», con regole permissive e degradanti, l’investimento in capitale umano. È una riforma che avrebbe un valore anche per la qualità della democrazia, specialmente nel Mezzogiorno, dove non esiste il «mercato del lavoro» ma un sistema clientelare che non è figlio della sorte o dell’antropologia, ma il frutto avvelenato del mancato sviluppo, della debolezza del sistema produttivo.

Bisogna aprire da subito una grande discussione pubblica, verso l’atteso Jobs Act, con l’ambizione che possa rappresentare qualcosa di più di una nuova regolamentazione del lavoro, ma la vera grande riforma che aspetta il Paese: creare nuovo lavoro e lavori nuovi, soprattutto nel Mezzogiorno, per tirarci fuori dalla crisi. Servono investi- menti pubblici, anche come elemento di battaglia politica a livello europeo su vincoli e politiche comuni. Interventi diretti e strumenti che favoriscano partnership con i privati. Il mondo che esce dalla crisi, l’America di Obama che riduce drasticamente il tasso di disoccupazione e riparte, ha fatto questo. E noi davvero pensiamo che solo con le regole e la leva fiscale potremmo affrontare le
grandi sfide dello sviluppo, a partire da quella decisiva della sostenibilità? «Cambiare, verso il Jobs Act», potrebbe essere lo slogan (visto che uno slogan serve sempre). Perché gli investimenti non significano spesa pubblica purchessia, ma lo sforzo di un progetto per l’Italia dei prossimi vent’anni, un disegno di «ingegneria economica e socia- le» che coinvolga esperti (non solo economisti) e imprese, sindacati e forze vive della società, quelli che hanno le conoscenze e il «diritto» di immaginare il futuro dei luoghi.

Se gli 80 euro si rivolgono alle fasce medio-basse del lavoro dipendente, bisognerebbe avere l’ambizione di dare risposte immediate a quei quasi sette milioni di italiani senza lavoro. E non solo perché è l’unico modo per riattivare uno sviluppo all’altezza delle urgenze sociali e democratiche del Paese. Ma anche per un preciso risvolto politico. Qual è la base sociale del «nuovo» Pd? In questi giorni, un timore taciuto ha accompagnato le pre- visioni dei flussi elettorali per le Europee: e cioè, che l’auspicato successo del Pd sia il frutto di una sostituzione, pur con margini di guadagno, con nuovi elettori (anche ex FI) di vecchi elettori, molti dei quali scivolano verso l’astensionismo. Più che i voti e gli orientamenti politici precedenti, dovremmo guardare con preoccupazione alla condizione sociale. Chi rappresenta oggi i disoccupati? Il Pd al governo cosa ha da offrirgli? Il timore maggiore è che la maggioranza di essi, specie al Sud, si rifuggi verso la protesta antisistema (M5S o altri avventurieri) o verso l’astensione, come forma di «diserzione» dalla vita civile. Specie a queste elezioni europee, non solo per evitare soprese elettorali, a quell’universo dei senza lavoro bisognerebbe rivolgersi: perché è proprio dalla battaglia per una piena e buona occupazione che si costruisce un’altra idea di Europa, di sviluppo e di democrazia.

L’Unità 05.05.14

“Noi, tutti i giorni una minaccia” Sul fronte dei sindaci eroi normali d’Italia, di Alessandra Ziniti

Rosario Rocca, sindaco di Benestare, piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, si è dimesso sette mesi fa via facebook dopo l’incendio della sua auto e di quella della sorella: «Lo stato di abbandono in cui versa il nostro territorio, dimenticato volutamente e tragicamente da uno Stato sordo e assenteista non mi consente più di rappresentare dignitosamente la mia gente. Né ritengo di averne più la forza dopo anni di resistenza isolata e inascoltata al malaffare, alla criminalità e alla burocrazia autoreferenziale ». Alvise Stracci, sindaco di Alimena, piccolo centro sulle Madonie in Sicilia, ha deciso invece di restare al suo posto: «Da quando hanno bruciato l’auto a mia moglie ogni notte mi sveglio alle quattro del mattino e non riesco più a dormire. Sto solo portando avanti un’amministrazione imparziale, improntata su legalità e trasparenza con un taglio deciso contro il malaffare e la mafia. La mia porta è sempre aperta».
Così come sempre aperta era la porta di Laura Prati, la “sindaca” di Cardano al Campo (Varese) uccisa a luglio nella sua stanza in Comune dalla pistola di un vigile urbano che aveva sospeso dal servizio dopo una condanna per truffa e peculato. A Laura è dedicato il report 2013 “Amministratori sotto tiro” redatto da Avviso pubblico, l’associazione che da Nord a Sud dà voce alle centinaia di sindaci, assessori, funzionari comunali che provano ad amministrare la “cosa pubblica” in contesti spesso territorialmente difficili dove la situazione è aggravata dal profondo disagio sociale creato dalla crisi economica.
È un vero e proprio bollettino di guerra quello che si scorre tra auto incendiate, lettere di minacce, proiettili, ordigni più o meno rudimentali, spari contro macchine e abitazioni, teste mozzate di animali, fino alle aggressioni fisiche e verbali. E se, quando nel mirino finiscono governatori di regioni o sindaci di grandi città si accendono sempre i riflettori, nella maggior parte dei casi gli amministratori di piccoli centri, quasi sempre professionisti prestati alla politica, sempre più spesso donne e giovani, espressioni di liste civiche, si sentono estremamente esposti.
Trecentocinquantuno atti intimidatori, quasi uno al giorno con un aumento del 66 per cento negli ultimi tre anni. Alla Puglia, con il 21 per cento dei casi, seguita a ruota da Sicilia e Calabria, il triste primato. Ma se le regioni del Sud, dove certamente è ancora molto forte il condizionamento della criminalità organizzata, fanno registrare l’80 per cento dei casi, le cronache raccontano di un aumento esponenziale del rischio di amministrare che deriva dalle difficilissime condizioni economiche. «Nel 2013 la vita e la sicurezza di tante donne e tanti uomini che amministrano le loro comunità è stata messa in pericolo anche da gesti compiuti da persone disperate che, a causa della perdita del lavoro e di un reddito certo, hanno pensato di sfogare la loro rabbia sui rappresentanti politici a loro più vicini — dice Roberto Montà, sindaco di Grugliasco e presidente di Avviso pubblico — Diversi sindaci, assessori, consiglieri comunali sono stati identificati come soggetti appartenenti alla “casta”, una categoria sociale composta da privilegiati che godono di lauti stipendi, lavorano poco e non rispondono mai concretamente dei loro atti».
Alcuni sindaci, anche del Nord, come quello di Bologna Virginio Merola, o quello di Livorno, Alessandro Cosimi, sono stati costretti a vivere sotto scorta, altri si sono dimessi
come Pino Veneziani, primo cittadino di Rodi Garganico, in provincia di Foggia: prima le aggressioni verbali, poi lo stabilimento balneare di famiglia imbrattato di olio esausto, fino all’incendio dell’auto.
Mogli, figli, sorelle, le intimidazioni non risparmiano nessuno: «Se a Gioia Tauro costruiranno il rigassificatore ammazzeremo te e la tua famiglia», è il messaggio inviato ad Antonella Stasi, vicepresidente della Calabria. A Ernesto Sica, sindaco di Pontecagnano, Salerno, le minacce arrivano via facebook: «Ti devi dimettere, altrimenti ti spariamo ». Persino l’emergenza immigrazione genera rischi: a settembre una busta con una
polvere bianca e la scritta “pericolo antrace” viene recapitata al sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. Assegnazioni di case popolari, abusi edilizi, licenze commerciali, sussidi di disoccupazione, atti di ordinaria amministrazione che diventano rischio. «Stai attenta. Ti farò male con l’acido», ed Elisa Trombin, sindaco di Jolanda di Savoia, Ferrara, finisce sotto scorta.
E il presidente di Avviso pubblico lancia il suo appello: «Questi amministratori non possono e non devono essere lasciati soli, vanno protetti e tutelati, rappresentano un presidio di legalità concreto sui territori».

La Repubblica 05.05.14

"Lo Stato nel pallone salvato da Gomorra", di Roberto Saviano

Le vicende accadute allo Stadio Olimpico — dentro e fuori — hanno dell’incredibile, e non semplicemente per il grado di violenza raggiunto. Genny ‘a carogna è diventato il simbolo mediatico di Napoli-Fiorentina per il suo soprannome buffo e feroce, per le foto che lo ritraggono cavalcioni sulle transenne dello stadio, che ricordano le immagini di Ivan Bogdanov, detto “Ivan il Terribile”, l’ultrà serbo che a Marassi il 12 ottobre 2010 guidò gli scontri che portarono all’interruzione di Italia-Serbia. Ma la fama di Genny ‘a carogna dipende da altro: è lui che ha evitato una vera e propria rivolta dopo la sparatoria fuori dall’Olimpico. C’è tutta una parte di società civile e di istituzioni che è stata letteralmente salvata dalle decisioni di Genny ‘a carogna. Perché la diffusione delle notizie avrebbe potuto far insorgere la tifoseria mettendo a ferro e fuoco una Roma impreparata. Il questore di Roma, Massimo Mazza, dice che non c’è stata trattativa.
È OVVIO che formalmente non è stato chiesto a Genny ’a carogna se svolgere o meno la partita ma che semplicemente è stato accordato a Marek Hamsik il permesso di informare la curva del Napoli sulla situazione del tifoso ferito, visto che giravano voci che fosse morto. E dover avvertire un capo ultras del calibro di Genny ‘a carogna non è trattare?
Come se ciò non bastasse, Genny ‘a carogna non sarebbe solo un uomo che ha precedenti per droga e un Daspo, ma è segnalato più volte dai pentiti come una sorta di anello di congiunzione tra camorra e tifoseria. Emiliano Zapata Misso, che è nipote di Giuseppe Misso, capo storico della camorra napoletana, parla di una tifoseria eterodiretta dai clan e fa riferimento proprio a Genny, che è figlio di Ciro De Tommaso, ritenuto affiliato al clan Misso. E in passato Genny aveva fatto parte dei Mastifss, i mastini, storico gruppo napoletano. D’improvviso ora ci si accorge che nelle tifoserie organizzate la camorra ha un ruolo importante. Eppure basta leggere le inchieste degli ultimi anni, le dichiarazioni dei pentiti. Testimonianze che parlano di un altro gruppo ultrà chiamato Rione Sanità, comandato da Gianluca De Marino, non un tifoso qualsiasi, ma il fratello di un membro dell’ala militare del clan Misso. E potremmo raccontare ancora dei rapporti tra il gruppo Masseria Cardone e il clan Licciardi, o dell’infiltrazione dei Mazzarella nei Fedayn o nelle Teste matte.
Secondo le forze dell’ordine, a sparare a Ciro Esposito, il trentenne di Scampia ora in pericolo di vita, sarebbe stato un ultrà della Roma, Daniele De Santis, detto Gastone. Le tifoserie romane e laziali non sono libere da pressioni criminali, tutt’altro. Non esiste curva che non raccolga un tifo organizzato in continua dialettica con la criminalità. Ricordate la scena del nipote di Giuseppe Morabito “U Tiradrittu”, Giuseppe Sculli, durante la partita Genoa-Siena del 22 aprile 2012? Quando gli ultras del Genoa, per protesta, chiesero ai giocatori di levarsi le magliette, fu Sculli in persona ad andare a mediare con loro. Giuseppe Sculli viene spesso considerato vittima del nonno, capo ‘ndranghetista indiscusso, ma in realtà non ha mai preso le distanza dalle ‘ndrine di San Luca, anzi, ha ribadito in diverse occasioni la fedeltà a suo nonno e al suo sangue.
Due anni prima fece discutere la fotografia che ritraeva Antonio Lo Russo, figlio di Salvatore, capo dell’omonimo clan camorristico, a bordo campo al San Paolo di Napoli nel corso della partita Napoli-Fiorentina del 13 marzo 2010. Lo Russo è appena stato arrestato a Nizza, era latitante e ora attende l’estradizione. Quindi non stupiamoci se si è scelto di andare a parlare (o a trattare, la sostanza cambia poco) con chi ha più potere delle istituzioni in quel contesto, perché ha una struttura organizzata. Lo Stato c’era, ma era nascosto dietro le spalle di Hamsik. Il calcio è intoccabile, ogni critica genera tifo, non analisi. Qualsiasi riferimento sembra essere contro una squadra o a favore di un’altra. Ma gli ultras sono molto più che persone talvolta violente: hanno un ruolo di consenso e di business. Una parte della tifoseria organizzata fa sacrifici e si svena per seguire i propri idoli, ma i vertici cosa fanno? Chi vende hashish, erba e coca? Ogni domenica gli stadi diventano mercati di droga, teatri di guerra non controllati in cui gli ultras portano bombe carta e bengala. Eppure questo non si può dire, per la solita, ingenua storia che continuiamo a raccontarci sul calcio che unisce. Al calcio tutto è concesso e tutto è permesso e in un Paese dove la corruzione ha travolto tutto. L’inchiesta partita da Napoli di Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice cercò proprio di individuare i punti di contatto tra calcio corrotto e potere dei clan. Poi tutto si fermò.
Ora, gli ultras dello sport sono i primi ad agire: ma cosa succederà quando gli ultras della rabbia politica si riverseranno nelle strade? Ci si rivolgerà al Genny ‘a carogna della situazione per non far accadere il peggio? Il presidente del Senato Pietro Grasso che consegnava le medaglie ha suggellato il senso della serata. Una sparatoria, feriti, bombe carta su calciatori e forze dell’ordine. E le istituzioni consegnano medaglie. Sapete come si chiama, ad esempio, il presidente della Figc, quell’organo che un ruolo nella riforma del calcio pure avrebbe dovuto averlo? Forse non ne conoscete il nome, ma il volto sì, poiché predilige essere intervistato al termine delle partite della nazionale: nei momenti fatui. Giancarlo Abete, nominato presidente della Figc il 2 aprile 2007, due mesi dopo la morte di Filippo Raciti a Catania. Da allora sono passati sette anni, un’eternità. Nulla è cambiato e ciò che è accaduto descrive lo stato comatoso dello sport più importante in Italia. Perché c’è bisogno di un presidente della Figc se il risultato è questo? Perché, come sempre in Italia, i vertici non hanno alcuna responsabilità dei fallimenti? Chiedetevi chi è Giancarlo Abete e quali sono stati i risultati del suo lavoro. Altrimenti De Andrè avrà per sempre ragione e continueremo ad assisteremo inermi all’ennesima occasione in cui lo “Stato si costerna, si indigna e si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”.

La Repubblica 05.05.14

"Disoccupazione record: colpa anche dei salari bassi", di Carlo Buttaroni

Nei quarant’anni che hanno preceduto la crisi, il Pil in Italia è più che raddoppiato ma il numero degli occupati è rimasto sostanzialmente stabile. Un risultato che dipende, prevalentemente, dalle innovazioni che hanno reso più efficienti i processi e hanno permesso alle aziende di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di lavoratori. Ma le trasformazioni che hanno riguardato il mondo della produzione e del lavoro sono state molteplici. L’innovazione più significativa è venuta da un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo: la produzione, anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Trasformazione, questa, che ha determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale. Progressivamente, è quindi diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato disponendo e articolando in orizzontale.

LA LISTA DELLE PROFESSIONI

La conseguenza sul mercato del lavoro è che, a livello macro, la lista delle professioni si è allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di «capacità», in grado di rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso, i contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito da un ritmo serrato e da una tensione continua. Altrettanto profondi sono i movimenti che hanno trasformato i rapporti di lavoro: innanzitutto, meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi, giacché l’ambito dei contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni, posso esserci forti differenze retributive.

Questo nuovo modo di produrre e lavorare

ha, inevitabilmente, indebolito i profili di tutela dei lavoratori, e in tutte le economie occidentali (compresa l’Italia) le quote di lavoro flessibile è cresciuta, mentre quella di lavoro stabile è diminuita e i salari reali sono cresciuti assai meno della produttività.

Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, la crisi attuale trova origine anche nei salari troppo bassi che non hanno potuto far crescere, insieme alla produttività, la domanda aggregata nella sua componente principale che sono i consumi. In sostanza, i lavoratori hanno avuto progressivamente me- no reddito per acquistare ciò che, invece, erano in grado di produrre in quantità sempre maggiore. Un processo ben noto agli economisti. Se i salari reali diminuiscono e i prezzi rimangono stabili (o addirittura crescono), infatti, si verifica una caduta del potere d’acquisto dei lavoratori che genera, a sua volta, una contrazione dei consumi.

E se si riduce la domanda, le imprese sono costrette a ridurre la produzione e, quindi, a utilizzare meno lavoratori nei cicli produttivi. Col risultato che l’occupazione cala in virtù dell’efficienza della produzione ma anche dei salari troppo bassi.

Dagli anni 70, la leva per rispondere allo squilibrio determinato dal fatto che le famiglie non hanno redditi sufficienti per acquistare ciò che viene prodotto, è stato il crescente ricorso al credito che ha fatto crescere, però, il debito privato. A un certo punto, la massa di debiti è stata tale che una parte di essi non potevano essere più ripagati e nel tentativo di rientrare dell’indebitamento, le famiglie han- no ridotto i consumi e svenduto gli asset acquisiti (ad esempio le abitazioni) che così si sono svalutati. Nel frattempo, le sofferenze bancarie sono aumentate e ciò ha causato la crisi di molte banche con conseguente razionamento del credito. È questo avvitamento che ha dato avvio alla crisi finanziaria, la cui causa scatenante, infatti, non è nell’indebitamento pubblico come molti credono, bensì in quello privato.

La diminuzione di salari e prezzi rappresenta il nuovo spettro di questa difficile fase di uscita dal tunnel della crisi. Infatti, se da un lato i costi possono rimanere fermi tagliando sulla produzione o sul lavoro, dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri troppo bassi, non hanno alcun interesse a investire e assumere.

In sintesi, poiché la produzione è tirata dal lato della domanda, i salari dovrebbero crescere insieme alla produttività, perché solo questo assicura la capacità di acquisto da parte delle famiglie dei lavoratori di ciò che viene prodotto e immesso sul mercato. La crescita dei salari evita, inoltre, l’eccessivo indebita- mento, mantiene la distribuzione del reddito e i prezzi costanti, proteggendo il sistema da crisi debitorie da deflazione.

LA DOMANDA

Su quale lato si ponga la crisi dell’Italia lo si deduce dal grado di utilizzo degli impianti delle imprese manifatturiere italiane, che sono al 71,8% del loro potenziale. Se la domanda stimolasse un utilizzo del 100% degli impianti, l’effetto si tradurrebbe in oltre un milione di nuovi occupati che, stimolando a loro volta la domanda, alimenterebbero nuova occupazione. Oggi, se anche il costo di un lavoratore fosse pari a zero, le imprese non avrebbero comunque alcun interesse ad assumerlo, per- ché le merci che quel lavoratore sarebbe in grado di produrre non sarebbero comunque acquistate. L’interesse dell’impresa sarebbe, invece, di sostituire un lavoratore che costa di più con uno che, invece, costa meno, ricevendo un vantaggio immediato in termini di costi di produzione, ma un danno sul lungo termine come capacità di crescita della domanda aggregata. E, soprattutto, non ci sarebbe alcun vantaggio in termini di occupazione, in quello, cioè, che rappresenta il vero ostacolo e, nel contempo, l’unica ricetta per una reale ripresa.

L’Unità 05.05.14

"Nostra Signora Televisione", di Ilvo Diamanti

Nostra Signora Televisione. Guardata con sospetto e con distacco. Un old medium . In altri termini: vecchio. Se non superato, in declino. Vuoi mettere internet? I social media? Twitter e Facebook? Vuoi mettere Beppe Grillo e il suo blog? Capace, con la regia di Casaleggio, di sbancare, alle elezioni del 2013? E di continuare la corsa anche in seguito? Fino a lasciar pensare a una replica, almeno, alle Europee del prossimo 25 maggio? La televisione. Una signora. Ma irrimediabilmente vecchia. Soprattutto i canali generalisti di Rai e Mediaset, con La7 a traino. Il duopolio imperfetto degli ultimi trent’anni. A reti unificate. Eppure… Tutti scalpitano, impazienti, per irrompere nei programmi tivù di RaiSet — e della 7. Tutti i leader politici che contano. E, a maggior ragione, quelli che contano di meno. Perché per contare occorre ricorrere a Nostra Signora Televisione.
Per questo motivo Berlusconi, nell’ultima settimana, ha fatto irruzione in tutte le reti. E in molti programmi di informazione di prima serata. Dal Tg4 a Studio Aperto, al Tg2. E ancora: da “Porta a Porta” a “Piazza Pulita”, da “Virus” a “In ½ ora”… Una presenza tanto costante e intensa da sollevare l’attenzione dell’Agcom (come ha documentato, ieri, un ampio servizio su Repubblica ). D’altronde, la ripresa (per quanto relativa) di Berlusconi, alle elezioni di un anno fa, era trainata dalla partecipazione a uno spazio ostile: “Servizio Pubblico”. Il talk guidato da Santoro insieme a Travaglio. Icone, più che portabandiera, dell’anti-berlusconismo. L’irruzione di Berlusconi, il Nemico Pubblico, aveva fatto salire gli ascolti fino a livelli mai raggiunti — né prima né dopo. Dal programma e dalla rete. Ma aveva anche permesso al Cavaliere di contrastare la sconfitta annunciata. Di esibire la propria determinazione a “resistere, resistere, resistere”… Per echeggiare una frase famosa, usata dal magistrato Francesco Saverio Borrelli, nel gennaio 2002, con un fine opposto. Cioè, contro Berlusconi. All’epoca, Presidente del Consiglio.
In questi giorni, però, anche Beppe Grillo ha ripreso a frequentare la tivù. Ieri sera ha concesso una lunga intervista a SkyTg24. Ma, soprattutto, sembra stia negoziando la partecipazione al programma che, più di ogni altro, simboleggia il legame fra informazione televisiva e sistema politico. “Porta a porta”. Il talk presentato — e diretto — da Bruno Vespa. Trent’anni dopo, visto il precedente del 1983. In occasione, non a caso, della serata dedicata da Rai Uno alle elezioni (politiche, in quell’occasione). Grillo, che tratta televisioni, giornali e giornalisti come “nemici”. Come i partiti. In quanto “mediatori” della comunicazione e della democrazia. Che egli concepisce in forma “diretta” e “im-mediata”. Oltre ogni rappresentanza. Grillo che, sul proprio blog, esibisce alla pubblica riprovazione i giornalisti infedeli — al loro compito. E, dunque, a suo avviso, pre-venuti: contro il M5s. Proprio lui, Beppe Grillo: da Vespa. Dopo aver polemizzato contro lo spazio riservato a Renzi e agli uomini del Pd e del governo. Nelle reti televisive nazionali. Mentre altri soggetti politici, meno accreditati, dal punto di vista elettorale, protestano contro la propria marginalità (esclusione?) mediatica. In particolare, la sinistra dell’Altra Europa.
Dunque: la televisione, nonostante tutto. Impossibile farne a meno, se si ha l’ambizione di “vincere”, o almeno di “esistere”, alle elezioni. Perché le scelte degli elettori si definiscono proprio lì. E perché, soprattutto lì, si risolve l’incertezza. Maturano le decisioni degli indecisi. Che sono ancora molti. Oltre un terzo, secondo i sondaggi. D’altronde, alle Europee la partecipazione elettorale è, strutturalmente, più bassa. Nel 2009, in Italia, votò il 66% degli aventi diritto. Peraltro, livello fra i più alti in Europa. Ma è facile immaginare che, in questa occasione, l’affluenza alle urne scenda ulteriormente. Così diventa essenziale andare in tivù. D’altra parte, se facciamo riferimento alle elezioni politiche del 2013, quando l’attenzione appariva molto maggiore di oggi, possiamo osservare come quasi un quarto degli elettori abbia deciso se e per chi votare nel corso dell’ultima settimana (come mostrano le indagini di LaPolis, presentate nel volume Un salto nel voto , pubblicato da Laterza). La maggioranza, il 13% dei votanti, nei giorni
delle elezioni. Il 90% degli elettori, peraltro, afferma di aver seguito la campagna elettorale (guarda caso…) proprio in televisione. Meno della metà, il 40%, attraverso internet. Secondo Ipsos, circa il 55% utilizza la tivù per informarsi sulle elezioni anche in questa fase. Il che significa la maggioranza di tutti gli elettori e di tutti gli elettorati. Compreso il M5s. Il soggetto politico, peraltro, che, alle elezioni del 2013, ha allargato maggiormente la propria base elettorale proprio nell’ultima settimana. Nel corso della quale ha conquistato circa il 30% dei suoi elettori.
Per questo la televisione resta il vero “campo” della campagna elettorale. Il più conteso e il più combattuto. Perché il più influente. D’altronde, secondo l’Osservatorio di Demos-Coop del dicembre 2013, l’80% degli italiani si informa ogni giorno attraverso la tivù. Circa il 47% su internet. Il “mezzo” di informazione che ha registrato il maggior grado di crescita, negli ultimi anni. Dal 2007, infatti, è quasi raddoppiato. Tuttavia, resta ancora un medium molto delimitato, dal punto di vista degli utenti. Ne restano, infatti, largamente escluse le persone più anziane e meno istruite. Cioè, le più incerte. Le più difficili da contattare e, quindi da convincere. Anche perché, nel corso degli anni, hanno perduto fiducia nella politica, nei politici e nelle istituzioni. (E uno spettacolo osceno, come quello messo in scena prima della finale di Coppa Italia, a Roma, in diretta tivù, non può che aver moltiplicato questo sentimento.) Ebbene, per raggiungere e spingere gli elettori indecisi a votare — magari contro, per rabbia e delusione — ci vorrebbero contatti diretti. Personali. Con amici, conoscenti, familiari. Per sfidare la sfiducia ci vorrebbero persone di cui ci si fida. Ci vorrebbe la politica sul territorio. Come un tempo. Quando i partiti erano dentro la società, confusi nella vita quotidiana. Quando la campagna elettorale veniva condotta porta a porta . Mentre ora, per parlare con gli indecisi e gli incazzati, non resta che andare in tivù. A “Porta a porta”.

La Repubblica 05.05.14