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"L’elettore in apnea nell’Italia che s’informa di più", di Carlo Buttaroni

Negli ultimi anni, il tema della partecipazione politica è stato al centro di un ampio dibattito che, partendo dal progressivo calo della partecipazione elettorale registrato nelle ultime tornate elettorali, ha riguardato le diverse misure che possono essere adottate per incoraggiare i cittadini a prendere parte alla vita politica del Paese. All’interno di questo dibattito cosa s’intende per «partecipazione»? Possono essere considerati partecipativi soltanto alcuni comportamenti come l’esercizio del voto o la militanza in un partito (entrambi in costante diminuzione negli ultimi anni) oppure anche quanti «discutono» di argomenti politici o si impegnano in ambiti informa- li? Secondo quanto si allarga o si stringe il campo di osservazione i risultati cambiano profondamente.

Se si analizza solo la partecipazione elettorale, il calo registrato negli ultimi anni è evidente e segnala un generale deterioramento del processo partecipativo. Ma se si osservano altri indicatori, come l’interesse a informarsi o a seguire i di- battiti politici, a discutere con amici e parenti o a intervenire sui social network, i risultati sembrano suggerire l’opposto, cioè una crescita della partecipazione. È evidente come una democrazia compiuta, seppur imperfetta ma perfettibile, tenda a far crescere entrambi gli indicatori di partecipazione, ponendo alla base di questo processo di rafforzamento proprio la quota di cittadini informati che precostituiscono, almeno teoricamente, forme più militanti e attive. Ma quando la partecipazione elettorale e militante cala e si vedono crescere altre forme di partecipazione, cosa dovremmo dedurne?

CHI SOFFIA SUL FUOCO

La risposta non è così semplice come suggerisce chi soffia sul fuoco dell’antipolitica, e cioè che man mano che cresce il grado di consapevolezza dei cittadini aumenta la distanza dalla politica. La maggiore conoscenza e informazione, infatti, avrebbe dovuto permettere la selezione di una migliore classe dirigente, producendo un miglioramento del sistema politico nel suo complesso. Così non è stato e negli ultimi anni si è verificato il contrario. La quota calante di partecipazione elettorale e quella crescente di tipo informale hanno dato vita a una classe politica mediocre e meno competente rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Le risposte, quindi, devono essere cercate altrove, negli opposti sistemi che questo pro- cesso sembra aver, complessivamente, prodotto: un «sistema democratico senza consenso» dove i percorsi di democrazia formale, almeno sulla carta, sono pienamente efficienti (ma sempre meno praticati) e un sistema che vive di un «consenso senza democrazia», che si alimenta di pulsioni provvisorie e fluttuanti dove la razionalità del di- ritto può apparire persino un inutile ingombro. Due sistemi che convivono come universi paralleli, fatto salvo che il secondo, com’è del tutto evidente, sottrae quote di democrazia sostanziale al primo mano a mano che prende corpo.

Se è difficile individuare il periodo storico in cui prende avvio il processo che conduce a due regimi politici così diversi, più facile è individua- re gli affluenti che ne hanno alimentato il corso. Almeno quelli principali, perché le ragioni sono molteplici e alcune persino sotterranee e più difficili da individuare in un quadro di evidenza empirica. In questa ipotetica classifica, ai primi posti c’è sicuramente il fatto di credere (e di far credere) che le grandi questioni siano di natura tecnica e non politica. Nel momento in cui si è affermata l’idea che le grandi decisioni possono essere prese sulla base di valutazioni tecniche, è evidente che non c’è più bisogno della politica, dei politici e tanto meno della partecipazione popolare, perché bastano le componenti specifiche. Questo processo ha avuto il suo culmine nel «governo dei tecnici», quando tecnocrazia e burocrazia si sono saldate sopra le competenze tradizionalmente riservate alla politica. Un percorso iniziato alla fine degli anni 80, prevalentemente a livello locale, la cui conseguenza è stata la progressiva tecnicizzazione dei processi di decisione, la burocratizzazione dei sistemi di potere e la depoliticizzazione delle scelte fondamentali.

Un altro aspetto importante, e per molti versi conseguenza diretta della tecnicizzazione della politica, è stata la trasformazione della partecipazione in forme di mobilitazione estemporanee e

provvisorie che riflettono una cittadinanza sempre più sottile e rarefatta. È un fatto che negli ultimi anni, nella misura in cui è aumentata la partecipazione informale e diminuita quella elettorale, le grandi decisioni siano state prese indipendentemente dalla partecipazione di coloro ai quali quelle stesse decisioni erano rivolte.

Meno politica e più tecnica ha significato una progressiva deformazione della democrazia rappresentativa in termini parademocratici, dove il relativismo ha finito per essere una sorta di pre- messa largamente condivisa. Perché nella politi- ca tecnicizzata conta «ciò che è necessario», non «ciò che giusto». Non esistono veri fini, ma solo «pacchetti di issues» legati a procedure che non hanno necessità di obbedire a criteri di valutazione «politica» da parte degli elettori.

SCENARI NUOVI

Un processo che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» al quale la politica tecnicizzata non è stata più in grado di dare risposte.

L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea – al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno – non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui quegli stessi partiti hanno perso il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel tentativo di dare risposte ai suoi problemi più contingenti.
Può sembrare del tutto fuori tempo, oggi, prospettare modelli alternativi rispetto a un sistema che appare ampiamente egemone. Ma finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che torni a essere «agenzia di senso», capace di dare risposte più politi- che e meno tecniche alla società degli imperfettamente distinti.

L’Unità 28.04.14

"L'enorme bugia degli sprechi scolastici", di Mario Pirani

Talvolta qualche articolo sulla scuola suscita reazioni interessanti. Così il nostro rilievo del 14 aprìle us ha provocato più di una ripresa. Un professore di Palermo scrive: «C’è qualcosa che da anni mi frulla per la testa. La scuola italiana è stata tagliata di 133.000 posti e di oltre tre miliardi di euro negli anni del berlusconismo, facendo passare l’idea che questo fosse un risparmio e che nella scuola vi fossero troppi sprechi. Si tratta di una enorme bugia e se non riprenderemo ad investire seriamente nella scuola non usciremo mai dalla crisi. Ce lo hanno di nuovo ricordato gli esperti di Bruxelles, sottolineando ancora una volta che soffriamo di uno dei più alti tassi d’abbandono del sistema scolastico europeo con previsioni che ci piazzano per il 2020 al 28°posto fra i laureati europei. La situazione vista dall’interno, (insegno italiano in un liceo di Palermo) nonostante i tanti proclami che si sono susseguiti in questi anni, da cui non è uscito nulla di concreto per la scuola, resta sostanzialmente immobile. La spiegazione — secondo la famosa “invarianza della spesa” è semplice: se occorre “fare” con le risorse che derivano dai tagli, i fatti sono due, o si taglia o si lascia tutto come sta. Nella scuola, checché se ne dica, non ci sono sprechi; se ce ne fossero le famiglie non sarebbero costrette a sborsare 500 milioni di euro all’anno a titolo di “contributi volontari”. Neppure la Gelmini è riuscita a trovarne e a tagliarli e si è dovuta accollare della responsabilità di diminuire le ore di lezione in quasi tutti i livelli scolastici. Un ultimo paragone: in Finlandia i ragazzi stanno a scuola il più possibile, da noi il meno possibile ».
Si seguita vacuamente a parlare di autonomia scolastica, senza avere neppure il coraggio di dire che il nostro “era” un sistema scolastico con il suo impianto gerarchico, per quanto burocratico. Alla sua testa formalmente governava il ministro e più sotto, via via, i Provveditorati cui sottostavano le Scuole, rette da una rete di circolari. Ora, con l’introduzione più o meno fittizia dell’Autonomia, abbiamo apparentemente smantellato il vecchio ordinamento ma non ne abbiamo creato uno nuovo, infatti gli istituti residui non sono autonomi.
Secondo le linee messe a punto dall’Unione europea un organismo è autonomo quando è proprietario degli edifici, ha totale autonomia di governance e gestisce autonomamente il personale. Le scuole non hanno niente di tutto questo mentre le Università sì e infatti non abbiamo bisogno di autorità locali per gestirle: il Miur decide i finanziamenti alle Università in base a criteri generali. Oggi invece la scuola è un “non sistema”. Non abbiamo più un sistema piramidale: si pensi che in Toscana abbiamo un solo provveditore per tre province. Inoltre stiamo abolendo le province; perché dovrebbero rimanere i Provveditorati? Sulle autonomie ognuno dice la sua, ma non è così. Dare autonomia di gestione alle scuole dovrebbe significare un vero sistema di valutazione che non valuti, però, solo gli apprendimenti. La scuola non è infatti solo apprendimento ma un ambiente sociale di formazione e di educazione. E’ il primo “ambiente” sociale dove si cresce, si formano le relazioni, il modo di stare con gli altri. Sono questi valori da difendere, ma nello stesso tempo dobbiamo puntare alle competenze. Non basta più conoscere la grammatica inglese o francese; bisogna capire e parlare una lingua, esercitare una reale competenza linguistica. E questo vale per tutte le materie: passare dalle conoscenze alle competenze è determinante per il successo della scuola e dei nostri ragazzi.

La Repubblica 28.04.14

"Il contrasto all'evasione accelera in cinque mosse", di Valentina Maglione e Giovanni Parente

La lotta all’evasione cerca il cambio di passo. Il decreto Renzi sul bonus degli 80 euro punta a recuperare 2 miliardi in di euro in più di tasse non pagate nel 2015. In campo ci sono cinque possibili mosse. Entro giugno il Governo dovrà presentare una relazione al Parlamento sui risultati dei controlli 2013 e sulle prospettive per il 2014. Ma c’è anche l’attuazione della delega fiscale e si punta a migliorare l’incrocio delle banche dati per mirare le verifiche sui contribuenti a più alto rischio di evasione e a potenziare la tracciabilità con la fattura elettronica. Senza dimenticare l’input al rientro dei capitali.

La lotta all’evasione alza il tiro e mette nel mirino un obiettivo potenziale: riportare imposte non pagate (insieme a sanzioni e interessi) per 2 miliardi in più nel 2015. A conti fatti, se si considera che il recupero dell’agenzia delle Entrate (almeno quello annunciato dal direttore Attilio Befera) è stato di poco più di 13 miliardi nel 2013 significherebbe voler alzare l’asticella fino all’ambizioso traguardo di 15 miliardi di incassi.
Un obiettivo a cui il Governo crede a tal punto da averlo indicato espressamente nel decreto Irpef (Dl 66/2014). Ma, va sottolineato, nel pieno rispetto delle raccomandazioni più volte rilanciate dalla Corte dei conti e da Bruxelles: i 2 miliardi in più di recupero non sono indicati a copertura delle minori entrate che deriveranno dal bonus di 80 euro e dallo sgravio Irap per imprese e autonomi.
Il raggio d’azione
Il margine su cui lavorare c’è. Il tax gap sulle imposte gestite dalle Entrate (Irpef, Ires, Irap, Iva e addizionali) si aggira intorno a 90 miliardi, ma se si aggiungono anche i contributi e le imposte locali si arriva alle stime – finora solo ufficiose – tra 180 e 200 miliardi. In pratica, un recupero di 2 miliardi vuol dire erodere circa l’1% da questa cifra monstre che sfugge ogni anno alle casse pubbliche.
A preoccupare, però, c’è la difficoltà di andare a riscuotere le cifre contestate. L’allarme nasce dai numeri. Tra il 2000 e il 2012 (ultimi dati disponibili) non sono stati riscossi quasi i due terzi del monte complessivo dei ruoli (545,5 miliardi su 807,7) e negli ultimi due anni anche Equitalia sta risentendo l’effetto delle misure introdotte per limitarne i poteri e facilitare la rateazione. Proprio sul fronte della riscossione «si agirà con l’attuazione della delega fiscale – spiega il sottosegretario all’Economia, Pierpaolo Baretta – dando un nuovo assetto al recupero soprattutto delle imposte locali». Un riassetto che consentirà l’uscita di scena di Equitalia su questo fronte.
L’attuazione della delega sarà anche l’occasione per mettere a punto una serie di altri interventi sul fronte antievasione e tentare così di dare l’assalto ai 2 miliardi in più. Una strategia che parte dalla conoscenza: il Governo dovrà, innanzitutto, definire un metodo per calcolare l’evasione fiscale e redigere, ogni anno, una rilevazione del tax gap. Tra le misure contro il sommerso, poi, la delega mette al centro il contrasto di interessi fra contribuenti e suggerisce di concentrare l’azione soprattutto sulle aree dove il rischio evasione è più elevato. I risultati degli interventi dovranno essere, a loro volta, illustrati dal Governo in una relazione annuale.
In ordine cronologico, però, la lista delle mosse attuabili prevede il rapporto che il Governo dovrà presentare alle Camere entro il prossimo 23 giugno (60 giorni dall’entrata in vigore del decreto Renzi) per fare il punto sui risultati 2013, su quelli già raggiunti e ulteriormente raggiungibili nel 2014 distinguendo gli effetti sia da emersione spontanea (la cosiddetta compliance), sia da accertamento vero e proprio.
Ma non solo. Perché l’obiettivo di aumentare il recupero passa anche dalla definizione delle linee guida su cui si dovranno articolare i controlli e le strategie di prevenzione. Un dato certo al momento è la spinta che il premier intende dare all’incrocio delle banche dati. Un aspetto, però, su cui c’è da lavorare, visto che alla fine della scorsa legislatura la commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria ha sottolineato come uno dei primi problemi da risolvere sia la “comunicabilità” delle informazioni già disponibili nei 128 database dell’amministrazione finanziaria (in tutte le sue articolazioni). Si tratterà, quindi, di ottimizzare le risorse disponibili e di individuare procedure sempre più efficienti per colpire i casi a più alto rischio di “nero”. L’intenzione di insistere sulla strada dell’incrocio dei dati è confermata anche da Enrico Zanetti, anche lui sottosegretario al Mef: «La lotta all’evasione va fatta e procederemo su questa strada con i fatti, senza blitz e senza spot».
A questo si aggiunge anche la fattura elettronica, che permetterà di tracciare tutti i pagamenti fatti alla pubblica amministrazione: dal 6 giugno prossimo diventerà obbligatoria per chi lavora con i ministeri, le agenzie fiscali e gli enti previdenziali; mentre l’estensione a tutta la Pa, anche a livello locale, prevista dopo un anno, è stata anticipata dal decreto Renzi al 31 marzo 2015.
Rientro dei capitali
Non va infine dimenticato il fronte estero. La prospettiva delineata nel Def del Governo Renzi è di riavviare la macchina del rientro dei capitali. Il Parlamento sta esaminando due disegni di legge presentati dopo lo stralcio del capitolo voluntary disclosure nella conversione del decreto varato dal precedente esecutivo. L’obiettivo indicato nel Def è rendere nuovamente operativa la procedura da settembre e per questo serviranno tempi veloci nell’approvazione.

Il Sole 24 Ore 28.04.14

"Il Cavaliere anti-tedesco", di Piero Ignazi

Per la prima volta si parla di Europa in una campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo. È l’effetto paradossale della crescita dei partiti euroscettici. Le loro invettive nei confronti dell’Unione europea, variamente declinata come l’istituzione al servizio dei banchieri, della finanza, dei poteri forti o, più direttamente, degli interessi tedeschi, hanno conquistato spazio e attenzione in questi anni di crisi. DEL resto era facile puntare il dito contro chi non è riuscito nemmeno ad accordarsi per spegnere subito l’incendio greco lasciandolo propagare fino a devastare metà continente. E nemmeno ora, di fronte ai venti di guerra che soffiano dalle steppe ucraine, riesce a trovare il modo di far sentire la propria voce a Mosca. Anche gli europeisti più convinti riconoscono le deficienze dell’Ue, ma le loro critiche ragionate e costruttive sono sepolte da chi urla e sbraita contro tutto quello che viene da Bruxelles. Finora, solo la Lega e il M5S facevano campagna contro l’Unione, pur con toni diversi. Nei primi prevale il sentimento di chiusura nazionale, identitaria e anti-immigrati, in sintonia con il Front National di Marine Le Pen (comunanza che in realtà qui da noi non scandalizza nessuno: altro che sentimento repubblicano!); nei secondi, il recupero di una sovranità economica nazionale da ottenersi “battendo i
pugni sul tavolo”.
A questo gruppo (fiancheggiato anche dalla piccola pattuglia dei Fratelli d’Italia) si è associata ufficialmente Forza Italia. Silvio Berlusconi non parla mai a caso e le sue cosiddette “gaffe” sono attentamente studiate. Quella pronunciata sabato sul non riconoscimento dei campi di concentramento da parte dei tedeschi ha uno scopo ben preciso: solleticare quel latente sentimento anti-tedesco che taglia trasversalmente l’opinione pubblica, e che si alimenta di antichi stereotipi e dell’immagine arcigna della cancelliera Angela Merkel. In questo modo Berlusconi cerca di associare una visione negativa della Germania — paese non solo responsabile dello stermino ma addirittura compiacente — alla egemonia tedesca sull’Europa, al fine di indirizzare il sentimento di ansia e frustrazione per la crisi contro un nemico ben preciso. Gli euroscettici sono di nuovo chiamati a raccolta sotto le insegne dell’ex-Cavaliere. Questo slittamento fuori dall’Italia indica però una situazione di debolezza di Forza Italia: Berlusconi non si sente in grado di sfidare gli avversari, in primis Matteo Renzi e il Pd, sul terreno domestico. Deve cercare un capro espiatorio fuori dai confini nazionali.
È vero che alle ultime elezioni l’aver accusato l’Ue per le difficoltà economiche aveva favorito il Pdl e sfavorito il Pd, come dimostra l’accuratissima analisi condotta da Paolo Bellucci ( The Political Consequences of Blame Attribution for the Economic Crisis in the 2-013 Italian National Election ). Ora, però, Berlusconi è stretto tra due fuochi: non può attaccare frontalmente Renzi perché è legato da un accordo per le riforme che non ha la forza di rompere
(è bastata una immediata reazione del ministro Boschi per fargli abbassare i toni) e perché non ha più argomenti retoricamente forti (Renzi non è un vecchio comunista né un “utile idiota” — appellativo riservato a Romano Prodi all’epoca — , non fa parte della nomenclatura, e non è “grigio e noioso”, tanto per citare alcune invettive del passato); dall’altro non può competere con Grillo né sul piano della verve e della demagogia a 360 gradi, né sul piano della critica agguerrita all’Unione europea, vista la responsabilità di Berlusconi nell’aver accettato i “diktat” di Bruxelles. Questo stato di difficoltà non significa che Forza Italia stia franando elettoralmente. Gli elettori di destra non sono tutti scomparsi e tendenzialmente continuano ad essere attratti dai partiti della vecchia Casa delle Libertà. Ma sono “vecchi elettori”: sono quelli che hanno scelto il centro-destra, e Berlusconi in particolare, molto tempo fa e che adesso continuano, per abitudine, a collocarsi da quelle parti. Ma di nuovi non ce n’è l’ombra e anche il canale del non voto si è prosciugato. Per cui, Forza Italia potrà ancora mantenere un discreto numero di consensi ma la sua parabola politica si sta spegnendo. Deve andare a rimorchio di altri e cercare soltanto di limitare i danni: la forza propulsiva del berlusconismo si è esaurita.

La Repubblica 28.04.14

"Renzi apre sulle riforme Sfida a Grillo e Berlusconi", di Vladimiro Frulletti

Dopo l’incontro al Colle, il premier apre sulle riforme: «L’accordo si troverà». Berlusconi e Grillo? «Due facce della stessa medaglia». E’ sicuro che il pantano o le sabbie mobili non lo inghiottiranno, ma forse proprio per questo sembra pronto anche a rivedere alcuni dettagli della sua corsa pur di evitare di finire dentro pozzanghere troppo grandi e profonde. Così, non a caso proprio il giorno dopo il faccia a faccia col Capo dello Stato, Renzi spiega che sul progetto delle riforme l’intesa è davvero vicina e che quindi non sarebbe politicamente intelligente legarsi (fino a rischiare l’immobilità) a dei dettagli. Né temporali né di merito.

Quindi sebbene resti l’obiettivo di ave- re la prima votazione nell’aula del Senato del disegno di legge costituzionale prima del 25 maggio, giorno delle elezioni europee e amministrative, «una settimana in più» non cambierebbe molto visto che sono trenta anni che il Paese sta aspettando.

«Non mi impicco a una data – dice Renzi da Lucia Annunziata su Rai Tre – se serve una settimana in più che se la prendano». Quel 25 maggio infatti non va letto per Renzi come dettato da esigenze elettorali (non sarà il nuovo Senato a portare voti al suo Pd, dice, ma la lotta alla disoccupazione), bensì come il segnale alla classe politica che il tempo a disposizione è davvero scaduto. Che l’urgenza non è un’esigenza di Renzi, ma delle «famiglie che stanno a casa e non ne possono più».

Ma l’importante ora è arrivare in fondo. Su province e auto blu il risultato già c’è, fa notare. Ed è talmente importante raggiungere l’obiettivo di rifondare buona parte delle istituzioni che anche sul nodo fin qui rimasto irrisolto del Senato Renzi non si chiude a riccio.

Prima il premier puntualizza come l’intesa sia larga e solida sugli altri aspetti caratterizzanti la riforma. E cioè l’abolizione del Cnel, il nuovo rapporto fra Stato e Regioni previsto dal nuovo Titolo V su cui ha dalla sua parte, fa notare, anche gran parte delle Regioni, guidate dal presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, e la fine del bicameralismo perfetto. Che vuol dire che il futuro Senato sarà una «Camera delle Autonomie e dei rapporti con l’Europa» che non vota la fiducia, non vota il bilancio e non ha membri che percepiscono indennità. I famosi tre paletti. Quanto al quarto, Renzi spiega che l’importante è che i senatori non siano eletti, altrimenti rientra dalla finestra il bicameralismo che era stato fatto uscire dalla porta.

«Dietro l’eleggibilità diretta c’è l’obiettivo di continuare a produrre ceto politico». È accettabile invece che uno che «fa il sindaco o il consigliere regionale» possa «un paio di volte alla settimana» stare a Roma a confrontarsi sui temi che interessano le autonomie locali.

Di questo discuterà stamani col capo- gruppo al Senato Luigi Zanda e la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, e domani mattina con tutti i senatori democratici. Il confronto sulle riforme infatti va fatto con tutti, ribadisce, con Forza Italia (e annota come Berlusconi sia tornato sui propri passi), Lega, Grillo e quindi ovvia- mente anche con la minoranza Pd, anche se nel suo partito, fa notare, le decisioni sono già state prese, riferendosi sia al risultato delle primarie che alle deliberazioni della direzione.

«Mi piacerebbe fare una di quelle battute che facevo quando ero giovane», si morde la lingua Renzi, ma ora gli interessa solo trovare «una soluzione». Il che però non gli impedisce di difendere le proprie ragioni da chi l’accusa, da sinistra, di volere una svolta autoritaria. Ammette che un premierato forte non lo scandalizzerebbe visto che così funziona negli altri Paesi europei, che certo non posso- no dirsi non democratici, tuttavia ora aprire questo fronte significherebbe far saltare le riforme. Quindi tace. Semmai ricorda come la fine del bicameralismo non solo era nel programma di Prodi del 2006, dell’Ulivo del 1996, ma anche di Berlinguer del 1981. Insomma pare difficile appiccicarci sopra qualsiasi etichetta di destra anche da chi è mosso da «pre- giudizio» nei suoi confronti. Intanto oggi sarà dalla De Filippi per registrare la puntata di sabato prossimo di Amici. L’altra volta col giubbotto da Fonzie si attirò molte critiche da sinistra. Attacchi di una sinistra snob ed elitaria, disse, che così ha deciso di sfidare di nuovo. E da sinistra infatti difende gli 80 euro per chi guadagna poco. Spiega che le coperture ci sono («con piumino e passamontagna») visto il rigore di Padoan, che ha fatto abbassare le previsioni di crescita del Pil dall’1,1% allo 0,8% (tanto che per fine anno Renzi s’aspetta sorprese positive). È infatti di sinistra che per la prima volta il governo restituisca qualcosa alle famiglie. Ed è proprio questo che stanno cercando di nascondere Grillo e Berlusconi con le loro cortine fumogene. Tra cui va messa la frase «sbagliata e inaccettabile» dell’ex Cavaliere sui lager e i tedeschi che Renzi pone sullo stesso piano con quella di Grillo sui campi di concentra- mento. Quei due sono «facce della stessa medaglia». Ed è dall’alto delle loro ricchezze che possono considerare poca co- sa 80 euro in più al mese. «È spocchia», dice. Forse per Grillo valgono come due biglietti di ingresso a un suo spettacolo, ma «a un metalmeccanico che guadagna 1100 euro al mese cambiano la vita».

L’Unità 28.04.14

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“Renzi, ecco il nuovo patto sul Senato”, di Francesco Bei

Un Senato eletto ma con i senatori scelti tra i consiglieri regionali. È questo il punto di mediazione sulla riforma di Palazzo Madama sul quale Matteo Renzi ricompatta il Pd e va all’affondo finale sulle riforme dopo la giravolta di Berlusconi. «In questo modo — spiega il premier — i senatori non assumerebbero compiti di giunta o di commissione, avrebbero l’incarico specifico di sedere in Senato. Sarebbero pagati dalla loro regione e non ci sarebbero aggravi di spesa ». Su questa ipotesi ci sarebbe anche il via libera del leader forzista che intanto in tv attacca il Colle: «Mi fece fare brutta figura con l’Ue, non firmando un decreto». Napolitano, dal canto suo, striglia le Camere sulle carceri e ringrazia il Papa per la telefonata a Pannella. Ormai è fatta. Il nuovo Senato non sarà elettivo ma formato da consiglieri regionali. Questi tuttavia lavoreranno a tempo pieno a palazzo Madama. In vista di mercoledì, quando i relatori Finocchiaro e Calderoli dovranno depositare il testo base della riforma, una trattativa riservata è stata condotta per tutto il fine settimana e avrebbe prodotto questa soluzione di compromesso. Su cui sarebbe anche arrivata, rivelano fonti di maggioranza, la benedizione del Quirinale.
L’accordo sul nuovo Senato «è ormai a un passo», conferma Matteo Renzi a In 1\ 2 ora . Certo, il premier continua a considerare come «punto di mediazione» quello di consiglieri regionali «che individuano al proprio interno quale di loro mandare al Senato ». Ma in realtà la trattativa sarebbe più avanti, impostata sulla proposta condivisa da Ncd e resa pubblica dal senatore lettiano Francesco Russo: nuovi senatori eletti dai cittadini insieme ai consigli regionali ma in un listino a parte, dunque consiglieri regionali a tutti gli effetti, pagati dalla loro regione ma scomputati dal totale.
Su questa clausola anche la minoranza bersaniana, che domani si ribattezzerà ufficialmente “area riformista” (aperta anche a lettiani e fioroniani), è pronta a chiudere l’intesa. Abbandonando Vannino Chiti e il suo progetto di Senato elettivo al suo destino. «Ci sono tutte le condizioni — conferma il “riformista” Alfredo D’Attorre — per trovare un buon accordo di maggioranza che coinvolga anche Berlusconi». E la proposta Chiti? «Bisogna interloquire civilmente con il senatore Chiti, ma il suo ddl non è la proposta di Area riformista».
Che il clima sia cambiato rispetto al muro contro muro dei giorni scorsi — un «pit stop» minimizza Renzi — lo dimostrano anche le parole del premier dall’Annunziata: «Sarei disonesto intellettualmente se dicessi che non è successo nulla. Berlusconi ha chiesto di cambiare alcune cose e credo sia del tutto legittimo che le riforme si facciano ascoltando Berlusconi, Grillo e anche la minoranza del Pd». Anche sulla data limite del 25 maggio, il capo del governo è conciliante: «Non mi impicco sulla data. Io comunque penso ci siano le condizioni per farlo entro il 25 maggio, se poi arriva il 7 giugno non è un problema».
Dopo le sparate di giovedì da Vespa, anche l’ex Cavaliere lascia intendere che la musica è cambiata. «Renzi in un Cdm autonomamente e senza ascoltarci — ricostruisce Berlusconi — ha deciso che il Senato sia composto tutto da sindaci e che il Capo dello Stato può nominare 21 membri, su questo abbiamo detto subito che non siamo d’accordo, e che su questa parte si doveva discutere: ho incontrato Renzi e ci siamo trovati subito d’accordo. L’importante è sederci al tavolo e ragionare su come individuare i nuovi membri del Senato. Io nella mia vita ho sempre mantenuto i patti».
Intanto Renzi, forse per allontanare il sospetto di essersi piegato ai diktat della minoranza interna, non rinuncia a tirare un calcio a quei «dirigenti politici di sinistra che vivono di pregiudizio». Quelli che lo accusano di «non essere di sinistra e di volere riforme autoritarie». Ma già «nel 1981 Enrico Berlinguer parlava di superamento del bicameralismo perfetto e dopo di lui nel ‘96 l’Ulivo e Prodi nel 2006». Attacco a cui nessuno risponde, ma D’Attorre — pur ribadendo l’intesa sul Senato — già individua il prossimo terreno di scontro con il segretario- premier: «Dopo le europee dovremo riparlare dell’Italicum. Ormai quella legge appartiene a un’altra stagione. Va cambiata sulle preferenze, sulla rappresentanza di genere e sulle soglie di sbarramento ». Oggi Renzi procederà all’ultima messa a punto della bozza costituzionale insieme al capogruppo Luigi Zanda e alla presidente della commissione Anna Finocchiaro. Poi domani affronterà la prova dell’assemblea dei senatori. Ultimo passaggio chiave, il seminario sulle riforme a cui saranno invitati anche quei «professoroni » contro cui polemizzò il ministro Boschi. Fra tutti Rodotà e Zagrebelsky.
Se l’opposizione interna al Pd è in via di superamento, il premier dovrà presto affrontare un’altra condizione che sta per porgli Angelino Alfano. Sempre sulla riforma costituzionale. A spiegarla è Andrea Augello, capogruppo Ncd in prima commissione: «Per blindare la riforma vogliamo che nella legge sia previsto comunque un referendum confermativo da tenersi al primo turno elettorale utile». Se Forza Italia si sfilasse, la maggioranza andrebbe avanti unita fino al referendum. Tenendo anche in vita la legislatura.

La Repubblica 28.04.14

"Il bricolage dei genitori per la scuola Senso civico o sconfitta della politica?", di Silvia Balestra

Da qualche anno, la scuola non è più solo quella dei bambini e degli insegnanti. Esiste anche una scuola dei genitori . I genitori sono spesso presenti (pure troppo, ci raccontano alcune cronache, ma questa è un’altra faccenda): vigilano, contribuiscono, partecipano. Spendono. In un modo senza precedenti, infatti, in questi anni molti genitori italiani si sono abituati a dedicare tempo e denaro a quella che ritengono una opportunità centrale nella formazione dei figli . Un’istituzione che però, anno dopo anno, hanno visto smontare, impoverire, colpire con tagli ingiusti (e non staremo qui a ricordare che sin dalla materna, in alcune zone, fra cui la ricchissima Lombardia, tocca portarsi da casa sapone e carta igienica). Dal 1999, con l’istituzione dell’autonomia scolastica, padri e madri sono stati esplicitamente invitati ad affiancare insegnanti e dirigenti nell’impegno di ampliare l’offerta formativa di ogni singola scuola. Eccoli allora arrivare dopo l’orario scolastico per riunirsi, confrontarsi, concertarsi. Nella gestione ordinaria, i genitori vengono coinvolti nel reperimento dei fondi: se vogliono rafforzare le occasioni di apprendimento e renderle più varie — uno specialista, una madrelingua, una serie di laboratori, per intendersi, o ancora materiale particolare, attività curricolari ed extracurricolari, corsi vari — devono ingegnarsi per far arrivare i famosi «denari» che rimpinguino le casse. Fioriscono allora, ogni inizio anno, proposte, iniziative, gruppi e gruppetti: la commissione Cultura, la commissione Sport, la commissione Biblioteca e, last but not least, nelle scuole con il tempo pieno, la commissione Mensa.

Se l’ultima è una commissione di vigilanza e controllo, le altre si occupano, dunque, in soldoni, di fund raising o — è il caso della commissione Biblioteca — di erogazione di un servizio, il prestito libri, che pure prevederebbe competenze e impegno specifici. Ma va bene, ben vengano. Ben vengano genitori e nonni che si alternano al prestito libri, accogliendo bambini e ragazzi in ambienti curati e, a volte, da loro stessi ripristinati: muri ridipinti, libri ricatalogati, arredi scandinavi colorati e razionali acquistati con i suddetti fondi. E ben vengano anche tutte le attività che creano confronto e socializzazione. Ecco, allora, il teatro, la grande festa di Natale con i laboratori e la vendita torte, la corsa campestre che corona la fine d’anno con le batterie di classi che si sfidano al vortex (il lancio di un peso di gomma) e nel salto in lungo (lì si pagano iscrizione e divisa), la vendita grembiuli con il logo della scuola (scorrendo la mia rubrica del telefono ho trovato una misteriosa «Anna dei Grembiuli» e non capivo chi fosse: una nobile? una password? l’eroina di un libro?, poi mi sono ricordata che un grembiule sparisce o si sbrega solo e quando i grandi magazzini se ne sono già disfatti da un pezzo e, per fortuna, esistono le mamme dei grembiuli, che non si lasciano cogliere impreparate e te ne vendono uno in qualsiasi periodo dell’anno), le lotterie, le tombolate, il diario con gli sponsor, le feste, i mercatini e gli aperitivi.

Questo alle elementari. Passando alle medie, l’attività del comitato genitori — l’organo che organizza, struttura, presiede e anima tutte queste iniziative — comincia a perdere un po’ di giri : i genitori non accompagnano più i figli a scuola e dunque non si incrociano più tanto, si fatica a raggiungere quelli che lavorano, ci si fa vedere solo alle assemblee di classe (forse) e si è comunque un po’ tutti più stanchi, e anche attempati, e ci si limita a organizzare — con servizio d’ordine e sound-system, però — le feste per i teenager che nelle grandi città hanno pochi spazi e possibilità.

Bello, in fondo. Un segno di partecipazione e interesse nella cosa pubblica diretto, operoso, dinamico, che coinvolge nell’istruzione anche con l’esempio stesso: se la scuola è di tutti, così lo sarà ancora di più . Cresce il senso civico, si dà un esempio ai figli di tutti (pure di quelli che non possono esserci, o di quelli che se ne fregano), si vigila, si aiuta. Si è solidali, si provvede. E però. E però c’è il rischio che dal fare si passi allo strafare. Che dalla partecipazione si passi alla rassegnazione («o lo facciamo noi o non lo farà nessuno» è una frase ricattatoria che ho sentito spesso: ricattatoria non da parte dei genitori ma da parte di istituzioni silenti). Perché dalla (ancorché febbrile) ordinaria attività di commissione, nei casi eccezionali tocca rimboccarsi le maniche. Ed ecco i genitori che si improvvisano nel finesettimana imbianchini, carpentieri, idraulici, falegnametti bricoleur e si ingegnano a ripristinare infissi, rinfrescare muri scorticati, rimontare manopole di rubinetti, e così via.

Le foto di queste «incursioni» le abbiamo viste qualche volta sui giornali, o in qualche speciale delle trasmissioni di inchiesta : se da un lato fioccano gli elogi per lo spirito di iniziativa, dall’altro ci si rende tutti conto che si tratta di una sconfitta. La sconfitta delle istituzioni che dovrebbero occuparsene: lo stato disastrato in cui versano tanti edifici pubblici, vecchi, sfasciati, pericolosi (ahimè, anche qui le cronache sono drammatiche), lasciati andare per mancanza di fondi e a volte proprio incuria, è noto. Il problema dell’edilizia scolastica, un buon argomento da campagna elettorale. Il confronto con le scuole di altri Stati europei, pietoso e umiliante.

Qui il discorso sulla «scuola dei genitori» diventa ambiguo, scivoloso, contraddittorio. Una sera ho sentito in tv lo sceneggiatore de La grande bellezza complimentarsi con se stesso, orgoglioso di aver portato a scuola «tre computer vecchi». Ma i nostri bambini, ho pensato, non hanno diritto a computer nuovi, veloci? Non sono loro i «nativi digitali»? E la scuola che cos’è, una discarica dove smaltire qualche vecchio cassone con lo schermo catodico? E la burocrazia: una volta che in classe di mio figlio si è rotto il cavo della Lim (la tanto sbandierata Lavagna interattiva multimediale) è di nuovo partita la cordata dei genitori. «Una manciata di euro e i ragazzi avranno di nuovo il collegamento, ché ora che aspettiamo le delibere, i soldi del ministero e il resto, l’anno sarà bello che finito!». Ma — ho ribattuto — non è giusto. La prossima volta compreremo i banchi, le sedie». Risultato: il cavo è stato comprato da noi.

La questione però rimane: interessante il coinvolgimento dei genitori. Ma che non diventi un alibi per demandare, appoggiarsi, tagliare ulteriormente . I genitori vigilino, siano presenti, partecipino, ma non suppliscano. Anzi, pretendano che dirigenti scolastici, ministero e governi vari ritornino a fare il loro dovere in termini di spese e investimenti. Che militanza, forza, presenza di tutti si trasformino in stimolo e progresso. E non nel contrario.

Il Corriere della Sera 28.04.14

"Cefalonia, l’ultima verità", di Corrado Stajano

Più di settant’anni dopo pare di sentire ancora l’odore del sangue nel leggere il libro di Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia (Gaspari). Si rimane sopraffatti da una nera cappa di violenza e di morte tra le pagine dolorose e angoscianti di questo saggio minuziosamente documentato che raccontando nudi fatti è un terribile grido contro la guerra e la sua follia.
Nella bella isola del mar Ionio, tra gli ulivi e i mandorli, le odorose ginestre, i fichidindia, i campi coi muretti a secco, le piazzette dei paesi che rammentano il nostro Sud, i vecchi seduti sulle panchine della villa, il giardino pubblico, si è consumata nel settembre 1943 una strage che ha disonorato per sempre l’esercito di Hitler: «Uno tra i più terribili crimini commessi dalla Wehrmacht nel corso del secondo conflitto mondiale», scrive Meyer.
A Cefalonia si avverte la contraddizione tra la natura innocente e morbida, ma che inganna i suoi figli, e la furia dell’uomo, l’odio, la vendetta. L’isola è antica di bellezza, di storia, di cultura, di poesia, non lontana dal luogo natale di Ugo Foscolo — Zacinto mia, «O materna mia terra» — , a un braccio di mare da Itaca, il paradiso perduto del divino Ulisse dove l’eroe omerico, quando finalmente arrivò in patria dopo le sue infinite peripezie, «baciò le zolle dono di biade».
Supera ogni macabra immaginazione quel che accadde a Cefalonia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nella violazione di ogni legge del diritto internazionale e dell’onor militare, tralasciando l’umana pietà. Furono assassinati dai nazisti migliaia di soldati e di ufficiali italiani della divisione «Acqui», nelle cave di pietra, a ridosso dei costoni rocciosi, nei valloni trasformati in piazze d’armi, lungo gli argini che i plotoni d’esecuzione fecero diventare tirassegni. Lasciati marcire, bruciati — montagne di cadaveri, ossa nauseabonde —, sepolti dai greci per i quali gli italiani, negli anni passati, non erano stati «la brava gente» della leggenda bugiarda e assolutoria.
Nei decenni la bibliografia su Cefalonia è stata nutrita. Quel massacro della Wehrmacht, bavaresi, austriaci, altoatesini comandati da ufficiali di educazione prussiana divenuti nazisti efferati (molti di loro dopo la guerra tornarono a far parte della Bundeswehr), colpì gli storici, i narratori, i giornalisti. Anche perché autori di quell’eccidio furibondo non erano state le SS, le falangi del nazismo.
Il massacro di Cefalonia — la puntigliosa prefazione di Giorgio Rochat mette in rilievo l’ampiezza della documentazione del saggio e la grande onestà di Meyer — è l’opera totale, definitiva su quell’eccidio, per la visione d’insieme della guerra nei Balcani e per la cura ossessiva del particolare.
Imprenditore di successo, l’autore del saggio divenne uno storico di prim’ordine per motivi affettivi. Suo padre, ufficiale pagatore in un reparto tedesco, nel marzo 1943 fu rapito e ucciso dai partigiani. Il figlio, dopo la guerra, andò in Grecia per sapere del padre, ne riportò in patria i resti e raccontò in un libro la sua odissea. In quell’occasione raccolse molte notizie e documenti e seppe di un reparto d’élite della Wehrmacht, la 1ª divisione da montagna, che si era macchiata di orribili delitti. Nella ricerca arrivò così a Cefalonia.
Meyer, in questo saggio che esce postumo in Italia, ha analizzato libri e documenti, è entrato nella burocrazia della guerra e dei processi del dopoguerra, ha letto e ascoltato i radiomessaggi, i rapporti, gli ordini, le dichiarazioni giurate, i diari dei combattenti.
Che cosa accadde a Cefalonia. La sera dell’armistizio, per ordine del capo di stato maggiore della Wehrmacht, il generale Alfred Jodl, entra in vigore il piano «Achse» che prevede l’occupazione della Grecia presidiata dalle truppe italiane e il disarmo del regio esercito: non ha importanza che in Grecia le divisioni italiane siano sette e quelle tedesche quattro, con gli organici ancora incompleti.
Antonio Gandin, che dal giugno del 1943 comanda la divisione «Acqui» — 525 ufficiali, 11.500 sottufficiali e soldati —, non è un generale qualunque: dal 1940 è stato capo del reparto operativo del Comando supremo, un incarico di grande responsabilità. Il comandante dell’XI armata italiana, il generale Carlo Vecchiarelli, suo superiore, tratta subito la resa coi tedeschi, cerca di ottenere, senza riuscirci, condizioni onorevoli. Gandin rifiuta di obbedire al suo ordine di arrendersi.
Mentre i tedeschi, a Cefalonia, dove sono numericamente assai inferiori — un reggimento, 2.000 uomini —, danno a Gandin un ultimatum per il disarmo della divisione, il Comando supremo da Brindisi invia un radiogramma che ordina alla divisione «Acqui» di resistere «con le armi at intimidazione tedesca di disarmo at Cefalonia et Corfù et altre isole».
Gandin temporeggia. Poi i tedeschi attaccano dalla parte di Argostoli, il capoluogo dell’isola. Gli italiani resistono nonostante 72 Stukas sgancino 32 tonnellate di bombe. I tedeschi si ritirano, Gandin non sa sfruttare il momento favorevole, non incalza i tedeschi sconfitti e sbandati: arrivano i rinforzi, ma una motozattera viene affondata dall’artiglieria italiana nella baia di Vatsa, con morti e feriti.
È un momento di euforia. Tra il 13 e il 14 settembre il generale Edoardo Gherzi, con il consenso di Gandin, invia un messaggio radio ai comandanti di battaglione della divisione: i soldati vogliono combattere o vogliono cedere le armi? Unanimemente, ufficiali e truppa, manifestano la loro decisione di battersi.
Dopo la guerra susciterà scandalo e sarà strumentalizzato quello che viene chiamato referendum perché è fuori dalle regole di un esercito. Meyer non gli dà importanza, lo definisce «una sommaria consultazione di reparti». Giorgio Rochat, nel 2006, scriverà della difficoltà di capire come venga giudicata insubordinazione e rivolta quella richiesta di combattere anche se espressa in forma poco ortodossa.
(Tutto avviene in giorni di catastrofica emergenza, subito dopo l’armistizio, test del crollo dell’Italia fascista, mentre il re, il capo del governo Badoglio, i generali sono scappati da Roma imbarcandosi a spintoni sulla corvetta Baionetta che li porta a Brindisi. Cefalonia non è l’inizio della Resistenza, se non per un gruppo di giovani ufficiali, ma è di certo il doloroso rifiuto della prepotenza).
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in visita a Cefalonia il primo marzo 2001, rende onore ai caduti della divisione «Acqui», i soldati con le mostrine gialle: «Decisero di non cedere le armi, preferirono combattere e morire per la patria tenendo fede al giuramento».

***
A Cefalonia le cose precipitano. Esiste un ordine di Hitler fuori di sé per il tradimento: tutti gli italiani dell’isola devono essere fucilati. I tedeschi sono riusciti a far sbarcare i rinforzi, due compagnie di fanteria, due batterie di artiglieria, un battaglione alpino. Ma è l’aviazione tedesca a risolvere il conflitto martellando l’isola. La volontà di combattere degli italiani svanisce, in contraddizione con il famoso referendum. I tedeschi, soldati nati, sono inferociti contro gli ex alleati. La fedeltà, anche per i criminali, è un valore sommo per il mondo germanico. Gli italiani, in superiorità numerica, si arrendono ovunque, le tonnellate di bombe degli Stukas sono micidiali.
«Gli ammutinati», «i franchi tiratori», come erano definiti gli italiani, vengono fucilati subito dopo la cattura. Dal generale Gandin all’ultimo soldato. Quasi quattromila morti sull’isola, 1.346 in mare sulle navi affondate.
Il generale Hubert Lanz, il comandante della 1ª divisione da montagna, che a un certo punto avrebbe potuto dar l’ordine di smettere di uccidere, nel lezzo nauseante dei cadaveri in decomposizione, vide tutto e tutto sentì. Ma al processo di Norimberga disse di non aver visto e sentito nulla. Condannato nel 1948 a 12 anni, rapidamente amnistiato, nel 1951 era già un uomo libero.
Resta il nudo elenco dei luoghi della morte innocente: Kardakata, Dilinata, Pharsa, Argostoli, Razata, Frankata, Lakithra, Santa Barbara, Capo San Teodoro, Capo Munta, Cimitero di Drapanos, Capo Lardigò. E poi la Casetta Rossa, il posto martire di 350 ufficiali a Troianata, dove furono fucilati nella schiena seicento soldati in un vallone che ricorda Portella della Ginestra.

Il Corriere della Sera 27.04.14