attualità, politica italiana

"Il Ppe e l’amico imbarazzante", di Paolo Soldini

Forse non sapremo mai che cosa è successo tra Roma, Bruxelles e Berlino nelle 48 ore che sono trascorse tra la disastrosa sparata di Berlusconi sui tedeschi «per i quali i campi di concentramento non ci sono mai stati» e le durissime con- danne arrivate ieri prima da Juncker e poi dal portavoce di Merkel. Eppure sarebbe interessante saperlo perché quel che è accaduto tra il Ppe e l’ancora leader di FI nelle ultime ore potrebbe aiutarci molto a capire che cosa sta maturando nel seno del più grande partito del continente a pochi giorni dalle Europee.

Vediamo la sequenza dei fatti. L’ex cavaliere si produce nelle sue scempiaggini alla presentazione dei candidati di Forza Italia sabato pomeriggio a Milano. Immediate le forti reazioni di tutti gli esponenti dei partiti europei, sinistre radicali, socialisti e democratici, liberali e Verdi, con l’unica eccezione del Ppe. Nonostante le sollecitazioni che vengono da ogni parte, e nonostante l’evidentissimo disagio dei pochi popolari che non riescono a sfuggire ai cronisti nonché le voci di una fortissima irritazione alla cancelleria di Berlino, i dirigenti del partito popolare tacciono fino alla tarda mattinata di ieri, quando arriva la pesante reprimenda di Juncker accompagnata da una ultimativa sollecitazione a Berlusconi perché chieda scusa. Passano pochi minuti e anche la rabbia di Frau Merkel viene resa pubblica con una dichiarazione del portavoce Steffen Seibert.
Come si spiegano prima il silenzio e poi la sua clamorosa rottura? Prima ipotesi. Il Ppe all’inizio ha cercato di ingoiare l’indigestissimo rospo cucinato da Berlusconi per una ragione di calcolo elettorale: non si può permettere di rompere con Forza Italia dei cui voti ha un disperato bisogno visto che i sondaggi fanno prevedere un incertissimo testa-a-testa con i socialisti. In gioco non è soltanto il primato dei voti, ma anche, e soprattutto, la possibilità di piazzare il proprio candidato Jean-Claude Juncker in testa alle candidature per la presidenza della Commissione. D’altra parte, in nome di simili calcoli di bottega, il Ppe in passato ha soprasseduto parecchie volte a una resa dei conti con Berlusconi, anche quando l’indecenza politica dell’italiano si era spinta tanto oltre da far apparire inevitabile (e imminente) la sua cacciata dalla famiglia popolare. Come quando aveva messo in dubbio esplicitamente l’euro o sostenuto in tv la teoria del complotto messo in piedi dalle banche tedesche per pompare lo spread e farlo cadere con la complicità di Napolitano. E anche quando alla guida del gruppo parlamentare e poi (dopo la morte di Wilfried Martens nel novembre scorso) alla presidenza del Ppe era arrivato il francese Joseph Daul che, se fosse stato per lui, l’avrebbe espulso seduta stante. La stessa pazienza, peraltro, i responsabili del Ppe hanno dimostrato con un altro esagitato critico-critico dell’Europa: l’ungherese Viktor Orbàn. Il quale però ha avuto sempre l’accortezza di non inimicarsi i tedeschi.

Ma se il problema era quello di conservarsi i voti di Forza Italia, che cosa è accaduto allora che ha fatto cambiare idea a Juncker e a Frau Merkel? È possibile che i dirigenti popolari si siano fatti due calcoli e abbiano concluso che il partito di Berlusconi, in netto calo secondo tutti i sondaggi, italiani ed europei, non sia comunque in grado di mantenere una pattuglia di europarlamentari abbastanza consistente per assicurare il vantaggio sui socialisti. Oppure che abbiano ritenuto che il fatto di non reagire alla volgare provocazione su un tema così delicato sarebbe stato controproducente perché avrebbe disgustato una parte degli elettori, specie quelli più legati ai valori cristiani e, va da sé, quelli tedeschi. Oppure tutte e due le cose. In ogni caso, possono aver pensato che prendere le distanze e tornare ad evocare l’ipotesi della cacciata del reprobo sia una buona mossa elettorale.
Ma c’è anche un’altra ipotesi, più nobile: che la durezza delle reazioni derivi da una questione di principio, che il candidato del Ppe alla guida della Commissione e la cancelliera hanno voluto ribadire di fronte all’opinione pubblica europea (ed italiana). Nella sua assoluta inconsapevolezza storica Berlusconi con la sua gaffe ha toccato una corda molto sensibile nella cultura del mondo germanico. Il tema dei conti da fare con il «passato che non passa» attraversa la coscienza pubblica della Germania e (forse un po’ meno) dell’Austria fin da quando, all’inizio degli anni ’60, con i processi agli aguzzini di Auschwitz si è aperto un confronto profondo, e spesso doloroso perché attraversava le generazioni e le famiglie, con i crimini del nazismo e le colpe di chi non poteva non sapere. Un confronto che merita rispetto e dal quale altre nazioni hanno solo da imparare. Anche l’Italia. Dire che i tedeschi negano l’esistenza dei Lager e della Shoah è, prima che un’offesa, una stupidaggine, smentita fra l’altro dalle tantissime testimonianze fisiche della memoria che chiunque può vedere nelle città della Germania. A cominciare da Berlino, dove Berlusconi si è recato spesso e dove, un tempo, cercava pure «un giudice».

L’Unità 29.04.14

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“Se questo è uno statista”, di Massimo Giannini

Se questo è un uomo di Stato. Ad ascoltare i deliri con i quali Silvio Berlusconi ha aperto la sua campagna elettorale, non si può trarre una conclusione diversa. Nessuno si faceva troppe illusioni: un Ventennio di autocrazia populista e di macelleria costituzionale parla per lui. Ma dopo l’assegnazione ai servizi sociali per la condanna al processo Mediaset ci si aspettava almeno una modica quantità di autocontrollo. Non un «ravvedimento », troppo generosamente auspicato dal tribunale di sorveglianza nelle motivazioni con le quali l’ex Cavaliere è stato «affidato» all’Istituto di Cesano Boscone. Ma almeno un po’ di misura, nell’apprezzare l’insostenibile leggerezza della pena finale (7 giorni di «assistenza» spalmati sui prossimi 11 mesi), rispetto alla comprensibile pesantezza della pena iniziale (4 anni di carcere). Invece no. Il senso dello Stato, il rispetto delle istituzioni, il principio di legalità: nulla di tutto questo appartiene alla cultura politica di Berlusconi.
L’ACCUSA ai tedeschi, secondo i quali «i lager non sono mai esistiti», è un insulto alla Storia, prima ancora che alla Germania. La frase, falsa e sconclusionata, è molto più che l’ennesimo «infortunio» di un gaffeur planetario. È invece uno scandalo diplomatico, che fa un danno enorme all’immagine dell’Italia, e non solo al capo di Forza Italia. Le reazioni indignate, che uniscono la Merkel e i rappresentanti di Ppe e Pse, confermano la gravità dell’incidente. E solo la malafede manipolatoria può spingere Berlusconi a replicare che si tratta dell’ennesima «trappola» ordita delle sinistre, e a ribadire la sua «profonda amicizia con il popolo ebraico». Qui in gioco non c’è un presunto «antisemitismo » berlusconiano, che nessuno ha denunciato. C’è invece l’assoluto cinismo del leader di una destra irrecuperabile, che per lucrare una miserabile rendita elettorale in vista del voto del 25 maggio non esita a inventare il solito «nemico esterno», cioè la Germania. A evocare il «non evocabile », cioè i lager. Ad accostare l’inaccostabile, cioè il Fiscal Compact con la Shoah. C’è dunque lo stesso nichilismo morale dell’ex premier di un governo impresentabile, che per difendersi dalle critiche dei socialisti europei dà del «kapò» a Martin Schultz.
L’accusa al presidente della Repubblica e ai magistrati, colpevole il primo di avergli negato la grazia e i secondi di averlo infangato con una «sentenza mostruosa», è un’offesa alla legalità, prima ancora che alla verità. Sono tristemente note, le spallate continue che lo «statista» di Arcore ha tentato di assestare al sistema dal 1994 ad oggi, tra leggi ad personam e intimidazioni ai pm, alla Consulta, al Quirinale. Ma non erano altrettanto note le rivelazioni fatte dallo stesso ex Cavaliere, che a «Piazza pulita» afferma impunemente di aver detto al Capo dello Stato «tu hai il dovere morale di darmi la grazia motu proprio». In questo «atto sedizioso» si racchiude, tutto intero, il berlusconismo. L’idea malsana che l’unzione popolare purifica da tutti i reati e da tutti i peccati. Che le istituzioni ne debbano solo prendere atto, compiendo di propria iniziativa il passo che il pregiudicato non vuole richiedere, perché questo equivarrebbe a riconoscere la sua responsabilità penale. Che la Costituzione, formale e materiale, si debba snaturare per questo, introiettando l’anomalia cesarista di un cittadino che si pretende diverso da tutti gli altri, dentro e fuori dalle aule di giustizia, e che pertanto va considerato «legibus solutus» per il passato, il presente e il futuro. Se la rivelazione berlusconiana è vera (e non c’è ragione di credere che non lo sia) bisogna ringraziare una volta di più Giorgio Napolitano, per non aver ceduto di un millimetro e non essersi prestato a questo scempio etico, giuridico e politico.
Quanto alla «sentenza mostruosa», in un Paese che perde troppo facilmente la memoria non finiremo mai di ricordare che la condanna dell’ex Cavaliere nasce dalla gravità del reato commesso, accertato senza alcun ragionevole dubbio nei tre gradi di giudizio: una frode fiscale da 7 milioni di euro, parte di una provvista in nero da 370 milioni di dollari con i quali il condannato pagava mazzette a magistrati, funzionari pubblici e parlamentari. Cosa ci sia di «mostruoso», nell’espiare un delitto così grave assistendo gli anziani per un pomeriggio a settimana, lo vede chiunque. Berlusconi è l’opposto che un «perseguitato». Pur essendo riconosciuto come «persona ancora socialmente pericolosa», ha beneficiato di uno «statuto speciale» che non limita la sua «agibilità politica» né preclude la sua campagna elettorale (cominciata infatti proprio con le armi distruttive dell’anti- europeismo e dell’anti-Stato).
Resta da chiedersi perché Berlusconi continui imperterrito a sparare sul Colle e sulle toghe, dal momento che la Sorveglianza gli ha concesso i servizi sociali purché si attenga alle «regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni » ed eviti le frasi «offensive» e di «spregio nei confronti dell’ordine giudiziario». La risposta può essere una sola: l’ex Cavaliere provoca, e forse spera che la magistratura sia costretta suo malgrado a dovergli revocare l’affidamento alla Sacra Famiglia, e a disporre gli arresti domiciliarsi. Sarebbe il famoso «finale da Caimano». Il pretesto definitivo per lanciarsi da «martire della libertà» nel fuoco della battaglia elettorale. La scelta estrema per cercare di risalire l’abisso dei consensi in fuga, per sottrarsi all’»abbraccio mortale» con Renzi e per recuperare posizioni su Grillo che il 26 maggio rischia di diventare almeno il più grande partito italiano dopo il Pd, pronto per l’eventuale ballottaggio previsto dall’Italicum. È questo, dunque, il grumo di rabbia sociale e politica con il quale il governo e il Pd renziano devono fare i conti nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Un gioco al massacro tra il populismo berlusconiano e il populismo grillino. Il terreno peggiore, per costruire e tenere in piedi il cantiere delle riforme.

La Repubblica 29.04.14