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Università. Si naviga a vista. Intervista a Carla Barbati, ordinario di diritto amministrativo e Vicepresidente del CUN

Professoressa Barbati, nel luglio del 2012 lei ci rilasciò un’intervista nella quale si parlava della “perigliosa navigazione verso il Nuovo Mondo” del sistema universitario. Dopo quasi due anni, come valuta la navigazione e la rotta seguita finora?
E’ stata una navigazione non dico “senza nocchiero”, ma che, da quando ha preso avvio, con l’entrata in vigore della legge n.240, ha visto l’avvicendarsi di ben quattro “nocchieri”. Quattro ministri si sono succeduti, in poco più di tre anni, alla guida di una riforma quanto mai complessa ed estesa. Di là da qualsiasi valutazione si voglia dare di quanto fatto o non fatto dai diversi ministri, è indubbio che questi continui mutamenti hanno compromesso la possibilità di sottoporre la riforma a un indirizzo politico capace di imprimere, tramite provvedimenti concreti e non soltanto dichiarazioni, quelle correzioni di rotta che le prime applicazioni avrebbero potuto suggerire.

Intende dire che i Ministri non hanno guidato la riforma?

La riforma è stata studiata, sicuramente osservata. Dubito si possa dire sia stata governata, anche perché quando s’iniziava a percepire la necessità di intervenire, il mutamento del vertice politico la restituiva a nuovi sguardi e a nuovi studi più che ad azioni di governo. Ma oltre a questo dato contingente ed esterno, vi è quello strutturale e interno di una riforma che ha affidato molta parte di sé, della propria attuazione, alle scelte di apparati tecnici. Mi riferisco innanzi tutto all’ANVUR costituita dalle stesse norme come soggetto regolatore, per non dire “decisore”, lasciato anch’esso privo del confronto con un indirizzo politico forte.

Si è persa la rotta della riforma dunque?

Che si sia persa la rotta, forse, è presto per dirlo. Certo la navigazione è proseguita senza che ne fosse controllata la rotta, senza assicurarsi che davvero conducesse alla meta desiderata: incentivare qualità ed efficienza del sistema universitario. Per ora abbiamo una comunità accademica disorientata e affaticata dal “peso” delle tante, troppe regole complicate quando non eccentriche.

Vale comunque la pena di ribadire l’esigenza di correttivi?

Ogni riforma, dopo la sua adozione, deve essere monitorata e ne devono essere verificati costantemente i risultati, anche intermedi, perché ogni regola, alla prova della sua attuazione, può richiedere modifiche. E’ quella che si definisce la “manutenzione” delle riforme. In ogni caso, bene sarebbe che si valutasse l’impatto delle regole prima di introdurle, per accertarsi che i costi che ne derivano non siano superiori ai benefici. Quando ciò non avviene, come non è avvenuto per molte di queste nuove regole, è indispensabile che si verifichi almeno ex post la loro capacità di condurre agli obiettivi voluti.

Dunque, sarebbe necessario intervenire ora con revisioni e aggiustamenti della riforma?

Ormai sono più di tre anni che ci stiamo misurando con l’applicazione della riforma. Penso perciò sia trascorso il tempo degli “sguardi” e degli studi e sia giunto il tempo del “provvedere” e non nel senso di scrivere un’altra riforma, ma di correggere appunto quanto, in base all’esperienza che se n’è fatta, necessita di essere corretto. E su questo mi pare siano già emerse indicazioni molto chiare per gli osservatori più attenti. Si tratta solo di agire.

Crede che nell’attuale contesto politico vi sia spazio per possibili interventi?

Questo è davvero difficile a dirsi. Molto può dipendere dalle prospettive di permanenza nei ruoli e nelle connesse responsabilità dei decisori politici. Molto dipende anche dalla capacità delle sedi istituzionali, legislative e governative, di pensare all’Istruzione e alla Formazione, dunque all’Università e alla Ricerca, nei termini che richiede l’Unione Europa, ai fini della strategia Europa 2020, ossia come componenti fondamentali dello sviluppo economico e della competitività degli Stati membri.

Sino a che non sarà acquisita questa consapevolezza è difficile ottenere un’attenzione qualificata e di sistema che possa tradursi in politiche di lungo periodo, le sole che possano assicurare continuità all’azione di governo del settore. Le sole che possano evitare di consegnare le sorti del sistema universitario e della ricerca alla capacità politica dei singoli ministri, che si succedono, di chiedere e ottenere misure adeguate o comunque spazio per interventi che siano anche e solo di miglioramento del quadro normativo e amministrativo.

Quanto alle risorse FFO che vengono decurtate, stando a quanto prevede il decreto legge spending review del governo Renzi, come le valuta?

Siamo di fronte alla ricorrente espressione di una concezione dell’Istruzione Superiore e della Ricerca come voce di spesa e non di investimento e di una “navigazione”, per proseguire la nostra metafora, che segue una rotta differente da quella tracciata dall’Unione Europea. Queste scelte, di là da quale sia l’entità della decurtazione o il suo carattere eventuale o meno, preoccupano comunque per ciò che raccontano del nostro persistente disallineamento rispetto alle politiche europee. L’Europa raccomanda di effettuare investimenti adeguati in questi settori, anche in periodi di scarse risorse finanziarie, in ragione del contributo che apportano alla crescita degli Stati membri e dunque dell’Area Europea.

Risorse finanziarie adeguate come presupposto per lo sviluppo e la competitività del Sistema Universitario italiano?

Sono una delle pre-condizioni. Non dimentichiamoci però che anche congrue risorse economiche non sono sufficienti allo sviluppo e alla competitività dei sistemi, se non sono accompagnate da modelli organizzativi e di funzionamento, oltre che da politiche di regolazione utili al loro sviluppo. E anche a questi effetti, il nostro sistema universitario è ancora lontano dal disporre delle soluzioni necessarie al suo rafforzamento. Direi che anche le politiche pubbliche sin qui seguite, e non solo il sistema universitario, dovrebbero essere oggetto di una valutazione volta a incentivarne la qualità e l’efficienza.

Le procedure dell’ASN hanno visto emergere un significativo contenzioso, e molti strali si sono letti su di una stampa fino a poco tempo fa osannante. Che opinione si è fatta?

Ho riletto quanto, facile profeta, dicevo due anni fa. Era facile, infatti, prevedere che le troppe regole, troppo complicate e troppo confuse nel linguaggio e nel significato, avrebbero favorito il contenzioso e così è stato. Bene sarebbe stato se anche la stampa, almeno quella che si propone come più avvertita e attenta, avesse considerato meglio le difficoltà interpretative e applicative. Purtroppo, nessuno lo fece e chi indicava quelle difficoltà, lungi dall’essere ascoltato, veniva tacciato di opporsi al “nuovo mondo” e, in particolare, alla valutazione o, più in generale, alla palingenesi del sistema universitario.

E’ in effetti accaduto anche a molti analisti di Roars, di non essere né creduti né ascoltati quando si rilevavano i limiti intrinseci delle regole per le ASN e non solo di quelle.

Se è per quello, è accaduto anche al CUN che, nell’ottobre 2011, si pronunciò molto criticamente sui criteri e sui parametri per le valutazioni previste ai fini delle abilitazioni, presentando differenti proposte elaborate in dialogo con le comunità scientifiche, proposte che nessuno ritenne di prendere in considerazione peraltro, neppure per discuterle.

Il CUN fu altrettanto critico in merito alle procedure per la costituzione e per il funzionamento delle commissioni ASN, in occasione di un’Audizione al Senato, nel luglio 2011. Ma anche in quel caso, anziché essere ascoltato fu sin tacciato, da taluni nel dibattito parlamentare, di trovarsi in situazione di “conflitto d’interessi”, forse perché rappresenta in via elettiva la comunità accademica che quelle regole, allora in gestazione, volevano privare di molta parte della sua autonomia anche valutativa, quasi a porla “sotto tutela”.

E’ solo la complessità delle regole il problema delle ASN?

Non solo. La difficoltà annunciata era anche quella di scelte regolative con le quali si sono importate soluzioni estrapolate da modelli elaborati in altre esperienze e questa è una tentazione quasi irresistibile del nostro legislatore, ogni qualvolta “innova”. Ma quando ciò avviene senza che vi sia la consapevolezza della diversità dei contesti, determinata anche, benché non solo, dalle norme generali che reggono l’azione amministrativa, i rischi di “tenuta” di regole acriticamente importate o comunque decontestualizzate sono gli stessi che accompagnano il trapianto di un organo che il sistema riconosce non compatibile o estraneo.

Si aspetta qualche iniziativa dal Ministero?

Mi aspetterei che il Ministero dicesse intanto come e quando pensa di correggere la rotta, almeno del reclutamento. Sul se, ci sono già state dichiarazioni con le quali si è riconosciuta la necessità di introdurre modifiche. Anche per questo sarebbe importante che ora si dicesse “quando” si accenderanno i motori e quale direzione si seguirà. A tacer d’altro, è essenziale dare qualche indicazione ai tanti studiosi, anche giovani, che devono essere posti nella condizione di programmare l’accesso o la progressione nei ruoli della docenza e della ricerca universitaria e comunque di programmare anche il proprio futuro professionale per non dire la propria vita.

Il reclutamento è al momento un tema molto caldo, anche il CUN si è espresso in materia.

Il CUN si è espresso, formulando alcune proposte per la revisione delle procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale e lo fatto in risposta alle richieste dell’allora ministro Carrozza. Credo possano costituire un punto di partenza per iniziare a parlarne, valutando “che fare”. Alcune misure si risolvono in correttivi di impatto contenuto, agevoli da recepire in quanto non richiedono adeguamenti di contesto. Altre suppongono interventi di impatto maggiore che possono sollecitare confronti e riflessioni più estese sia con le sedi legislative e governative, sia con le comunità accademiche e scientifiche.

Ma quanto tempo occorrerebbe per correggere il sistema delle Abilitazioni?

Nessun correttivo potrà essere operativo in tempi brevi. Anche quelli più semplici rendono necessario intervenire su tutta la filiera regolatoria e dunque su una sequenza di provvedimenti normativi e di atti amministrativi la cui modifica richiede numerosi passaggi procedimentali.

Perciò, se si intende correggere la “rotta”, occorre avviare il percorso quanto prima, per non bloccare troppo a lungo le procedure per il reclutamento. Vi è infatti urgente necessità di disporre di nuove risorse umane e anche su questo il CUN si è pronunciato di recente. Dunque, se non si può restare senza programmare anche finanziariamente il reclutamento, non si può neppure restare senza le regole in base alle quali reclutare e far progredire nella carriera gli studiosi.

Crede che – a parte il reclutamento – ci siano altre urgenze sulle quali sarebbe meritevole accendere un faro?

Vedrei tre priorità, fra loro interdipendenti.

Assicurare la “qualità della regolazione” del settore. Occorre semplificare e riordinare il quadro normativo, superando le tante aporie, discrasie e le tante incertezze interpretative proposte dal groviglio di norme con il quale ci stiamo confrontando. Da tempo il CUN ha sollecitato la redazione di un codice o testo unico che assicuri il coordinamento di tutte le disposizioni vigenti. Un adempimento che richiede la disponibilità a impegnarsi in un’azione lunga e anche oscura, dal punto di vista dell’immediata visibilità politica, ma indispensabile per il buon funzionamento di tutti i sistemi, come peraltro riconosce il nostro stesso legislatore.

Occorre ricostruire i processi decisionali di governo del settore, chiarendo i ruoli e le responsabilità dei diversi soggetti. E a questo fine è necessario, fra l’altro, restituire alla comunità accademica e scientifica la possibilità di partecipare alle decisioni per il governo di un sistema che è fatto di tante autonomie: quella istituzionale dei singoli Atenei, ma anche quella della ricerca e della didattica che devono continuare a vivere in un reciproco e virtuoso bilanciamento.

Occorre ridefinire la funzione di valutazione perché possa diventare quanto dovrebbe essere, ossia strumento volto a procurare alle Autorità di governo elementi conoscitivi e valutativi per decidere, senza che ad essa sia dato occupare gli spazi che devono essere delle decisioni politiche. E anche per questo servono interventi normativi e amministrativi, non solo dichiarazioni.

Il sistema di valutazione imperniato su ANVUR, infatti, ha suscitato vivaci polemiche. Come giudica le procedure di accreditamento dei dottorati?

Sono l’ultima, nel senso di più recente, espressione di quella iper-regolazione di cui la valutazione, lasciata a sé stessa, è diventata fonte. Una valutazione che è andata anche assumendo le caratteristiche di un controllo, ossia di un’altra funzione. Sicuramente, occorreva una razionalizzazione del sistema dei dottorati, ma la razionalizzazione non può trasformarsi in complicazione né può generare la massa di oneri informativi che si annunciano, anche e solo per ottenere l’accreditamento dei corsi. Dubito che tutto ciò possa condurre a un’incentivazione della qualità ed efficienza o a una valorizzazione dei dottorati. Almeno, tutte le esperienze e le consapevolezze internazionali sulle tecniche di regolazione dicono esattamente il contrario. Ma anche qui, occorre un intervento normativo che corregga la rotta.

Il CUN riesce e come a esercitare un proprio ruolo?

Il CUN continua a esprimere un importante ed efficace rapporto con le comunità scientifiche, dalle quali è eletto, ricevendone costanti stimoli e indicazioni che porta a sintesi nel confronto fra tutte le aree disciplinari nelle quali si articola la ricerca accademica: un raccordo orizzontale come vogliono le autonomie che rappresentiamo. Egualmente importante è il contributo che vi apportano le altre componenti della comunità accademica che vi trovano rappresentanza.

Ma è alle comunità scientifiche che offre la sola sede capace di garantire loro una rappresentanza istituzionale. Purtroppo, il CUN è stato dimenticato dalla riforma. E’ rimasto privo di quegli adeguamenti, anche in termini di competenze e attribuzioni, necessari a consentirgli di dialogare con le nuove esigenze del sistema e di partecipare, con un ruolo definito e garantito, ai processi decisionali.

Quanto alle politiche di governo del sistema, il ruolo del CUN dipende perciò dai ministri che si succedono, dalla loro disponibilità e dal loro interesse ad avvalersi del contributo dell’organo che istituzionalmente rappresenta le comunità e, anche qui, i continui mutamenti dell’interlocutore politico non aiutano: ogni volta ci si incontra e si riavvia la conoscenza.

Quali sarebbero le utilità di un confronto con le comunità scientifiche e con chi le rappresenta? Vi è chi ritiene che questo bloccherebbe la possibilità di modifiche effettive, per le resistenze opposte dai diretti interessati.

In realtà, è ormai acquisito, in tutti gli ordinamenti, che una “buona regolazione” richiede vi sia anche piena consapevolezza dei possibili effetti che produrrà sui destinatari. Perché ciò accada ogni progettazione di regole deve essere accompagnata dalla consultazione dei soggetti coinvolti, per comprenderne le esigenze effettive e dare ad esse le giuste risposte.

Pertanto è anche non riconoscendo alle comunità scientifiche la possibilità di parlare istituzionalmente, e non solo casualmente, con “chi decide” che s’indeboliscono le decisioni, specie quelle che sfociano in regole che nascono perciò deboli se assunte senza le informazioni e le consapevolezze che si possono trarre dal coinvolgimento dei destinatari.

Vorrei aggiungere che in tal modo però non si deroga soltanto alle pratiche della “buona regolazione”, ma si arreca anche un vulnus all’autonomia che, ricordiamolo, è un valore riconosciuto dalla Costituzione per il rafforzamento dei sistemi complessi.

Ripartire dall’autonomia universitaria dunque?

Suggerirei di continuare a considerare l’autonomia come un valore funzionale al rafforzamento e al governo del sistema universitario, dotandola di tutti gli strumenti, anche rappresentativi, che le consentano di vivere e di affermarsi responsabilmente.

L’autonomia universitaria e, in particolare quella scientifica, non è, come alcuni tendono a ritenere, strumento per l’affermazione di interessi corporativi. Al contrario, come insegnano anche le esperienze di regolazione del mercato, è quando ci si allontana dal confronto con tutti gli interessi, in questo caso espressi dalle tante autonomie universitarie e dalle sedi di loro rappresentanza, che si favoriscono scelte settoriali o particolari, frutto del dialogo che “chi decide” intrattiene solo con alcuni interessi, vale a dire con quelli che riescono ad avvicinarsi di più al decisore politico.

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