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"Il secondo Vladimiro il Grande", di Thomas L. Friedman

Talvolta la domanda più semplice svela la più grande verità. La settimana scorsa ho conosciuto qui a Kiev alcuni attivisti di piazza Maidan: ci siamo messi a parlare di come il presidente russo Vladimir Putin insiste che l’Ucraina fa parte della “sfera di influenza” tradizionale russa e della “zona cuscinetto” con l’Occidente, e di come di conseguenza America e Unione europea debbano tenersi alla larga. A un certo punto uno degli attivisti, il popolare giornalista ucraino Vitali Sych, ha esclamato: “Qualcuno ci ha mai chiesto se vogliamo far parte della sua
zona cuscinetto?”.
La domanda di Sych va dritta al cuore di quanto sta accadendo qui. È semplice: la maggioranza degli ucraini è andata in collera per il gioco impostole, servire da attori secondari nella zona di influenza di Putin, così che la Russia possa continuare a sentirsi una grande potenza, essendo oltretutto costretti a tollerare a Kiev un regime filorusso corrotto oltre ogni dire. Dopo una rivoluzione partita dal basso a Maidan, la piazza centrale di Kiev, costata più di cento vittime (“I Cento Celesti” li chiamano da queste parti), gli ucraini stanno rivendicando la loro sfera di influenza, il desiderio di far parte dell’Ue.
Così facendo, però, lanciano una sfida profondamente filosofica e politica alla Russia di Putin — e così pure alla Ue e all’America. In che modo? Se Putin dovesse perdere e l’Ucraina conquistasse la sua libertà ed entrasse nella Ue, Kiev minaccerebbe il cuore identitario stesso della Russia che Putin ha costruito e intende espandere — una Russia tradizionale, nella quale lo stato domina l’individuo, nella quale la gloria della Madre Russia deriva dai territori che possiede, dal petrolio e dal gas che estrae, dai paesi vicini sui quali esercita il controllo, dal numero di missili che ha e dal ruolo geopolitico che riveste nel mondo — non dal fatto di conferire potere al suo popolo e di coltivarne i talenti.
Se Putin dovesse vincere e impedisse all’Ucraina di indire elezioni libere e giuste il 25 maggio, la sua nociva influenza sui paesi vicini non farebbe che aumentare. Si vedrebbero allora molti altri episodi come quello al quale abbiamo assistito la settimana scorsa, quando Joe Kaeser, amministratore delegato di Siemens, il colosso ingegneristico tedesco, si è recato a Mosca per sbavare davanti a Putin e rassicurarlo che tutti i loro accordi continueranno a essere validi, malgrado quelli che Kaesar ha definito “tempi politicamente difficili”. (Questo è tedesco, per dire che Putin impedisce agli ucraini quell’adesione alla Ue di cui i tedeschi già godono.) È veramente impossibile passeggiare per le strade di acciottolato di piazza Santa Sofia a Kiev o visitare l’omonima magnifica chiesa dell’XI secolo con le cupole a bulbo senza comprendere fino a che punto Russia e Ucraina si siano reciprocamente influenzate nel corso dei secoli. E oggi non sarà tanto diverso. Il primo stato “Rus” unificato nacque a Kiev, quando “San Vladimiro il Grande, Gran Principe di Kiev” unì tutte le tribù e i territori della regione in un’entità denominata dagli storici “Rus di Kiev”. San Vladimiro fece inoltre del cristianesimo ortodosso la religione ufficiale.
Se ora torniamo a razzo ai giorni nostri, a mille anni e più di distanza da allora, ci troviamo un altro “Vladimiro il Grande” — Putin — che ammassa le truppe al confine con l’Ucraina per riaffermare l’influenza della Russia in questo territorio. Poco tempo fa Putin ha lasciato intendere che potrebbe essere giunto il momento per lui di reclamare la “Novorossiya”, o Nuova Russia, una zona situata nel sudest dell’Ucraina e così denominata dagli zar nel XIX secolo quando faceva parte della Russia.
Quanto Putin parla di Nuova Russia, dunque, di fatto egli intende la Vecchia Russia, una Russia che era solita dominare l’Ucraina. Egli vuole impedire che si affermi una Nuova Ucraina in grado di influenzare ancora una volta la Russia odierna con le sue nuove idee. Solo che questa volta si tratta di idee liberali. “Questa è diventata per tutti una battaglia esistenziale” ha spiegato Pavlo Sheremeta, il nuovo ministro ucraino dell’Economia, che ha aggiunto che i suoi amici russi liberali gli telefonano per pregarlo di resistere, di non tradirli. Di non lasciare che Putin annienti il modello al quale l’Ucraina sta cercando di dare vita. In caso contrario, la Russia non cambierà mai. “Sul lungo periodo, il successo della Russia dipende da come saprà essere competitiva nel XXI secolo. Ma non si compete soltanto con il petrolio e i carri armati e facendo i dispotici con gli altri” ha aggiunto Sheremeta. Tutto ciò
può farti sentire forte “sul momento, ma si tratta soltanto di una sostanza stupefacente. Il successo finale dell’Ucraina può essere la riprova che la democrazia, la legalità e i diritti umani sono la ricetta migliore per lo sviluppo sostenibile — non la droga che Putin sta propinando al suo popolo”.
Nataliya Popovych, un’imprenditrice e un’attivista della società civile a Kiev, ha detto che gli ucraini hanno tratto un insegnamento dalla loro Rivoluzione Arancione del 2004, quando si sbarazzarono del vecchio ordine ma si limitarono a consegnare ogni cosa nelle mani di un nuovo gruppo di politici corrotti. Questa volta la rivoluzione di piazza Maidan ha dato vita a tutta una rete di gruppi della società civile che fungono da agenti di controllo di ogni ministero e che si stanno adoperando per garantire lo svolgimento di elezioni presidenziali oneste.
Tuttavia, non sarà così facile. L’Ucraina è un luogo complicato. La corruzione, le élite calcolatrici e la brutalità della polizia che si ritrova stanno a indicare che ci sono moltissimi nemici che si oppongono ai rivoluzionari di piazza Maidan. Gli interventi di Putin, tuttavia, rendono la battaglia per un futuro più decente qui a Kiev e all’interno dell’Europa quanto mai più difficile.
“I Cento Celesti sono morti per i diritti umani e per i valori europei” mi ha detto Popovych. Ma perché questi valori si consolidino in Ucraina in una nuova politica, questo nuovo Stato privo di esperienza “dovrà sopravvivere”, e perché ciò accada è indispensabile che Ue e America l’aiutino e lo difendano. “Ci piacerebbe che tutto ciò riguardasse esclusivamente noi” ha detto ancora. “Ma quella in corso è una battaglia di civiltà. E noi ci siamo capitati in mezzo”.
Traduzione di Anna Bissanti © 2-014 New York Times News Service

La Repubblica 29.04.14

"Scatti, la trattativa è ai blocchi", di Antimo Di Geronimo

Sindacati ai blocchi di partenza in vista dell’apertura delle trattative all’Aran, per la reintegrazione dell’utilità del 2012 ai fini dei gradoni. É prevista entro questa settimana la firma dell’atto di indirizzo da inviare all’Aran che darà il via alla tornata negoziale salvascatti.
Lo ha fatto sapere il ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, nel corso di un incontro con i sindacati della scuola, che si è svolto a viale Trastevere nei giorni scorsi. Sembra volgere al termine, dunque, l’annosa querelle sul recupero dell’utilità del 2012 ai fini dei gradoni. Che aveva visto , a causa dei ritardi, Cisl scuola, Uil scuola, Snals-Conflsal e Gilda pronti alla mobilitazione.

Un recupero che comporterà la restituzione, ai docenti e al personale Ata, del diritto di avvalersi anche dell’anno 2012 ai fini della maturazione degli scatti di anzianità. Che vale mediamente 1000 euro. A tanto ammonta, infatti, la perdita dell’utilità di un anno nella maturazione della progressione di carriera. Che secondo il contratto, dovrebbe essere articolate in 5 scatti, i cui termini dovrebbero scadere, rispettivamente, in coincidenza della maturazione dell’8°, del 15esimo, del 21esimo, del 28esimo e del 35esimo anno di servizio. E che adesso invece è spostato di due anni in avanti. Perché ai 3 anni di ritardo disposti dal governo Berlusconi (due dei quali sono stati già recuperati) si è aggiunto un ulteriore anno di ritardo disposto dal governo Letta.

Il passaggio al tavolo negoziale si è reso necessario perché l’art. 9, comma 23, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 ha disposto: «Per il personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata) della scuola, gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti». L’intenzione del legislatore, infatti, era quella di introdurre un ritardo di tre anni nella maturazione degli scatti di anzianità. E ciò avrebbe comportato, a regime, una perdita secca di circa 1000 euro per ognuno degli anni del triennio, sia nella retribuzione che nella pensione. Con ulteriori decurtazioni della buonuscita.

Gli effetti delle nuove disposizioni, però, sono stati mitigati da un successivo intervento legislativo, che ha ripristinato il recupero del 2010. Il tutto mediante l’utilizzo dei fondi inizialmente accantonati per finanziare il cosiddetto merito. E cioè l’introduzione di articolazioni gerarchiche della funzione docente da retribuire tramite la corresponsione dei compensi accessori. Fondi derivanti dal taglio di circa 135mila posti di lavoro nella scuola, disposti tramite il piano programmatico dell’art.64 della legge 133/2008. Il ritardo, dunque, era già stato ridotto di un anno, grazie al recupero dell’utilità del 2010.

Per il recupero del 2011, però, i soldi del merito sono risultati insufficienti. Anche perché buona parte delle disponibilità sono state utilizzate dal governo per retribuire i docenti di sostegno, autorizzati in deroga alle riduzioni di organico.

Quindi, per trovare i fondi che mancavano, governo e sindacati si sono messi intorno a un tavolo e, alla fine, hanno deciso di utilizzare una parte dei fondi previsti per finanziare lo straordinario dei docenti e degli Ata (la Cgil però non ha firmato l’accordo). In ciò utilizzando il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof). Lo stesso criterio sarà utilizzato per finanziare il recupero del 2012. Contingenza che non piace alla Flc-Cgil.

Resta il fatto, però che il recupero dell’utilità del 2012 non determinerà il ripristino dei termini di maturazione dei gradoni previsti dal contratto. Il decreto del presidente della repubblica 122/2013 all’articolo 1, comma 1, lettera b), dispone, infatti, la cancellazione dell’utilità del 2013 ai fini dei gradoni, prorogando di un anno le disposizioni contenute nell’articolo 9, comma 23, del decreto legge 78/2010 (la norma che ha cancellato l’utilità del 2010 del 2011 e del 2012 ai fini dei gradoni.) E quindi, dopo il recupero del 2012 rimarrà comunqe un ritardo di un anno derivante dalla cancellazione dell’utilità del 2013.

da ItaliaOggi 29.04.14

"La banana antirazzista", di Maurizio Crosetti

Il terzino del Barcellona Dani Alves ne ha raccolta una lanciata dagli spalti per insultarlo. L’ha mangiata e la sua squadra ha vinto in rimonta. Ora quello sberleffo ai “buuu” dei tifosi è diventato un simbolo. E una campagna sul web con lo slogan “siamo tutti scimmie”. Siccome l’ironia e l’intelligenza sono più contagiose della stupidità, adesso tutti mangiano banane. E con le banane si fanno fotografare: è il selfie della banana, ultimo grido contro il razzismo. Nel mondo del calcio e non solo, oggi si sta tutti dalla parte del brasiliano Dani Alves del Barcellona, il più forte terzino destro del mondo, al quale un incauto imbecille e tifoso del Villarreal (identificato ed espulso a vita) ha tirato una banana prima che Dani calciasse un corner. Ma lui, grandissimo, invece di indignarsi o andare dall’arbitro piagnucolando, ha raccolto il frutto, l’ha sbucciato e se l’è mangiato, tirando il calcio d’angolo mentre ancora masticava. (Per la cronaca, e siccome le banane contengono potassio, il Barcellona che in quel momento era in svantaggio per 2-1 ha poi vinto 3-2).
Nella stagione del razzismo da stadio più becero, dei cori contro Napoli e a favore del Vesuvio, delle curve chiuse per punizione (inutile) e dei “buuu” contro i calciatori di colore, a tutte le latitudini e in tutte le categorie, campionati giovanili compresi, il gesto di Dani Alves rappresenta una specie di rivoluzione culturale. Il sorriso in risposta ai denti digrignati, lo sberleffo invece dello schiaffo. Potrebbe fare scuola, giudicando le reazioni planetarie che ha suscitato. In Brasile, la terra di Dani Alves, quella banana diventa il manifesto dei prossimi mondiali. L’ha detto persino la presidente Dilma Rousseff: «Mostreremo a tutti che la nostra forza, nel calcio come nella vita, è legata a una diversità etnica di
cui siamo orgogliosi».
La reazione a catena, grazie all’immediata potenza del web, è enorme. Molti colleghi di Dani Alves si sono fotografati con l’ormai simbolica banana, di cui Andy Warhol sarebbe fiero: Aguero, Fred, Mertens, Hulk, Willian, Oscar, David Luiz, la campionessa Marta, l’altro brasiliano Neymar che ha pure lanciato l’hashtag #somostodosmacacos, siamo tutti scimmie. A occhio, una mobilitazione simile potrebbe essere più efficace di qualunque sanzione, e forse di qualche moralismo un po’ troppo serioso. Anche se c’è chi, come Mario Balotelli, che in questi anni ha ricevuto da molte curve avversarie il coro “Non ci sono negri italiani”, ritiene sia più giusto glissare: «Contro certa gente, l’unica risposta è l’indifferenza». «Ma ai mondiali ci sarà tolleranza zero, i razzisti non s’illudano», proclama Sepp Blatter, presidente Fifa e gran capo del calcio.
«Vivo in Spagna da undici anni e non è cambiato nulla», spiega adesso Dani Alves, forse inconsapevole – nel momento dello spuntino – del gesto clamoroso, di inaudita forza di rottura. «A che serve fare drammi? Meglio ridere di questi ritardati, e comunque la banana mi ha dato una bella sferzata di energia ». Di sicuro, l’ha data al mondo dello sport. Il citì azzurro Prandelli si è fatto fotografare insieme a Matteo Renzi e all’emblematico frutto, Cécile Kyenge si complimenta: «Quel ragazzo è stato bravissimo, bisogna sempre battersi contro il razzismo con eleganza e fantasia ».
L’ex campione brasiliano Roberto Carlos ha scelto Twitter, ricordando quando la banana la tirarono a lui: accadde in uno stadio russo. E il portale brasiliano Globesporte ha capito il peso del collegamento tra quella banana e la prossima coppa del mondo: «Qui non ci sono bianchi, neri, gialli, ma abbiamo tutti il dovere di essere dello stesso colore. L’intolleranza fa più danni della corruzione. Comunque, oggi siamo tutti scuri di pelle, con gli occhi luminosi e i capelli ricci», cioè l’identikit di Dani Alves. «Un ragazzo fantastico, allegro», racconta il suo vecchio allenatore Pep Guardiola. «Il razzismo nel calcio è un problema culturale, in parte ne siamo tutti un po’ responsabili».
Le radici della vergogna sono gramigna. Tra i primi a subirla, nel nostro calcio, il peruviano Uribe, che in un lontanissimo Verona-Cagliari (1982) ricevette una banana dalla curva sud dei veneti. Ne sa qualcosa anche Clarence Seedorf, attuale allenatore del Milan, che quando giocava nell’Inter venne insultato dai tifosi laziali in una finale di Supercoppa. L’ex rossonero Kevin Prince Boateng lasciò invece il campo della Pro Patria, a Busto Arsizio, dopo avere patito cori razzisti in un’innocua amichevole di metà settimana: calciò il pallone contro gli spalti e se ne andò. Non solo dal campo: oggi gioca in Germania, a Gelsenkirchen, senza rimpianti. «L’errore più grave, con il razzismo, è ignorarlo», dice. «Perché è come un’infezione per la quale non esistono antibiotici, bisogna andare alla fonte e combatterla».
Lo sport spesso aiuta a non sentirsi soli. Come quando il diciottenne nigeriano Akeem Omolade, attaccante del Treviso (serie C1) dileggiato dai propri ultrà neonazisti vide tutti i suoi compagni entrare in campo, la domenica successiva, con i volti dipinti di scuro. Però non è facile prenderla così. L’ivoriano Zoro, del Messina, insultato da alcuni ultrà interisti si mise a piangere, e solo l’intervento di Adriano lo convinse a non abbandonare la partita. «Il calcio è lo sport più popolare al mondo e riflette la società in cui fiorisce, i suoi valori, la sua passione, ma sfortunatamente anche i suoi pregiudizi e le sue paure»: è il pensiero di Michel Platini, oggi presidente dell’Uefa, colui che ha preteso che sulle magliette di Coppa i giocatori portino la scritta “respect”.
«In Europa, molti considerano noi africani come animali, e non parlo solo di calcio», afferma l’ivoriano Yayà Toure, statuario centrocampista del Manchester City. Forse non solo in Europa, se il patròn dei Los Angeles Clippers (qui si parla di basket), Donald Sterling, ha appena detto: «Non voglio neri alle mie partite», scatenando addirittura la reazione di Obama («Incredibile, ci tocca ancora lottare contro i residui dello schiavismo») e l’impeccabile, conciso commento di Michael Jordan: «Disgustoso».
«Nessuno può capire il dolore di essere chiamato scimmia», racconta invece Lilian Thuram, ex campione francese di Parma e Juventus, da sempre impegnato contro il razzismo e autore di un libro molto bello, “Le mie stelle nere” (Add editore). «Neri non si nasce ma si diventa, per colpa degli sguardi degli altri. A me accadde quando arrivai in Francia a nove anni. La banana e gli ululati sono pura violenza, è un problema culturale e allora bisogna ripartire dai bambini. Il razzismo nel mondo occidentale esiste eccome ».
Perché oggi abbiamo tutti un cuore nero, come ha detto la conduttrice televisiva spagnola Marilò Montero, naturalmente mangiando una banana in diretta: «E poi, siamo noi bianchi ad essere di colore: pensate a quando ci viene l’itterizia e diventiamo gialli, oppure quando ci facciamo rossi per la vergogna». Eccolo, l’unico modo sensato che avrebbero i razzisti per diventare, pure loro, di colore.

La Repubblica 29.04.14

"Il Ppe e l’amico imbarazzante", di Paolo Soldini

Forse non sapremo mai che cosa è successo tra Roma, Bruxelles e Berlino nelle 48 ore che sono trascorse tra la disastrosa sparata di Berlusconi sui tedeschi «per i quali i campi di concentramento non ci sono mai stati» e le durissime con- danne arrivate ieri prima da Juncker e poi dal portavoce di Merkel. Eppure sarebbe interessante saperlo perché quel che è accaduto tra il Ppe e l’ancora leader di FI nelle ultime ore potrebbe aiutarci molto a capire che cosa sta maturando nel seno del più grande partito del continente a pochi giorni dalle Europee.

Vediamo la sequenza dei fatti. L’ex cavaliere si produce nelle sue scempiaggini alla presentazione dei candidati di Forza Italia sabato pomeriggio a Milano. Immediate le forti reazioni di tutti gli esponenti dei partiti europei, sinistre radicali, socialisti e democratici, liberali e Verdi, con l’unica eccezione del Ppe. Nonostante le sollecitazioni che vengono da ogni parte, e nonostante l’evidentissimo disagio dei pochi popolari che non riescono a sfuggire ai cronisti nonché le voci di una fortissima irritazione alla cancelleria di Berlino, i dirigenti del partito popolare tacciono fino alla tarda mattinata di ieri, quando arriva la pesante reprimenda di Juncker accompagnata da una ultimativa sollecitazione a Berlusconi perché chieda scusa. Passano pochi minuti e anche la rabbia di Frau Merkel viene resa pubblica con una dichiarazione del portavoce Steffen Seibert.
Come si spiegano prima il silenzio e poi la sua clamorosa rottura? Prima ipotesi. Il Ppe all’inizio ha cercato di ingoiare l’indigestissimo rospo cucinato da Berlusconi per una ragione di calcolo elettorale: non si può permettere di rompere con Forza Italia dei cui voti ha un disperato bisogno visto che i sondaggi fanno prevedere un incertissimo testa-a-testa con i socialisti. In gioco non è soltanto il primato dei voti, ma anche, e soprattutto, la possibilità di piazzare il proprio candidato Jean-Claude Juncker in testa alle candidature per la presidenza della Commissione. D’altra parte, in nome di simili calcoli di bottega, il Ppe in passato ha soprasseduto parecchie volte a una resa dei conti con Berlusconi, anche quando l’indecenza politica dell’italiano si era spinta tanto oltre da far apparire inevitabile (e imminente) la sua cacciata dalla famiglia popolare. Come quando aveva messo in dubbio esplicitamente l’euro o sostenuto in tv la teoria del complotto messo in piedi dalle banche tedesche per pompare lo spread e farlo cadere con la complicità di Napolitano. E anche quando alla guida del gruppo parlamentare e poi (dopo la morte di Wilfried Martens nel novembre scorso) alla presidenza del Ppe era arrivato il francese Joseph Daul che, se fosse stato per lui, l’avrebbe espulso seduta stante. La stessa pazienza, peraltro, i responsabili del Ppe hanno dimostrato con un altro esagitato critico-critico dell’Europa: l’ungherese Viktor Orbàn. Il quale però ha avuto sempre l’accortezza di non inimicarsi i tedeschi.

Ma se il problema era quello di conservarsi i voti di Forza Italia, che cosa è accaduto allora che ha fatto cambiare idea a Juncker e a Frau Merkel? È possibile che i dirigenti popolari si siano fatti due calcoli e abbiano concluso che il partito di Berlusconi, in netto calo secondo tutti i sondaggi, italiani ed europei, non sia comunque in grado di mantenere una pattuglia di europarlamentari abbastanza consistente per assicurare il vantaggio sui socialisti. Oppure che abbiano ritenuto che il fatto di non reagire alla volgare provocazione su un tema così delicato sarebbe stato controproducente perché avrebbe disgustato una parte degli elettori, specie quelli più legati ai valori cristiani e, va da sé, quelli tedeschi. Oppure tutte e due le cose. In ogni caso, possono aver pensato che prendere le distanze e tornare ad evocare l’ipotesi della cacciata del reprobo sia una buona mossa elettorale.
Ma c’è anche un’altra ipotesi, più nobile: che la durezza delle reazioni derivi da una questione di principio, che il candidato del Ppe alla guida della Commissione e la cancelliera hanno voluto ribadire di fronte all’opinione pubblica europea (ed italiana). Nella sua assoluta inconsapevolezza storica Berlusconi con la sua gaffe ha toccato una corda molto sensibile nella cultura del mondo germanico. Il tema dei conti da fare con il «passato che non passa» attraversa la coscienza pubblica della Germania e (forse un po’ meno) dell’Austria fin da quando, all’inizio degli anni ’60, con i processi agli aguzzini di Auschwitz si è aperto un confronto profondo, e spesso doloroso perché attraversava le generazioni e le famiglie, con i crimini del nazismo e le colpe di chi non poteva non sapere. Un confronto che merita rispetto e dal quale altre nazioni hanno solo da imparare. Anche l’Italia. Dire che i tedeschi negano l’esistenza dei Lager e della Shoah è, prima che un’offesa, una stupidaggine, smentita fra l’altro dalle tantissime testimonianze fisiche della memoria che chiunque può vedere nelle città della Germania. A cominciare da Berlino, dove Berlusconi si è recato spesso e dove, un tempo, cercava pure «un giudice».

L’Unità 29.04.14

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“Se questo è uno statista”, di Massimo Giannini

Se questo è un uomo di Stato. Ad ascoltare i deliri con i quali Silvio Berlusconi ha aperto la sua campagna elettorale, non si può trarre una conclusione diversa. Nessuno si faceva troppe illusioni: un Ventennio di autocrazia populista e di macelleria costituzionale parla per lui. Ma dopo l’assegnazione ai servizi sociali per la condanna al processo Mediaset ci si aspettava almeno una modica quantità di autocontrollo. Non un «ravvedimento », troppo generosamente auspicato dal tribunale di sorveglianza nelle motivazioni con le quali l’ex Cavaliere è stato «affidato» all’Istituto di Cesano Boscone. Ma almeno un po’ di misura, nell’apprezzare l’insostenibile leggerezza della pena finale (7 giorni di «assistenza» spalmati sui prossimi 11 mesi), rispetto alla comprensibile pesantezza della pena iniziale (4 anni di carcere). Invece no. Il senso dello Stato, il rispetto delle istituzioni, il principio di legalità: nulla di tutto questo appartiene alla cultura politica di Berlusconi.
L’ACCUSA ai tedeschi, secondo i quali «i lager non sono mai esistiti», è un insulto alla Storia, prima ancora che alla Germania. La frase, falsa e sconclusionata, è molto più che l’ennesimo «infortunio» di un gaffeur planetario. È invece uno scandalo diplomatico, che fa un danno enorme all’immagine dell’Italia, e non solo al capo di Forza Italia. Le reazioni indignate, che uniscono la Merkel e i rappresentanti di Ppe e Pse, confermano la gravità dell’incidente. E solo la malafede manipolatoria può spingere Berlusconi a replicare che si tratta dell’ennesima «trappola» ordita delle sinistre, e a ribadire la sua «profonda amicizia con il popolo ebraico». Qui in gioco non c’è un presunto «antisemitismo » berlusconiano, che nessuno ha denunciato. C’è invece l’assoluto cinismo del leader di una destra irrecuperabile, che per lucrare una miserabile rendita elettorale in vista del voto del 25 maggio non esita a inventare il solito «nemico esterno», cioè la Germania. A evocare il «non evocabile », cioè i lager. Ad accostare l’inaccostabile, cioè il Fiscal Compact con la Shoah. C’è dunque lo stesso nichilismo morale dell’ex premier di un governo impresentabile, che per difendersi dalle critiche dei socialisti europei dà del «kapò» a Martin Schultz.
L’accusa al presidente della Repubblica e ai magistrati, colpevole il primo di avergli negato la grazia e i secondi di averlo infangato con una «sentenza mostruosa», è un’offesa alla legalità, prima ancora che alla verità. Sono tristemente note, le spallate continue che lo «statista» di Arcore ha tentato di assestare al sistema dal 1994 ad oggi, tra leggi ad personam e intimidazioni ai pm, alla Consulta, al Quirinale. Ma non erano altrettanto note le rivelazioni fatte dallo stesso ex Cavaliere, che a «Piazza pulita» afferma impunemente di aver detto al Capo dello Stato «tu hai il dovere morale di darmi la grazia motu proprio». In questo «atto sedizioso» si racchiude, tutto intero, il berlusconismo. L’idea malsana che l’unzione popolare purifica da tutti i reati e da tutti i peccati. Che le istituzioni ne debbano solo prendere atto, compiendo di propria iniziativa il passo che il pregiudicato non vuole richiedere, perché questo equivarrebbe a riconoscere la sua responsabilità penale. Che la Costituzione, formale e materiale, si debba snaturare per questo, introiettando l’anomalia cesarista di un cittadino che si pretende diverso da tutti gli altri, dentro e fuori dalle aule di giustizia, e che pertanto va considerato «legibus solutus» per il passato, il presente e il futuro. Se la rivelazione berlusconiana è vera (e non c’è ragione di credere che non lo sia) bisogna ringraziare una volta di più Giorgio Napolitano, per non aver ceduto di un millimetro e non essersi prestato a questo scempio etico, giuridico e politico.
Quanto alla «sentenza mostruosa», in un Paese che perde troppo facilmente la memoria non finiremo mai di ricordare che la condanna dell’ex Cavaliere nasce dalla gravità del reato commesso, accertato senza alcun ragionevole dubbio nei tre gradi di giudizio: una frode fiscale da 7 milioni di euro, parte di una provvista in nero da 370 milioni di dollari con i quali il condannato pagava mazzette a magistrati, funzionari pubblici e parlamentari. Cosa ci sia di «mostruoso», nell’espiare un delitto così grave assistendo gli anziani per un pomeriggio a settimana, lo vede chiunque. Berlusconi è l’opposto che un «perseguitato». Pur essendo riconosciuto come «persona ancora socialmente pericolosa», ha beneficiato di uno «statuto speciale» che non limita la sua «agibilità politica» né preclude la sua campagna elettorale (cominciata infatti proprio con le armi distruttive dell’anti- europeismo e dell’anti-Stato).
Resta da chiedersi perché Berlusconi continui imperterrito a sparare sul Colle e sulle toghe, dal momento che la Sorveglianza gli ha concesso i servizi sociali purché si attenga alle «regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni » ed eviti le frasi «offensive» e di «spregio nei confronti dell’ordine giudiziario». La risposta può essere una sola: l’ex Cavaliere provoca, e forse spera che la magistratura sia costretta suo malgrado a dovergli revocare l’affidamento alla Sacra Famiglia, e a disporre gli arresti domiciliarsi. Sarebbe il famoso «finale da Caimano». Il pretesto definitivo per lanciarsi da «martire della libertà» nel fuoco della battaglia elettorale. La scelta estrema per cercare di risalire l’abisso dei consensi in fuga, per sottrarsi all’»abbraccio mortale» con Renzi e per recuperare posizioni su Grillo che il 26 maggio rischia di diventare almeno il più grande partito italiano dopo il Pd, pronto per l’eventuale ballottaggio previsto dall’Italicum. È questo, dunque, il grumo di rabbia sociale e politica con il quale il governo e il Pd renziano devono fare i conti nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Un gioco al massacro tra il populismo berlusconiano e il populismo grillino. Il terreno peggiore, per costruire e tenere in piedi il cantiere delle riforme.

La Repubblica 29.04.14

"La strategia è abbattere i muri", di Ivan Lo Bello

Laurearsi conviene. In Italia abbiamo ancora troppo pochi laureati. Non è vero che i laureati sono più disoccupati dei diplomati. Sono queste le tre più significative evidenze empiriche che emergono dalle più recenti ricerche dedicate ai laureati e in particolare dal primo Rapporto sullo stato dell’università e della ricerca in Italia realizzato dall’Anvur. Accanto a queste evidenze non bisogna mai dimenticare che negli ultimi anni è stato sottratto all’università italiana un miliardo di euro, mettendo a serio rischio la possibilità di offrire un servizio universitario di qualità.
Molti continuano a criticare la riforma del “3+2”, che ha evidenti limiti. Ma non c’è dubbio che oggi, grazie a questa riforma, si laurea il 30% in più degli immatricolati rispetto a dieci anni fa. Anche gli altri Paesi hanno fatto importanti passi avanti e quindi l’Italia continua a restare indietro: siamo il penultimo paese in Europa per numero di laureati. Senza un incremento dei finanziamenti, legato strettamente alla valutazione e alla premialità, il nostro Paese perderà strutturalmente capacità competitiva.
La valutazione diventa allora uno strumento di rilancio dell’università e di “rottura” dello status quo perché permette di collegare le policies alle performance degli atenei. In concreto significa premiare chi realizza effettivi miglioramenti.
Molti ritengono che la strategia della valutazione penalizzi il Sud e lasci indietro le università più deboli. Non è così: il finanziamento che arriva alle università del Sud è inferiore rispetto al Centro-Nord, ma se guardiamo i dati con attenzione scopriamo che la causa di questo squilibrio è da addebitare in prevalenza, più che ai minori finanziamenti statali, alle ridotte tasse universitarie. Nonostante che al Nord l’università costi di più, 25 giovani meridionali su 100 scelgono di “emigrare” per trovare condizioni di studio migliori. Chi resta al Sud invece, spesso abbandona già al primo anno di università.
Questa è la sfida da cogliere per rivedere le strategie e le politiche di attrazione delle università meridionali. E anche per mettere in sicurezza i bilanci e realizzare piani pluriennali di rientro rispetto ai deficit. Al Sud esistono, sia nella ricerca che nella didattica, significative punte d’eccellenza da cui partire per rilanciare l’università meridionale.
I risultati del Rapporto Anvur ci offrono informazioni preziose che non devono restare sulla carta. Occorre migliorare decisamente l’offerta didattica, sfoltire ulteriormente i corsi e tagliare i rami secchi. Puntare decisamente sulla gamba che manca, le lauree professionalizzanti (anche attraverso un bando nazionale sul modello di Campus One che valorizzi la collaborazione tra università e imprese). Nei Paesi più avanzati la formazione terziaria professionalizzante assorbe il 25% degli iscritti. Da noi è quasi inesistente. Lo stesso vale per i dottorati: ogni anno 12mila giovani laureati brillanti vincono borse di dottorato, ma solo 2mila all’anno, dopo una gavetta che può durare anche dieci anni, potranno aspirare a entrare nei ruoli accademici. Mentre nel mercato del lavoro è sostanzialmente assente una figura che in molti altri Paesi è davvero strategica per le imprese: il PhD. È urgente predisporre percorsi di formazione dei dottori di ricerca che li preparino anche alla carriera extra-accademica. Lo si può fare utilizzando il nuovo strumento del dottorato industriale, in stretto collegamento con le aziende.
Insomma, anche da noi l’università può e deve diventare un efficace volàno per far crescere il Pil. È fondamentale affrontare due temi per il futuro dei nostri ragazzi. In primo luogo, mettere in campo efficienti servizi di placement, anche nell’ambito del nuovo programma “Garanzia Giovani”, facendo del tema dell’occupabilità dei laureati un criterio premiale nel finanziamento delle università. La disoccupazione giovanile è imputabile per un buon 40% all’incapacità di realizzare un efficace sistema di transizione scuola-università-lavoro. In secondo luogo, è tempo di affrontare il deficit di orientamento che spinge molti ragazzi a scelte sbagliate. Ben il 10% degli iscritti all’università cambia facoltà dopo il primo anno. I nostri giovani stanno in panchina per 18 anni, si allenano a scuola e all’università, ma non entrano mai nel campo del lavoro. E senza aver mai lavorato si ha più paura di uscire dal sistema educativo. Non a caso, solo un terzo degli studenti è in corso nelle nostre università.
Le soluzioni che hanno successo sono note: più partnership con le imprese, più percorsi professionalizzanti, più apprendistati, più tesi di laurea in azienda. Chi si iscrive all’università deve essere accompagnato costantemente, altrimenti i tassi di abbandono aumenteranno ancora. Abbiamo poi necessità di guardare alla competitività dei nostri atenei e renderli più attrattivi verso studenti e docenti provenienti dai Paesi più avanzati. Non è più tollerabile che i ricercatori di Paesi evoluti, a causa delle complicazioni burocratiche dei visti, subiscano un trattamento da clandestini.
Il miglioramento dell’università è una responsabilità di tutti. Anche noi imprenditori dobbiamo fare di più: già molte imprese investono in modo significativo nelle università e riescono a valorizzare le competenze di laureati e dottori di ricerca. Ma non basta. Nei Paesi più evoluti il ceto imprenditoriale svolge un ruolo trainante per lo sviluppo universitario e la sua internazionalizzazione. Una più concreta collaborazione tra le imprese e gli atenei è certamente un asset fondamentale per la crescita e lo sviluppo.
Vicepresidente Confindustria Education

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La nuova sfida: studiare in azienda
Al via le alleanze fra atenei e imprese per l’alto apprendistato avviato dal decreto scuola
di Gianni Trovati
Nel panorama dei numeri che provano a misurare la febbre dell’università italiana, c’è un dato che campeggia: è quel «23%» scritto nel rapporto Anvur alla voce «studenti che abbandonano» i corsi prima di arrivare alla laurea. Messo accanto al 21,2% di studenti che rimangono iscritti, ma che in un anno non ottengono nemmeno una quota minima dei 60 «crediti formativi» previsti da ogni piano di studi, il dato fotografa un’ampia fetta di popolazione universitaria disorientata, che spesso abbandona gli studi e va a infittire quella disoccupazione giovanile raddoppiata negli ultimi sei anni.
Se questa è indubbiamente la malattia più grave della nostra università, non mancano però i possibili rimedi, e i laboratori in cui si stanno studiando vaccini in grado di invertire la tendenza e offrire nuove occasioni. Uno di questi vaccini è scritto dal novembre scorso nella legge di conversione del “decreto scuola” (legge 128/2013, articolo 14, commi 1-ter e 1-quater) e punta sulle alleanze fra università e imprese per realizzare «progetti formativi congiunti» durante i quali lo studente svolga «un adeguato periodo di formazione presso le aziende» e ottenga per questa via fino a 60 crediti. Tradotto, è il rilancio dell’alto apprendistato, che in Francia e Germania coinvolge decine di migliaia di giovani all’anno e in Italia si è fermato nel 2012 a quota 234 persone (142 nella sola Lombardia; si veda anche Il Sole 24 Ore del 9 aprile).
Il rilancio, naturalmente, non si costruisce in un giorno, perché per realizzarlo bisogna ripensare l’offerta formativa, intrecciare rapporti più strutturali e costanti con il mondo dell’impresa, e far conoscere uno strumento che fa a pugni con uno dei luoghi comuni più consolidati (e sbagliati) fra studenti e famiglie: quello per cui «prima si studia, poi si lavora».
Fra le imprese, ovviamente a partire da quelle grandi, l’interesse è elevato, e le ragioni sono evidenti. Per capirli basta dare uno sguardo, per esempio, alla Telecom: l’età media della popolazione aziendale è di 48 anni, l’80% è concentrato nella fascia di età 48-54 anni, una fascia di 30enni nel middle management è quasi assente e i tempi d’oro delle scuole aziendali, non solo in Telecom, sono finiti da un pezzo. Ovvio che in un quadro come questo bussare alle porte degli atenei sia un passaggio inevitabile, e infatti Telecom ha “sponsorizzato” master in più università, dai Politecnici di Milano e Torino alla Federico II di Napoli, e dottorati, e nei progetti 2015-2017 l’alto apprendistato in università può rivelarsi una pedina importante. Finmeccanica nei mesi scorsi ha fatto partire un maxi-progetto per l’inserimento di giovani nelle varie società del gruppo (si chiama «Mille giovani per Finmeccanica», ma l’obiettivo parla di 1.500 inserimenti) ed è stata inondata in tre mesi da quasi 57mila candidature, e 25mila sono state preselezionate per gli step successivi. Enel, che ha avviato un nuovo piano di apprendistato per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole superiori, sta collaborando con il Politecnico di Milano per la costruzione di percorsi di master condivisi. E le università?
«Partiamo da un dato – osserva Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano –: il primo obiettivo dell’università oggi è contribuire allo sviluppo occupazionale, e lo può fare fornendo formazione coerente con i bisogni del mondo produttivo, sviluppando imprese in prima persona con i progetti di start up e facendo innovazione insieme alle aziende del territorio. In questo quadro, l’alto apprendistato è senza dubbio uno strumento utile».
Non per tutti, naturalmente, perché una condizione per il successo di queste iniziative dipende anche dalla selezione delle platee di studenti a cui si rivolge. «La nostra scelta – prosegue Azzone – è di progettare insieme sia la formazione sia la ricerca con partner strategici, come Ibm o Eni, o come Enel con cui stiamo sviluppando un corso di laurea specifico. In questo lavoro condiviso è essenziale avere un progetto strutturato e interessante anche per gli studenti».
«E non è semplice – aggiunge Angelo Riccaboni, rettore a Siena -, perché occorre una forte determinazione sia da parte degli atenei sia da parte delle imprese». Quando le condizioni ci sono, però, si arriva al traguardo, come sta accadendo per la convenzione con il Monte dei Paschi che offrirà contratti di appredistato agli studenti delle lauree magistrali in Management e Governance, Finance ed Economia e gestione degli intermediari finanziari dell’ateneo senese. Del tema, poi, si sta cominciando a occupare la Fondazione Crui, guidata dallo stesso Riccaboni, che nelle prossime settimane farà partire un Osservatorio sui rapporti fra università e impresa e inizierà i propri lavori dal capitolo dedicato all’alto apprendistato.
Le condizioni per riempire di contenuti le nuove regole varate a fine 2013, insomma, ci sono, anche se le norme, seguendo una prassi quasi costante in questi anni di finanza pubblica difficile, spiegano che le università devono attuare i progetti «nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». Fondi aggiuntivi, insomma, non ce ne sono, ma anche in questo contesto difficile si potrebbe pensare a incentivi “indiretti”, per esempio sul turn over oppure sui vincoli di utilizzo delle risorse che costellano la normativa degli ultimi anni, per invogliare l’impegno degli atenei nell’alto apprendistato: nelle iniziative di successo, in grado di avviare nuovi percorsi professionali per gli studenti, il rapporto costi/benefici sarebbe sicuramente positivo.

Il Sole 24 Ore 28.04.14

Alluvione, parlamentari Pd “A breve il decreto in G.U.”

Nota dei parlamentari Pd Baruffi, Galli, Ghizzoni, Guerra, Patriarca, Richetti e Vaccari. I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Edoardo Patriarca, Matteo Richetti e Stefano Vaccari confermano di aver ricevuto assicurazioni sul fatto che a breve verrà pubblicato in Gazzetta ufficiale il cosiddetto dl Modena : “Bene – dicono – chi vive e lavora nelle zone danneggiate ha diritto ad avere certezze sui risarcimenti”.

Al momento, il cosiddetto Decreto Modena, quello recante misure urgenti in favore delle popolazioni dell’Emilia-Romagna colpite dall’alluvione del 19 gennaio scorso, già approvato dal Consiglio dei ministri, non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Edoardo Patriarca, Matteo Richetti e Stefano Vaccari hanno avuto assicurazioni che per la pubblicazione è solo questione di giorni. “Abbiamo contattato direttamente Palazzo Chigi – confermano i parlamentari Pd – e ci hanno dato garanzie sul fatto che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avverrà nel giro di qualche giorno. Bene, chi vive e lavora nelle zone danneggiate ha diritto ad avere certezze sui risarcimenti. Come sempre, come parlamentari modenesi del Pd, continuiamo nel nostro compito di vigilare affinché quanto dovuto arrivi in queste aree la cui peculiarità è stata sottolineata in tutte le sedi istituzionali, prima colpiti dal terremoto e poi dall’alluvione”.