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"Un insulto alla verità", di Michele Smargiassi

Cinque minuti di applausi in piedi sono il tributo che si riserva agli eroi. Agli uomini che hanno arricchito l’umanità con un dono che va oltre il dovere: un dono speciale del proprio pensiero, della propria generosità, della propria fatica, persino della propria vita. QUALE mai dono speciale alla comunità hanno premiato, quale eroismo umano hanno applaudito ieri sera i presenti al congresso del Sap? I tre poliziotti celebrati pubblicamente in questo modo hanno già avuto, definitivamente, dalla comunità, quel che i giudici hanno deciso fosse giusto per loro: una condanna definitiva a tre anni e sei mesi per eccesso colposo nell’omicidio colposo di Federico Aldrovandi, un ragazzo che dalla sua comunità, quella sera, aveva solo un grande bisogno di aiuto.
Da una platea composta in massima parte, si suppone, di “servitori dello Stato”, ci si doveva attendere altro. Il rispetto, anche nel dissenso. E non stiamo a farne una questione di libertà d’opinione, per favore: ora i dirigenti di quel sindacato, senza apparente imba-
razzo, cercano di spiegare la lunga, vergognosa scena trionfale sostenendo che gli applausi erano una protesta contro quella che ritengono una condanna ingiusta. Oppure un gesto di “solidarietà umana” verso i colleghi condannati.
Non giriamoci attorno. Quel che si è visto ieri a Rimini è semplicemente, limpidamente, indiscutibilmente una cosa rivoltante sul piano umano. Il “ribrezzo” di Patrizia Moretti, mamma di Federico, non ha nulla di esagerato. Prima che poliziotti, giudici, giornalisti, siamo esseri umani. Nessuno che se lo sia ricordato, ieri? Nessuno che abbia pensato che si applaudono i vivi sulla tomba di un ragazzo morto senza alcuna colpa, sul dolore di una madre che solo per la sua tenacia, quella sì da applaudire per ore, è riuscita ad ottenere giustizia? Non c’era un solo uomo provvisto di coscienza, ieri, che si sia vergognato dell’eco che avrebbe avuto quella standing ovation nell’anima della madre di un figlio morto fra le mani di chi lo doveva salvare? La stessa madre che si è già sentita troppe volte insultare e contestare per le pubbliche piazze, anche da alcuni addetti a quella che la
legge continua a definire “pubblica sicurezza”?
Federico Aldrovandi quella sera aveva solo bisogno di aiuto: bisogna ripeterlo una, due, mille volte, a chi proprio non lo vuole capire. Aveva bisogno di servitori dello Stato, cioè servitori di tutti noi, e anche di Federico, addestrati professionalmente e preparati umanamente a contenere la sua agitazione. Ma ha incontrato le persone sbagliate. Ha incontrato professionisti della “pubblica sicurezza” che non hanno saputo
metterlo in sicurezza, che non sono riusciti a fare di meglio, di fronte alla sua crisi, che trattarlo come un criminale.
Coincidenza, da quello stesso palco riminese, poche ore prima, il capo della Polizia Pansa aveva annunciato nuove “regole di ingaggio” per la Polizia, chiare e vincolanti regole che stabiliscano come i servitori dello Stato in divisa debbano comportarsi per tutelare la “pubblica sicurezza”. Pensavamo in tutta franchezza che quelle regole fossero da sempre la base del mestiere. Che fosse già ovvio, per esempio, che manganellare o calpestare un manifestante già a terra, qualunque cosa abbia combinato fino a un attimo prima, rientra solo nelle logiche della guerriglia, della rabbia, del colpo-su-colpo, e con il mestiere del poliziotto non c’entra un accidente. Malpagati? Male addestrati? Stressati da turni impossibili? Tutto vero. Ma sono cose che reclamano soluzioni, non applausi. Quel che è stato portato ieri in trionfo, invece, è un’altra cosa. Uno spirito di corpo impenetrabile come una corazza, una rivendicazione di insindacabilità, la difesa corporativa dei “nostri” contro chiunque si metta di traverso: che sia un giudice o una mamma spezzata dal dolore. Per fortuna, se i “servitori” non sono riusciti a pensare, lo Stato ha fatto rapidamente la scelta giusta, l’unica possibile, con la telefonata di solidarietà del capo del governo a mamma Patrizia, prima ancora che si esprimessero il ministro dell’Interno e il capo della Polizia. Lo Stato ha dato un segno. Ora forse resta da capire cosa significa “servitore”.

La Repubblica 30.04.14

"Il Parlamento degli anti-europei", di Andrea Bonanni

L’Europa,così com’è, non gli va a genio. La moneta unica tanto meno. Ma neanche tra di loro si piacciono tanto. L’esercito di antieuro che si prepara ad invadere l’emiciclo del Parlamento europeo rischia di presentarsi come un’armata Brancaleone: minacciosa per la sua consistenza numerica e il disagio che rivela, ma politicamente insignificante e non in grado di influenzare le scelte dell’Europa. Se messi tutti insieme, estrema destra ed estrema sinistra, i deputati contrari ai Trattati europei e alla moneta unica così come viene gestita oggi, formerebbero il primo partito. MAla coabitazione è evidentemente impossibile. Non solo perché la sinistra di Tsipras non potrebbe mai fare fronte comune con la destra della Le Pen, ma anche perché all’interno di quel grande «partito della paura» che intercetta i voti di destra, le incompatibilità sono maggiori delle sintonie.
Il Parlamento europeo funziona, come tutti i Parlamenti nazionali, sulla base dei gruppi politici. La riunione dei capigruppo è quella che, in base ad un criterio di proporzionalità, assegna i rapporti, distribuisce gli incarichi nelle commissioni, programma il lavoro politico dell’assemblea e si ripartisce i finanziamenti.
Chi non riesce a entrare in un gruppo politico o a crearne uno proprio, finisce inevitabilmente per essere un paria, senza possibilità di influire sul funzionamento dell’istituzione. Ma per formare un gruppo politico, il regolamento richiede che ci siano almeno 25 eurodeputati di almeno sette Paesi diversi. E nell’eterogenea armata di oltre duecento deputati anti europei, l’operazione si prospetta tutt’altro che semplice.
Cominciamo con gli inglesi. La Gran Bretagna manderà a Strasburgo un folto gruppo di euroscettici eletti nell’Ukip, lo Uk Independence Party, e un buon numero di Conservatori. I due partiti sono però rivali e incompatibili: lo Ukip vuole l’uscita dall’Ue, mentre i conservatori chiedono di rinegoziare i Trattati.
In compenso, nessuno dei due partiti britannici è disposto ad allearsi con un altro forte gruppo di euroscettici, che saranno gli eletti francesi del Front National di Marine Le Pen: troppo di destra, troppo xenofobo e troppo populista. La Le Pen, secondo i sondaggi, avrà un successo strepitoso, grazie al sistema elettorale proporzionale. Ma troverà non poche difficoltà a formare un gruppo politico. Pur facendo parte dell’estrema destra, non vuole allearsi con i neonazisti ungheresi di Jobbik, né con quelli greci di Alba Dorata, troppo eversivi per i suoi gusti, che
pure sono dati in crescita nei sondaggi.
Potrebbe allearsi con la Lega Nord. Ma di certo risulta incompatibile con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, che i pronostici danno come un altro dei grandi outsider di queste elezioni.
I quattro “tenori” del fronte anti-euro risultano dunque incompatibili tra loro. Forse alla fine riusciranno a formare quattro gruppi politici distinti raccogliendo l’adesione di partitini minori e di “cani sciolti” eletti negli altri Paesi. Ma si tratterà comunque di gruppi minoritari, nessuno dei quali sarà in grado di diventare neppure la quarta forza del Parlamento, dopo popolari, socialisti e liberali.
In compenso, l’invasione degli euroscettici avrà paradossalmente l’effetto di rafforzare la maggioranza filo-europea dell’assemblea di Strasburgo. Già popolari, socialisti e liberali hanno stretto un patto di ferro per negoziare tra loro la designazione del prossimo presidente della Commissione europea e imporne la nomina ai capi di governo, che fino ad ora erano i soli a decidere chi dovesse sedersi sulla poltrona più importante d’Europa. Questa maggioranza, nata dalla volontà di democratizzare la vita delle istituzioni comunitarie e sottrarle all’egemonia dei governi, sarà rafforzata e consolidata dalla contrapposizione con il fronte anti-europeo e dalla necessità di contrastarlo in tutte le numerose decisioni che riguardano un rafforzamento dell’integrazione. Quella che si creerà sarà, insomma, una larga maggioranza di “salute nazionale” europea, che relegherà ancora di più ai margini i partiti euroscettici. In questo senso, una volta decisi i giochi per la presidenza della Commissione, il Partito popolare potrebbe finalmente affrontare la questione della manifesta incompatibilità nei suoi ranghi di personaggi imbarazzanti e sostanzialmente anti-europei, come Silvio Berlusconi e il premier ungherese Viktor Orban. Ora gli eletti di Forza Italia e gli ungheresi di Fidesz sono essenziali per garantire al Ppe la posizione di partito di maggioranza relativa. Ma, in un Parlamento nettamente diviso sulla discriminante tra pro e anti-europei, la loro collocazione naturale è dalla parte degli euroscettici. E un loro allontanamento dal Ppe rafforzerebbe la coesione e la determinazione del fronte filo europeo.

La Repubblica 30.04.14

"Divorzi: per la prima volta in 40 anni sono in calo. Ma non è amore, è crisi (economica)", di Giorgia Serughetti

Nel quarantennale del referendum abrogativo del 1974, i dati più recenti indicano una lieve inversione di tendenza. E forse non si tratta (solo) di matrimoni meglio riusciti, ma della necessità economica di rimanere “separati in casa”. Sono trascorsi appena 43 anni, poco più della metà della vita media di un italiano. Per gli storici è un battito di ciglia, eppure è difficile persino ricordare cosa voleva dire per uomini e donne pronunciare quel sì “finché morte non vi separi” prima del 1° dicembre 1970, quando il divorzio entrò nel nostro ordinamento giuridico. Fu un fatto rivoluzionario, che ha cambiato per sempre i costumi matrimoniali e familiari in Italia. Ma anche un fatto tutt’altro che pacifico, all’epoca.

Tra pochi giorni, il 12 e 13 maggio, ricorre l’anniversario del referendum abrogativo del 1974, voluto dalla Chiesa e dalla Democrazia Cristiana, per cui si recò alle urne quasi il 90% dell’elettorato. Vinse il No, sostenuto dai partiti di sinistra e laici e dal movimento femminista, e la norma fu salva. Quella norma che ancora oggi permette a mogli e mariti di cambiare idea sul loro progetto di vita insieme.

Questo, almeno sulla carta. Perché se il ricorso al divorzio tra gli italiani è andato continuamente crescendo dagli anni ’70, i dati più recenti indicano un’inversione di tendenza. E forse non si tratta (solo) di matrimoni meglio riusciti. Guardiamo attentamente il trend degli ultimi 20 anni. Secondo la ricerca Istat del 2012 Separazioni e divorzi in Italia, nel 1995 si contavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1.000 matrimoni, nel 2011 il numero sale a poco meno del doppio per le separazioni (311) e a più del doppio per i divorzi (182).

Però attenzione, perché già nel 2011, l’ultimo anno della rilevazione, si intravede una lieve flessione negativa: dopo anni di netta crescita, le separazioni e i divorzi si mostrano sostanzialmente stabili, anzi il numero dei secondi diminuisce dello 0,7% rispetto all’anno precedente. Se guardiamo all’anno successivo, le statistiche giudiziarie indicano un trend ancora in diminuzione. Le separazioni consensuali, dal 2011 al 2012, scendono del 3,2 per cento, da 68.363 a 66.187, mentre quelle giudiziali (in cui non c’è accordo tra i coniugi) diminuiscono del 13,6 per cento, da 36.730 a 31.740. I divorzi consensuali (37.188) calano del 3,6 per cento, mentre quelli giudiziali (17.990) dell’11,8.

Che sta succedendo? Le donne e gli uomini italiani hanno imparato a scegliersi meglio e sopportarsi di più? O semplicemente il calo di separazioni e divorzi corrisponde a un calo nei matrimoni? Forse né l’una né l’altra ipotesi. In realtà, se guardiamo ancora agli anni 2011 e 2012, scopriamo che i matrimoni sono in lieve aumento. E la tendenza alla diminuzione degli ultimi vent’anni, secondo l’Istat, è stata in media dell’1,2 per cento, quindi minore rispetto all’attuale calo dei divorzi.

Anche l’ipotesi di un’armonia crescente tra le coppie non convince molto: gli avvocati matrimonialisti rivelano anzi quanto sia diffusa la conflittualità, magari aggiornata ai tempi del web 2.0. I dati diffusi nel corso del recente convegno nazionale dell’Ami, l’associazione dei matrimonialisti italiani, rivelano che il 30 per cento dei casi di separazione giudiziale avviene per colpa di tradimenti che nascono su social network e in chat. Forse anche per questo le separazioni sono molte di più al Nord (più cablato) che al Sud? Ma un simile divario suggerisce anche un’altra lettura, cioè che dietro l’apparente solidità dei matrimoni si nasconda lo zampino della crisi economica. E che tanti mariti in realtà dormano sul divano, separati in casa.

Già, perché divorziare costa. I coniugi che si separano devono, innanzitutto, provvedere a mantenere due case, e se c’era una casa di proprietà spetterà a uno solo dei due: nel 57,6 per cento dei casi è assegnata alla moglie (anche perché la casa segue i figli, che più spesso restano ad abitare con la madre), nel 20,9 per cento al marito, nei casi restanti i due cercano una nuova abitazione. Tante coppie, al momento del divorzio, hanno anche il mutuo ancora da pagare.

Così, scopriamo da un’indagine Demoskopea, 18 donne separate e 28 uomini separati su 100 cento pagano ancora le rate mensili. Poi ci sono gli assegni di mantenimento, che secondo l’Istat riguardano il 19 per cento delle separazioni e sono quasi sempre corrisposti dal marito. In media si tratta di 500 euro, una cifra che impatta enormemente su stipendi risicati come quelli attuali. Infine, naturalmente, ci sono le spese legali, per procedimenti che si protraggono per anni.

La durata del divorzio è da sempre un tema caldo. Oggi devono trascorrere almeno tre anni di separazione legale dopo i quali si può fare istanza di divorzio, e l’iter giudiziario può durare anche più di dieci anni. Per questo aumenta il cosiddetto “turismo divorzile”, cioè le coppie (8mila negli ultimi 5 anni secondo l’Ami) che risolvono la situazione in pochi mesi rivolgendosi a un altro paese europeo.

In Italia, invece, i tanti disegni di legge presentati per accorciare la procedura si sono puntualmente arenati in Parlamento. L’ultimo in ordine di tempo è quello di Alessandra Moretti, deputata Pd, che propone un iter di 12 mesi a partire dall’inoltro della domanda, ridotto a soli 9 mesi se la separazione è consensuale e non ci sono figli.
Potrebbe essere la volta buona per il “divorzio breve”.

Ma intanto il timore di queste lungaggini resta uno dei fattori che scoraggiano i matrimoni. Tante sono infatti le coppie che si tengono alla larga da tribunali e avvocati, scegliendo una soluzione “leggera” per la propria vita insieme. Coppie di fatto che, dice l’Istat, sono più che raddoppiate tra la fine degli anni ’90 e oggi.

Tra queste ci sono anche quelle che chiedono non di poter serenamente divorziare, ma di potersi ufficialmente sposare, e sono le unioni di persone dello stesso sesso. Per loro, in Italia, gioie e dolori del vincolo coniugale appaiono ancora un miraggio. Sarà come dice il proverbio: il matrimonio è un porto di mare, chi è dentro vuole uscire e chi è fuori vuole entrare. Ma nessuna delle due cose sembra poi tanto facile.

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Convenzione Istanbul, Ghizzoni e Guerra “A breve sarà in vigore”

Manuela Ghizzoni e Cecilia Guerra salutano con favore la data certa dell’entrata in vigore. Le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Maria Cecilia Guerra esprimono soddisfazione per la notizia dell’entrata in vigore, il prossimo 1° agosto, della Convenzione di Istanbul, il trattato europeo sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Ecco la loro dichiarazione:

L’annuncio l’ha dato, nei giorni scorsi, la presidente Boldrini all’Aula della Camera: la Convenzione di Istanbul, il trattato europeo sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, entrerà in vigore il prossimo 1° agosto. “Vogliamo esprimere tutta la nostra soddisfazione per questa notizia – commentano le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Maria Cecilia Guerra – Con le recenti ratifiche di Spagna, Andorra e Danimarca è stato superato il numero di dieci Paesi membri del Consiglio d’Europa, soglia obbligatoria per far diventare il trattato legalmente vincolante. L’Italia è stato uno dei primissimi Paesi a ratificare la Convenzione, il primo tra i grandi Paesi europei a fare questa scelta. Dopo, altre nazioni ci hanno seguito. Siamo soddisfatte perché questo risultato è il frutto del lavoro che i movimenti delle donne hanno saputo portare avanti in questi anni e del lavoro trasversale fatto dalle donne in Parlamento: non è un caso che la scelta della ratifica sia stata approvata dal Parlamento con la più alta presenza femminile della storia della Repubblica. L’Italia, già con il decreto 93 dell’agosto scorso, ha inserito nel proprio ordinamento interno alcuni dei contenuti della Convenzione: uno dei passi fondamentali è la costruzione del Piano nazionale contro la violenza sulle donne. Il nostro auspicio è che il nuovo Governo completi al più presto il Piano per renderlo immediatamente operativo”

Università. Si naviga a vista. Intervista a Carla Barbati, ordinario di diritto amministrativo e Vicepresidente del CUN

Professoressa Barbati, nel luglio del 2012 lei ci rilasciò un’intervista nella quale si parlava della “perigliosa navigazione verso il Nuovo Mondo” del sistema universitario. Dopo quasi due anni, come valuta la navigazione e la rotta seguita finora?
E’ stata una navigazione non dico “senza nocchiero”, ma che, da quando ha preso avvio, con l’entrata in vigore della legge n.240, ha visto l’avvicendarsi di ben quattro “nocchieri”. Quattro ministri si sono succeduti, in poco più di tre anni, alla guida di una riforma quanto mai complessa ed estesa. Di là da qualsiasi valutazione si voglia dare di quanto fatto o non fatto dai diversi ministri, è indubbio che questi continui mutamenti hanno compromesso la possibilità di sottoporre la riforma a un indirizzo politico capace di imprimere, tramite provvedimenti concreti e non soltanto dichiarazioni, quelle correzioni di rotta che le prime applicazioni avrebbero potuto suggerire.

Intende dire che i Ministri non hanno guidato la riforma?

La riforma è stata studiata, sicuramente osservata. Dubito si possa dire sia stata governata, anche perché quando s’iniziava a percepire la necessità di intervenire, il mutamento del vertice politico la restituiva a nuovi sguardi e a nuovi studi più che ad azioni di governo. Ma oltre a questo dato contingente ed esterno, vi è quello strutturale e interno di una riforma che ha affidato molta parte di sé, della propria attuazione, alle scelte di apparati tecnici. Mi riferisco innanzi tutto all’ANVUR costituita dalle stesse norme come soggetto regolatore, per non dire “decisore”, lasciato anch’esso privo del confronto con un indirizzo politico forte.

Si è persa la rotta della riforma dunque?

Che si sia persa la rotta, forse, è presto per dirlo. Certo la navigazione è proseguita senza che ne fosse controllata la rotta, senza assicurarsi che davvero conducesse alla meta desiderata: incentivare qualità ed efficienza del sistema universitario. Per ora abbiamo una comunità accademica disorientata e affaticata dal “peso” delle tante, troppe regole complicate quando non eccentriche.

Vale comunque la pena di ribadire l’esigenza di correttivi?

Ogni riforma, dopo la sua adozione, deve essere monitorata e ne devono essere verificati costantemente i risultati, anche intermedi, perché ogni regola, alla prova della sua attuazione, può richiedere modifiche. E’ quella che si definisce la “manutenzione” delle riforme. In ogni caso, bene sarebbe che si valutasse l’impatto delle regole prima di introdurle, per accertarsi che i costi che ne derivano non siano superiori ai benefici. Quando ciò non avviene, come non è avvenuto per molte di queste nuove regole, è indispensabile che si verifichi almeno ex post la loro capacità di condurre agli obiettivi voluti.

Dunque, sarebbe necessario intervenire ora con revisioni e aggiustamenti della riforma?

Ormai sono più di tre anni che ci stiamo misurando con l’applicazione della riforma. Penso perciò sia trascorso il tempo degli “sguardi” e degli studi e sia giunto il tempo del “provvedere” e non nel senso di scrivere un’altra riforma, ma di correggere appunto quanto, in base all’esperienza che se n’è fatta, necessita di essere corretto. E su questo mi pare siano già emerse indicazioni molto chiare per gli osservatori più attenti. Si tratta solo di agire.

Crede che nell’attuale contesto politico vi sia spazio per possibili interventi?

Questo è davvero difficile a dirsi. Molto può dipendere dalle prospettive di permanenza nei ruoli e nelle connesse responsabilità dei decisori politici. Molto dipende anche dalla capacità delle sedi istituzionali, legislative e governative, di pensare all’Istruzione e alla Formazione, dunque all’Università e alla Ricerca, nei termini che richiede l’Unione Europa, ai fini della strategia Europa 2020, ossia come componenti fondamentali dello sviluppo economico e della competitività degli Stati membri.

Sino a che non sarà acquisita questa consapevolezza è difficile ottenere un’attenzione qualificata e di sistema che possa tradursi in politiche di lungo periodo, le sole che possano assicurare continuità all’azione di governo del settore. Le sole che possano evitare di consegnare le sorti del sistema universitario e della ricerca alla capacità politica dei singoli ministri, che si succedono, di chiedere e ottenere misure adeguate o comunque spazio per interventi che siano anche e solo di miglioramento del quadro normativo e amministrativo.

Quanto alle risorse FFO che vengono decurtate, stando a quanto prevede il decreto legge spending review del governo Renzi, come le valuta?

Siamo di fronte alla ricorrente espressione di una concezione dell’Istruzione Superiore e della Ricerca come voce di spesa e non di investimento e di una “navigazione”, per proseguire la nostra metafora, che segue una rotta differente da quella tracciata dall’Unione Europea. Queste scelte, di là da quale sia l’entità della decurtazione o il suo carattere eventuale o meno, preoccupano comunque per ciò che raccontano del nostro persistente disallineamento rispetto alle politiche europee. L’Europa raccomanda di effettuare investimenti adeguati in questi settori, anche in periodi di scarse risorse finanziarie, in ragione del contributo che apportano alla crescita degli Stati membri e dunque dell’Area Europea.

Risorse finanziarie adeguate come presupposto per lo sviluppo e la competitività del Sistema Universitario italiano?

Sono una delle pre-condizioni. Non dimentichiamoci però che anche congrue risorse economiche non sono sufficienti allo sviluppo e alla competitività dei sistemi, se non sono accompagnate da modelli organizzativi e di funzionamento, oltre che da politiche di regolazione utili al loro sviluppo. E anche a questi effetti, il nostro sistema universitario è ancora lontano dal disporre delle soluzioni necessarie al suo rafforzamento. Direi che anche le politiche pubbliche sin qui seguite, e non solo il sistema universitario, dovrebbero essere oggetto di una valutazione volta a incentivarne la qualità e l’efficienza.

Le procedure dell’ASN hanno visto emergere un significativo contenzioso, e molti strali si sono letti su di una stampa fino a poco tempo fa osannante. Che opinione si è fatta?

Ho riletto quanto, facile profeta, dicevo due anni fa. Era facile, infatti, prevedere che le troppe regole, troppo complicate e troppo confuse nel linguaggio e nel significato, avrebbero favorito il contenzioso e così è stato. Bene sarebbe stato se anche la stampa, almeno quella che si propone come più avvertita e attenta, avesse considerato meglio le difficoltà interpretative e applicative. Purtroppo, nessuno lo fece e chi indicava quelle difficoltà, lungi dall’essere ascoltato, veniva tacciato di opporsi al “nuovo mondo” e, in particolare, alla valutazione o, più in generale, alla palingenesi del sistema universitario.

E’ in effetti accaduto anche a molti analisti di Roars, di non essere né creduti né ascoltati quando si rilevavano i limiti intrinseci delle regole per le ASN e non solo di quelle.

Se è per quello, è accaduto anche al CUN che, nell’ottobre 2011, si pronunciò molto criticamente sui criteri e sui parametri per le valutazioni previste ai fini delle abilitazioni, presentando differenti proposte elaborate in dialogo con le comunità scientifiche, proposte che nessuno ritenne di prendere in considerazione peraltro, neppure per discuterle.

Il CUN fu altrettanto critico in merito alle procedure per la costituzione e per il funzionamento delle commissioni ASN, in occasione di un’Audizione al Senato, nel luglio 2011. Ma anche in quel caso, anziché essere ascoltato fu sin tacciato, da taluni nel dibattito parlamentare, di trovarsi in situazione di “conflitto d’interessi”, forse perché rappresenta in via elettiva la comunità accademica che quelle regole, allora in gestazione, volevano privare di molta parte della sua autonomia anche valutativa, quasi a porla “sotto tutela”.

E’ solo la complessità delle regole il problema delle ASN?

Non solo. La difficoltà annunciata era anche quella di scelte regolative con le quali si sono importate soluzioni estrapolate da modelli elaborati in altre esperienze e questa è una tentazione quasi irresistibile del nostro legislatore, ogni qualvolta “innova”. Ma quando ciò avviene senza che vi sia la consapevolezza della diversità dei contesti, determinata anche, benché non solo, dalle norme generali che reggono l’azione amministrativa, i rischi di “tenuta” di regole acriticamente importate o comunque decontestualizzate sono gli stessi che accompagnano il trapianto di un organo che il sistema riconosce non compatibile o estraneo.

Si aspetta qualche iniziativa dal Ministero?

Mi aspetterei che il Ministero dicesse intanto come e quando pensa di correggere la rotta, almeno del reclutamento. Sul se, ci sono già state dichiarazioni con le quali si è riconosciuta la necessità di introdurre modifiche. Anche per questo sarebbe importante che ora si dicesse “quando” si accenderanno i motori e quale direzione si seguirà. A tacer d’altro, è essenziale dare qualche indicazione ai tanti studiosi, anche giovani, che devono essere posti nella condizione di programmare l’accesso o la progressione nei ruoli della docenza e della ricerca universitaria e comunque di programmare anche il proprio futuro professionale per non dire la propria vita.

Il reclutamento è al momento un tema molto caldo, anche il CUN si è espresso in materia.

Il CUN si è espresso, formulando alcune proposte per la revisione delle procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale e lo fatto in risposta alle richieste dell’allora ministro Carrozza. Credo possano costituire un punto di partenza per iniziare a parlarne, valutando “che fare”. Alcune misure si risolvono in correttivi di impatto contenuto, agevoli da recepire in quanto non richiedono adeguamenti di contesto. Altre suppongono interventi di impatto maggiore che possono sollecitare confronti e riflessioni più estese sia con le sedi legislative e governative, sia con le comunità accademiche e scientifiche.

Ma quanto tempo occorrerebbe per correggere il sistema delle Abilitazioni?

Nessun correttivo potrà essere operativo in tempi brevi. Anche quelli più semplici rendono necessario intervenire su tutta la filiera regolatoria e dunque su una sequenza di provvedimenti normativi e di atti amministrativi la cui modifica richiede numerosi passaggi procedimentali.

Perciò, se si intende correggere la “rotta”, occorre avviare il percorso quanto prima, per non bloccare troppo a lungo le procedure per il reclutamento. Vi è infatti urgente necessità di disporre di nuove risorse umane e anche su questo il CUN si è pronunciato di recente. Dunque, se non si può restare senza programmare anche finanziariamente il reclutamento, non si può neppure restare senza le regole in base alle quali reclutare e far progredire nella carriera gli studiosi.

Crede che – a parte il reclutamento – ci siano altre urgenze sulle quali sarebbe meritevole accendere un faro?

Vedrei tre priorità, fra loro interdipendenti.

Assicurare la “qualità della regolazione” del settore. Occorre semplificare e riordinare il quadro normativo, superando le tante aporie, discrasie e le tante incertezze interpretative proposte dal groviglio di norme con il quale ci stiamo confrontando. Da tempo il CUN ha sollecitato la redazione di un codice o testo unico che assicuri il coordinamento di tutte le disposizioni vigenti. Un adempimento che richiede la disponibilità a impegnarsi in un’azione lunga e anche oscura, dal punto di vista dell’immediata visibilità politica, ma indispensabile per il buon funzionamento di tutti i sistemi, come peraltro riconosce il nostro stesso legislatore.

Occorre ricostruire i processi decisionali di governo del settore, chiarendo i ruoli e le responsabilità dei diversi soggetti. E a questo fine è necessario, fra l’altro, restituire alla comunità accademica e scientifica la possibilità di partecipare alle decisioni per il governo di un sistema che è fatto di tante autonomie: quella istituzionale dei singoli Atenei, ma anche quella della ricerca e della didattica che devono continuare a vivere in un reciproco e virtuoso bilanciamento.

Occorre ridefinire la funzione di valutazione perché possa diventare quanto dovrebbe essere, ossia strumento volto a procurare alle Autorità di governo elementi conoscitivi e valutativi per decidere, senza che ad essa sia dato occupare gli spazi che devono essere delle decisioni politiche. E anche per questo servono interventi normativi e amministrativi, non solo dichiarazioni.

Il sistema di valutazione imperniato su ANVUR, infatti, ha suscitato vivaci polemiche. Come giudica le procedure di accreditamento dei dottorati?

Sono l’ultima, nel senso di più recente, espressione di quella iper-regolazione di cui la valutazione, lasciata a sé stessa, è diventata fonte. Una valutazione che è andata anche assumendo le caratteristiche di un controllo, ossia di un’altra funzione. Sicuramente, occorreva una razionalizzazione del sistema dei dottorati, ma la razionalizzazione non può trasformarsi in complicazione né può generare la massa di oneri informativi che si annunciano, anche e solo per ottenere l’accreditamento dei corsi. Dubito che tutto ciò possa condurre a un’incentivazione della qualità ed efficienza o a una valorizzazione dei dottorati. Almeno, tutte le esperienze e le consapevolezze internazionali sulle tecniche di regolazione dicono esattamente il contrario. Ma anche qui, occorre un intervento normativo che corregga la rotta.

Il CUN riesce e come a esercitare un proprio ruolo?

Il CUN continua a esprimere un importante ed efficace rapporto con le comunità scientifiche, dalle quali è eletto, ricevendone costanti stimoli e indicazioni che porta a sintesi nel confronto fra tutte le aree disciplinari nelle quali si articola la ricerca accademica: un raccordo orizzontale come vogliono le autonomie che rappresentiamo. Egualmente importante è il contributo che vi apportano le altre componenti della comunità accademica che vi trovano rappresentanza.

Ma è alle comunità scientifiche che offre la sola sede capace di garantire loro una rappresentanza istituzionale. Purtroppo, il CUN è stato dimenticato dalla riforma. E’ rimasto privo di quegli adeguamenti, anche in termini di competenze e attribuzioni, necessari a consentirgli di dialogare con le nuove esigenze del sistema e di partecipare, con un ruolo definito e garantito, ai processi decisionali.

Quanto alle politiche di governo del sistema, il ruolo del CUN dipende perciò dai ministri che si succedono, dalla loro disponibilità e dal loro interesse ad avvalersi del contributo dell’organo che istituzionalmente rappresenta le comunità e, anche qui, i continui mutamenti dell’interlocutore politico non aiutano: ogni volta ci si incontra e si riavvia la conoscenza.

Quali sarebbero le utilità di un confronto con le comunità scientifiche e con chi le rappresenta? Vi è chi ritiene che questo bloccherebbe la possibilità di modifiche effettive, per le resistenze opposte dai diretti interessati.

In realtà, è ormai acquisito, in tutti gli ordinamenti, che una “buona regolazione” richiede vi sia anche piena consapevolezza dei possibili effetti che produrrà sui destinatari. Perché ciò accada ogni progettazione di regole deve essere accompagnata dalla consultazione dei soggetti coinvolti, per comprenderne le esigenze effettive e dare ad esse le giuste risposte.

Pertanto è anche non riconoscendo alle comunità scientifiche la possibilità di parlare istituzionalmente, e non solo casualmente, con “chi decide” che s’indeboliscono le decisioni, specie quelle che sfociano in regole che nascono perciò deboli se assunte senza le informazioni e le consapevolezze che si possono trarre dal coinvolgimento dei destinatari.

Vorrei aggiungere che in tal modo però non si deroga soltanto alle pratiche della “buona regolazione”, ma si arreca anche un vulnus all’autonomia che, ricordiamolo, è un valore riconosciuto dalla Costituzione per il rafforzamento dei sistemi complessi.

Ripartire dall’autonomia universitaria dunque?

Suggerirei di continuare a considerare l’autonomia come un valore funzionale al rafforzamento e al governo del sistema universitario, dotandola di tutti gli strumenti, anche rappresentativi, che le consentano di vivere e di affermarsi responsabilmente.

L’autonomia universitaria e, in particolare quella scientifica, non è, come alcuni tendono a ritenere, strumento per l’affermazione di interessi corporativi. Al contrario, come insegnano anche le esperienze di regolazione del mercato, è quando ci si allontana dal confronto con tutti gli interessi, in questo caso espressi dalle tante autonomie universitarie e dalle sedi di loro rappresentanza, che si favoriscono scelte settoriali o particolari, frutto del dialogo che “chi decide” intrattiene solo con alcuni interessi, vale a dire con quelli che riescono ad avvicinarsi di più al decisore politico.

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"Dai musei romani all’archivio centrale la beffa dello Stato che affitta a se stesso", di Francesco Erbani

È un paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale. È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese. Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo.
Un pezzo dello Stato, uno dei più immiseriti, si svena per rimpinguare un altro pezzo dello Stato, appartenente quasi interamente al ministero di Pier Carlo Padoan. La vicenda romana è la più eclatante. Ma non è la sola nel dissestato panorama dei nostri beni culturali. Dal 2008, quando aveva già subito tagli mortificanti dal governo Berlusconi, il ministero di Dario Franceschini si trova oggi con un budget ridotto quasi del 30 per cento (da 2 miliardi a 1 miliardo e mezzo: dallo 0,28 per cento del bilancio dello Stato allo 0,19). E nonostante questo paga ogni anno 21 milioni soltanto per affittare le sedi di alcuni dei suoi 100 Archivi. Dove è collocato un materiale che si alimenta costantemente e che potrebbe crescere ancora se si attuerà il proposito di Matteo Renzi di depositare le carte secretate negli ultimi decenni.
L’Archivio centrale dello Stato paga all’Eur 4 milioni e mezzo. Il Museo dell’età preistorica Luigi Pigorini
3 milioni 600 mila. Il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila. Il Museo dell’Alto Medioevo, a rischio chiusura, 370 mila. Paradosso nel paradosso, i soldi vanno dal ministero per i Beni culturali all’Eur s.p.a. per «la realizzazione di grandi progetti di sviluppo immobiliare e valorizzazione urbanistica», come si legge negli obiettivi della società presieduta da Pierluigi Borghini, ex candidato sindaco del centrodestra, una società che esercita una specie di governatorato su un intero quartiere di Roma e che con soldi pubblici agisce come un operatore privato. Basti ricordare la vicenda del Velodromo, l’opera di Cesare Ligini fatta esplodere con la dinamite per realizzarci torri e palazzine, oppure il progetto di un faraonico acquario con galleria commerciale (entrambe le iniziative furono avviate con Veltroni sindaco). O, ancora, l’idea di un Gran Premio di Formula 1, con i bolidi che avrebbero sfrecciato fra i metafisici edifici di travertino bianco. L’idea, poi decaduta, era caldeggiata da Alemanno e dal suo uomo di fiducia Riccardo Mancini, ex militante di gruppi neofascisti, fino alla primavera del 2013 amministratore delegato dell’Eur (dove ha assunto molti “camerati”), poi finito in galera per tangenti.
La condizione dell’Archivio centrale è esemplare. I 4 milioni e mezzo (3.575.287,96 euro più Iva) gravano su una struttura in preoccupante disagio, con personale sempre più ridotto, avanti nell’età e che fa salti mortali per garantire un servizio essenziale. I depositi sono affetti da umidità e lo spazio è carente. A differenza di un museo, l’Archivio non stacca biglietti e l’unica fonte dalla quale recupera un po’ di quattrini sono le fotocopie. Lo scorso capodanno un migliaio di ragazzi si sono scatenati nei saloni dell’edificio al ritmo della elettro-house. Questo in virtù di una convenzione con una società, la Let’s go che, a pagamento, ha preso in gestione vasti spazi e ha organizzato iniziative che si fa fatica a conciliare con un Archivio: un paio di appuntamenti dell’allora Pdl o una mostra della Range Rover. Si sono sollevate molte proteste. E faceva tristezza vedere fino a che punto si è costretti a snaturare un patrimonio culturale pur di sopravvivere.
La storia si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di “concessione in uso”, in attesa che l’Eur fosse liquidato e il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Il canone era di 62 milioni di lire, poi salito a 200 nel 1987, quando si trasformò in affitto a prezzi di mercato. L’effetto fu lo stratosferico innalzamento a 4 miliardi e 200 milioni. Nel 2000 l’Eur, invece di essere liquidato, in epoca di ubriacatura da privatizzazioni venne trasformato in s.p.a.. Ed eccoci arrivati ai 4 milioni e mezzo di oggi. Che erano oltre 5 milioni fino all’anno scorso, poi ridotti del 15 per cento dalla spending review di Monti.
Sul cosa fare ci si interroga da anni. Un’ipotesi è il trasferimento sia dell’Archivio, sia dei musei: operazione costosa. Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione. Ma per questo è necessaria un’iniziativa politica. E poi, di questi tempi, demanializzare sembra una cattiva parola.

La Repubblica 29.04.14

"Gli stipendi e il mercato", di Michele Ainis

Il nostro premier ha bisogno d’un ombrello. In questi giorni gli stanno piovendo sulla testa scomuniche e anatemi, è a rischio di bernoccolo. Mittenti: manager pubblici, vertici militari, alti magistrati, authority . La crema dello Stato, cui il decreto Irpef ha ridotto gli stipendi: adesso il tetto è 240 mila euro, pari all’indennità del presidente della Repubblica. E vale per tutti, senza eccezioni. Ma l’eccezione è quel decreto: l’unico precedente risale a Mussolini, che nel maggio 1927 tagliò del 10% le retribuzioni dei dipendenti pubblici. Tuttavia quella volta ci andarono di mezzo i soldatini, stavolta i generali.
D’altronde, in tempi di vacche magre, nessuno accetta il pascolo d’alcune vacche grasse. E semmai resta da chiedersi come sia potuto accadere, quale demone sindacale abbia permesso (per esempio) che il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica percepisse 460 mila euro, dieci volte rispetto al ministro della Difesa (che è il suo diretto superiore), il doppio rispetto al capo dello Stato (che ha il comando delle Forze armate). Avevamo perso la misura, insieme alla decenza. Viceversa nel 1985 Sandro Pertini rifiutò un aumento di 100 milioni, stabilito dal governo Craxi. Altri tempi, altre tempre.
Piuttosto, un nodo problematico riguarda i magistrati. Per una ragione di principio, non di portafoglio. Se il governo può sforbiciarne gli stipendi, significa che può anche minacciarli di ulteriori sforbiciate, ledendone così l’indi-pendenza, esponendoli a ritorsioni per questo o quel verdetto. Non a caso la Costituzione americana (articolo III, sezione 1) vieta di diminuire il trattamento economico dei giudici, finché restano in carica. Nei loro confronti, così come nei confronti delle authority di garanzia, sarebbe stato meglio applicare la decurtazione ai nuovi arrivati, non ai vecchi. Per non creare un cattivo precedente, sia pure animato dalle migliori intenzioni.
Ma dopotutto questo non è che un dettaglio. Il tema generale è l’eguaglianza: quale, quanta, per chi, come. Ed è un tema formidabile, nel Paese più disuguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. In Italia l’1% della popolazione detiene il 10% del reddito nazionale; era il 7% nel 1980. Mentre la ricchezza di 10 miliardari equivale al patrimonio di 3 milioni d’italiani poveri. Ma nel settore privato valgono pur sempre (e meno male) le leggi di mercato. E infatti gli svizzeri, a novembre, hanno saggiamente bocciato un referendum sui limiti allo stipendio dei top manager : le multinazionali sarebbero fuggite in massa, procurando un impoverimento complessivo. Ma quando la partita si gioca fra le mura della cittadella pubblica?
Ecco, qui emergono gli effetti dirompenti di quest’ultimo decreto. Perché l’eguaglianza è come uno specchio: se lo rompi, andrà in mille frantumi. E nell’amministrazione pubblica non s’incontrano mai due mansioni identiche pagate nell’identica misura: se sei un dipendente regionale incassi più dei dipendenti comunali, e magari meno di chi ha una stanza al ministero. Per ricomporre i cocci, si può agire in due direzioni: ripristinando l’eguaglianza verso l’alto o verso il basso. Noi, fin qui, abbiamo sempre seguito la prima direzione. Una categoria strappa un benefit di Stato, le altre categorie seguono a ruota. Risultato? Conti in rosso, privilegi in nero.

Il Corriere della Sera 29.04.14