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"L'enorme bugia degli sprechi scolastici", di Mario Pirani

Talvolta qualche articolo sulla scuola suscita reazioni interessanti. Così il nostro rilievo del 14 aprìle us ha provocato più di una ripresa. Un professore di Palermo scrive: «C’è qualcosa che da anni mi frulla per la testa. La scuola italiana è stata tagliata di 133.000 posti e di oltre tre miliardi di euro negli anni del berlusconismo, facendo passare l’idea che questo fosse un risparmio e che nella scuola vi fossero troppi sprechi. Si tratta di una enorme bugia e se non riprenderemo ad investire seriamente nella scuola non usciremo mai dalla crisi. Ce lo hanno di nuovo ricordato gli esperti di Bruxelles, sottolineando ancora una volta che soffriamo di uno dei più alti tassi d’abbandono del sistema scolastico europeo con previsioni che ci piazzano per il 2020 al 28°posto fra i laureati europei. La situazione vista dall’interno, (insegno italiano in un liceo di Palermo) nonostante i tanti proclami che si sono susseguiti in questi anni, da cui non è uscito nulla di concreto per la scuola, resta sostanzialmente immobile. La spiegazione — secondo la famosa “invarianza della spesa” è semplice: se occorre “fare” con le risorse che derivano dai tagli, i fatti sono due, o si taglia o si lascia tutto come sta. Nella scuola, checché se ne dica, non ci sono sprechi; se ce ne fossero le famiglie non sarebbero costrette a sborsare 500 milioni di euro all’anno a titolo di “contributi volontari”. Neppure la Gelmini è riuscita a trovarne e a tagliarli e si è dovuta accollare della responsabilità di diminuire le ore di lezione in quasi tutti i livelli scolastici. Un ultimo paragone: in Finlandia i ragazzi stanno a scuola il più possibile, da noi il meno possibile ».
Si seguita vacuamente a parlare di autonomia scolastica, senza avere neppure il coraggio di dire che il nostro “era” un sistema scolastico con il suo impianto gerarchico, per quanto burocratico. Alla sua testa formalmente governava il ministro e più sotto, via via, i Provveditorati cui sottostavano le Scuole, rette da una rete di circolari. Ora, con l’introduzione più o meno fittizia dell’Autonomia, abbiamo apparentemente smantellato il vecchio ordinamento ma non ne abbiamo creato uno nuovo, infatti gli istituti residui non sono autonomi.
Secondo le linee messe a punto dall’Unione europea un organismo è autonomo quando è proprietario degli edifici, ha totale autonomia di governance e gestisce autonomamente il personale. Le scuole non hanno niente di tutto questo mentre le Università sì e infatti non abbiamo bisogno di autorità locali per gestirle: il Miur decide i finanziamenti alle Università in base a criteri generali. Oggi invece la scuola è un “non sistema”. Non abbiamo più un sistema piramidale: si pensi che in Toscana abbiamo un solo provveditore per tre province. Inoltre stiamo abolendo le province; perché dovrebbero rimanere i Provveditorati? Sulle autonomie ognuno dice la sua, ma non è così. Dare autonomia di gestione alle scuole dovrebbe significare un vero sistema di valutazione che non valuti, però, solo gli apprendimenti. La scuola non è infatti solo apprendimento ma un ambiente sociale di formazione e di educazione. E’ il primo “ambiente” sociale dove si cresce, si formano le relazioni, il modo di stare con gli altri. Sono questi valori da difendere, ma nello stesso tempo dobbiamo puntare alle competenze. Non basta più conoscere la grammatica inglese o francese; bisogna capire e parlare una lingua, esercitare una reale competenza linguistica. E questo vale per tutte le materie: passare dalle conoscenze alle competenze è determinante per il successo della scuola e dei nostri ragazzi.

La Repubblica 28.04.14