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"La riforma taglia teatri", di Francesca De Sanctis

Certo, fa uno strano effetto leggere – scritte nero su bianco – formule algebriche, medie aritmetiche, frasi che parlano di insiemi e sotto-insiemi mentre si sta sfogliando il Decreto ministeriale intitolato «Nuovi criteri e modalità per l’erogazione, l’anticipazione e la liquidazione dei contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul fondo unico per lo spettacolo di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163». Parliamo della tanto atte- sa riforma sul teatro prevista dal Decreto Legge «Valore Cultura» che il ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini si accinge a varare. Il testo è stato inviato la scorsa settimana alla Conferenza Unificata (composta da Regione, Provincia e Comune) che dovrà dare il suo parere, necessario ma non vincolante, entro sessanta giorni. I numeri fanno una certa impressione, ma diventano drammatici dopo aver fatto due conti, quando cioè ci si accorge che resta fuori circa la metà delle compagnie e dei teatri finora finanziati. Alcuni elementi di novità ci sono e riguardano, per esempio, la nascita dei Teatri nazionali (ma quanti e quali saranno?); l’apertura ai giovani che potranno finalmente chiedere un finanziamento senza aspettare i tre anni; il sostegno alle residenze; la triennalità dei progetti di attività musicali, teatrali, di danza e circensi.
Fermiamoci per un attimo al primo punto. Non esisteranno più i Teatri Stabili così come noi li intendiamo (oggi in Italia sono 17), che saranno sostituiti dai Teatri Nazionali (sono così definiti «gli organismi che svolgono attività teatrale di notevole prestigio nazionale e internazionale e che si connotino per la loro tradizione e storicità»). Fra i criteri richiesti: 240 giornate recitative di produzione all’anno, 1500 giornate lavorative, almeno 1000 posti complessivi e l’impegno di enti territoriali o altri enti pubblici a concedere contributi per una somma complessiva pari al cento per cento del contributo statale.
Probabilmente ogni Regione vorrà avere il proprio Teatro Nazionale, di sicuro non potranno farne a meno le grandi città, Roma compresa, nonostante la situazione assurda e imbarazzante che sta vivendo (il Teatro di Roma, dopo aver perso solo dopo due mesi Ninni Cutaia perché «incompatibile», è ancora senza direttore… per ora il nome che sembra avere più probabilità di farcela è quello di Antonio Calbi). A proposito, il direttore, di nomina ministeriale, non potrà svolgere attività artistica. Si eviteranno così, finalmente, quelle spiacevoli situazioni in cui i registi direttori di teatro mettono in cartellone, guarda caso, i loro spettacoli.
Veniamo ora ai «teatri di rilevante interesse culturale», ovvero gli «organismi che svolgano attività di produzione teatrale di rilevante interesse culturale prevalentemente nell’ambito della regione di appartenenza». I criteri richiesti, in questo caso sono: 160 giornate recitative di produzione l’anno, 6000 giornate lavorative, 400 posti in totale e l’impegno di enti territoriali o altri enti pubblici a concedere contributi per una somma complessivamente pari al cinquanta per cento del contributo statale.
E qui scatta il campanello d’allarme da parte dei privati che hanno la loro sede da Roma in giù. Eh sì, perché chi dirige e gestisce le sale private nel centro-sud non ha certo i numeri di cui si parla nel decreto. In poche parole: chi riesce ad avere il 50% di contributi pubblici? Ben po- chi, dunque, automaticamente sono fuori molti, moltissimi teatri. Ed ecco che proprio dai privati arriva il grido d’allarme: questo decreto spacca l’Italia in due, escludendo automaticamente la metà dei teatri. Non solo. La situazione peggiora se andiamo avanti nella lettura del decreto: imprese di produzione teatrale, centri di produzione, per non parlare della danza… C’è poco da fare, i criteri richiesti sono molto lontani dalla realtà.
Numeri, numeri, numeri. Ecco il punto debole del testo, che fa fuori in un colpo solo i «piccoli» e i deboli e che risulta essere fin troppo burocratico. Leggere l’allegato A per credere: le formule algebriche non s’erano davvero ancora mai viste. Speriamo che il ministro Franceschini abbia il tempo di rivedere il testo, perché così com’è lascia scontenti tanti, anzi troppi.

L’Unità 27.04.14

"Le famiglie sono precarie ma vedono uno spiraglio", di Giuseppe Caruso

Le Famiglie italiane sono sempre più povere e sfiduciate. È un quadro negativo quello che emerge da due inchieste, condotte rispettivamente da Confcommercio-Censis nel primo caso e da Coldiretti nel secondo. Due inchieste che hanno avuto come oggetto proprio la fiducia delle famiglie del Belpaese e le loro crescenti difficoltà economiche nei consumi, in modo particolare quelli alimentari.
CRISI
Nell’indagine condotta da Confcommercio-Censis emerge con forza come il protrarsi della crisi, la mancanza di lavoro, il peso delle tasse continuino ad alimentare lo stato di forte difficoltà in cui si trovano le famiglie italiane, che rispetto alla propria situazione economica e capacità di spesa avvertono in quasi l’80% dei casi una sensazione di precarietà e instabilità. Solo un quinto delle famiglie ritiene invece di essere in una condizione di solidità. L’incertezza è il sentimento prevalente, con una quota di quasi il 40% dei nuclei familiari che vive adottando un comportamento di attendismo, in attesa dell’evolversi degli eventi.

L’inchiesta sottolinea come, nonostante tutto, ci sia comunque attesa nei confronti del nuovo esecutivo guidato da Matteo Renzi: ben il 66% del campione ritiene che il governo sia in grado di far superare al Paese la lunga fase di crisi economica, mentre poco meno di un quarto è convinto del contrario. Ancora più alta è la fetta (oltre il 75%) di chi ritiene che comunque l’esecutivo riuscirà, almeno in parte, a realizzare il piano di riforme annunciato.

TAVOLA

Tra i consumi che gli italiani hanno tagliato c’è anche il cibo. Secondo l’indagine condotta dalla Coldiretti, l’economia domestica torna in quasi tre famiglie su quattro (73 per cento) che han- no fatto attenzione agli sprechi a tavola, con il 45% che li ha ridotti, mentre il 28% per cento li ha addirittura annullati. Solo il restante 26% non ha cambiato abitudini. Tra chi ha tagliato gli sprechi, la stragrande maggioranza fa la spesa in modo più oculato, mentre altri guardano con più attenzione alla data di scadenza o riducono le dosi acquistate. Sono invece (solo) poco più della metà degli intervistati quelli che riutilizzano ciò che avanza.

Il risultato di questo mutato atteggiamento è rappresentato dal drammatico crollo storico della spesa che si è verificato nel 2013. Le famiglie italiane hanno tagliato diversi alimenti considerati “sacri” nelle tavole del Belpaese, come il pesce fresco, la pasta, il latte, l`olio di oliva extravergine, l`ortofrutta e la carne. Coldiretti sottolinea come la tendenza dominante sia quella di privilegiare l’acquisto di materie prime di base come farina e miele, ma anche dei preparati per dolci. Cambia dunque il carrello della spesa degli italiani dove trovano più spazio le materie prime per la preparazione dei cibi a scapito di cibi pronti come ad esempio le merendine o dei gelati.

A cambiare sono anche i luoghi tradizionali della spesa, con ben 15 milioni di italiani che nel 2013 hanno acquistato il cibo nei mercati degli agricoltori, l`unica forma di distribuzione commerciale in crescita in tempo di crisi. Nei mercati degli agricoltori si trovano prodotti locali del territorio, messi in vendita direttamente dall`agricoltore nel rispetto di precise regole comporta- mentali e di un codice etico ambientale, come per esempio il fatto che i cibi in vendita non devono percorrere gran- di distanze, e sotto la verifica di un sistema di controllo di un ente terzo. Secondo Coldiretti l`attenzione alla spesa e il contenimento degli sprechi sono forse gli unici aspetti positivi della crisi, in una situazione in cui ogni persona in Italia ha buttato nel bidone della spazzatura ben 76 chili di prodotti alimentari durante l`anno. Per effetto della crisi sulle tavole degli italiani tornano ad esempio i piatti del giorno dopo come polpette e macedonia, un modo per non gettare nella spazzatura gli avanzi ed aiutare a non far sparire antiche tradizioni culinarie.

L’Unità 27.04.14

"Riappropriamoci dei saperi", di Gabriele Pedullà

Se la crisi delle humanities è un prisma dalle molte facce, un ruolo speciale nel dibattito spetta naturalmente a chi nella scuola e nell’università insegna: se non altro perché il contatto costante con i ventenni assicura una qualche capacità di previsione sul mondo che verrà. Ma parlare da professore impone oggi soprattutto una doverosa autocritica. I nemici delle humanities vincono perché coloro che dovrebbero difenderle sembrano avere smarrito le proprie ragioni. E, invece di interrogarsi sul perché oggi esse rimangono così indispensabili (e spiegarlo agli altri), preferiscono profondersi in un elogio del tempo che fu o in una infruttuosa polemica contro il predominio delle scienze esatte.
Appelli e gridi di dolore come quello lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli Della Loggia colpiscono il bersaglio sbagliato. È l’effetto di una ostilità all’educazione scientifica radicato nella tradizione italiana, da Croce e Gentile in giù. Ma il nemico mortale delle discipline umanistiche non sono la fisica o la matematica, e nemmeno la biologia o l’ingegneria, quanto gli pseudosaperi della “comunicazione”, che hanno progressivamente spostato l’accento dai contenuti al packaging (o, se si preferisce, dal messaggio al medium). Diecimila laureati in fisica in più non possono che fare bene a questo paese: ma ogni studente della vecchia facoltà di Lettere che lascia il posto a un aspirante comunicatore (comunicatore di un sapere che non possiede e che nessuno si preoccupa di trasmettergli) rappresenta un ulteriore passo avanti verso il baratro.
Da qualche decennio, purtroppo, con la complicità della politica la cattiva moneta scaccia la buona. Per questo, difendere le humanities oggi vuol dire anzitutto aiutarle a ritrovare la loro vocazione. Si tratta, oltretutto, di una vocazione molto italiana. È nel nostro paese infatti che è sorto l’Umanesimo propriamente detto, al quale poi si sono richiamati tutti gli umanesimi successivi. Qualcuno lo fa risalire a un gruppo di letterati padovani della fine del XIII secolo; qualcun altro a colui che più di tutti ha contribuito alla sua diffusione europea: Francesco Petrarca. Quello che conta, però, sono i caratteri distintivi di quel rivoluzionario progetto intellettuale. Umanesimo ha voluto dire per secoli (e vuol dire ancora oggi) essenzialmente due cose: percezione della distanza temporale (per gli umanisti: scoperta della differenza tra il proprio latino medievale e il latino della classicità) e sensibilità linguistica (per gli umanisti: autoconsapevolezza che la scrittura implica sempre una scelta: tra registri, opzioni, modelli da imitare). Esattamente ciò che l’attuale riformulazione dei saperi umanistici in chiave “comunicativa” osteggia. Mentre, in mancanza di una speciale attenzione per la dimensione storica dell’esperienza umana e per le potenzialità della parola (due aspetti che per gli umanisti si sorreggevano necessariamente a vicenda), diventa semplicemente inutile continuare a parlare di humanities.
La vulgata post-sessantottina sostiene che il vecchio umanesimo fosse solo un orpello di cui sbarazzarsi al più presto: nient’altro che un odioso strumento di distinzione sociale (Bourdieu dixit). Ma come ha recentemente mostrato Adolfo Scotto Di Luzio in uno dei libri più importanti della stagione, La scuola che vorrei, il successo della così detta educazione liberale presso le élite occidentali, dal XV al XX secolo, ha motivazioni completamente diverse. A prescindere dalla sensibilità per le differenze storiche, il contatto con il passato implicito nella formazione umanistica ha l’effetto di modificare profondamente la nostra esperienza del tempo. Chi dialoga con uomini e donne morti da secoli, impara a concepirsi come l’anello di una catena di generazioni. Nella vita quotidiana tale temporalità lunga vuol dire molte cose: senso di stabilità, allenamento a cogliere ciò che non cambia sotto la superficie esteriore degli eventi, progettualità, in definitiva accresciuta sicurezza psicologica. Ed è questa capacità di potenziamento del soggetto che ha reso il modello umanistico tanto allettante per le classi dirigenti europee.
Storicità, sensibilità linguistica, “tempo lungo”: la ricetta è ancora questa. Chi oggi intende difendere le ragioni delle scienze umane e, al livello inferiore, dell’educazione liberale deve insistere anzitutto sulla loro importanza non soltanto per i futuri professori, giornalisti, editori, ma anche per i futuri scienziati. E, su un piano ancora più generale, per i politici e i cittadini di domani. Perché è di questo che parliamo: di capacità cognitive, non di pura e semplice difesa della tradizione o dell’identità nazionale come si legge nelle abituali geremiadi sul tema.
Tutto questo discorso possiede però anche una sua precisa specificità italiana. Quando infatti parliamo di crisi delle humanities, il termine inglese non è – come troppo spesso accade – un semplice vezzo esterofilo. Esso indica piuttosto l’epicentro geografico del tracollo: il mondo anglosassone, Stati Uniti compresi. Chiunque ha avuto qualche esperienza di insegnamento nelle università Ivy League osannate nelle altamente inaffidabili classifiche internazionali sa per esserci passato che molti dei nostri studenti di laurea triennale sono non soltanto più preparati ma cognitivamente meglio attrezzati degli studenti di PhD statunitensi: i quali nonostante abbiano cinque o sei anni in più, sembrano, per capacità logiche e linguistiche, i loro fratelli minori. Questa banale verità, riconosciuta anche dai colleghi americani, non entra nel discorso pubblico italiano sulla formazione superiore mentre dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi ragionamento realistico sullo stato delle nostre scuole e università.
Paradossalmente l’Italia di oggi si fa forte del suo ritardo. Grazie alla resistenza del liceo classico (quando e dove ancora resiste), il nostro paese è probabilmente l’unico in tutto il mondo occidentale nel quale rimane in piedi un sistema di formazione umanistica non troppo distante dagli standard alto-novecenteschi. I nemici delle humanities vorrebbero smantellarlo: esso invece rappresenta oggi per l’Italia una straordinaria risorsa culturale e potenzialmente – cosa non secondaria – economica. Nel momento in cui il governo Renzi annuncia di puntare tanto sulla scuola si tratta di un dossier da non trascurare.
Poiché di humanities ci sarà ancora bisogno a lungo, gli italiani possono facilmente diventare esportatori di eccellenza intellettuale in questo campo. In parte, nel disinteresse della politica, succede già (allo stato attuale, tutte le discipline considerate, si parla di circa ventimila professori o ricercatori italiani variamente disseminati per il mondo). Sarebbe però ora che i legislatori si rendessero conto che la progressiva colonizzazione delle maggiori istituzioni culturali del globo da parte di una generazione di umanisti italiani è un successo della educazione made in Italy. Su questo serve un deciso cambio di rotta. Non si tratta di lavorare al “rientro dei cervelli”, o non solo. Piuttosto, occorre prendere consapevolezza che, nella prossima generazione, se la politica non continuerà a promuovere ciecamente lo smantellamento dell’educazione liberale dai nostri licei (si veda il recente attacco alla filosofia), gli italiani potranno ambire a un ruolo di assoluto primato nel campo delle scienze umane.
Affinché questo avvenga sono necessari però due interventi: nella formazione e nella mentalità. La formazione umanistica va riformata in modo da mettere i laureati in Lettere in condizione di fare lezione in inglese senza difficoltà al momento del conseguimento della laurea, un obiettivo ambizioso ma del tutto essenziale se li si vuole indirizzare verso un network globale. Allo stesso tempo, è importante che chi si iscrive a Lettere sappia sin dall’inizio che molto difficilmente lo aspetta un posto di professore nell’ateneo sotto casa, ma che invece potrebbe attenderlo una brillantissima carriera tra Bangkok, Johannesburg e Princeton. Gli scienziati lo considerano del tutto normale, e così gli economisti e i manager; perché solo gli umanisti rifiutano di vedere nelle collocazioni all’estero un’opportunità?
Pensiamoci bene prima di sprecare una simile occasione. La Cina può lanciare con successo un programma per sfornare un milione di nuovi ingegneri in cinque anni, ma non possiede gli strumenti per dotarsi nello stesso lasso di tempo di diecimila docenti di discipline umanistiche e, sul tempo medio, non li possiederà in futuro. L’Italia, che questi strumenti li ha, non li sfrutta e medita persino di disfarsene. Si tratterebbe, invece, di fare di questa fortunata contingenza un mezzo di egemonia culturale: molto più efficace di cento sedi dell’associazione Dante Alighieri o di dieci istituti di cultura, anche come base di una nuova identità italiana per il mondo globalizzato. Meglio che il solito pizza-gondola-ferrari-juventus, o no?
La domanda è rivolta (anche) al presidente Renzi.

Il SOle 24 Ore 27.04.14

«Pompei bene mondiale», di Luca Del Fra

Pompei: eppur si muove? Nominato soprintendente a gennaio, insediatosi solo a marzo a seguito di varie polemiche, Massimo Osanna non è un dirigente del Ministero per i beni e le attività culturali ma un professore associato di archeologia dell’Università della Basilicata. Alla sua competenza e alla sua energia è affidata la più rognosa grana della storia del patrimonio culturale, lo straordinario sito archeologico vesuviano, da anni al centro di un malefico intreccio: incuria, interessi economici più o meno trasparenti, incompetenze e ritardi della politica, lentezze burocratiche.

Lanciato tre anni fa, il Grande progetto Pompei doveva affiancare la soprintendenza per utilizzare 105 milioni di euro di fondi europei, finora ha stentato a partire; nel frattempo gli interessi si sono fatti più aggressivi: anche a causa della crisi economica Pompei con i suoi finanziamenti fa gola. Perché sulle falde del Vesuvio si gioca una partita pesante, da cui dipende la credibilità del sistema pubblico della tutela.
Professore Osanna, vi siete resi conto che siamo ai tempi supplementari?
«Ne sento personalmente la responsabilità, Pompei è divenuta lo specchio della cultura italiana, il simbolo negativo. Ci sono tanti altri siti, altrettanto splendidi, con gli stessi problemi a cominciare dai crolli: eppure nessuno ne parla».
Come risponderete?
«Sul campo: le soprintendenze hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale, ma devono aprirsi, evolversi, allargare le loro competenze all’archeologia globale».
Faccia un esempio.
«Pensiamo al rapporto tra archeologia e paesaggio. A Torre di Satriano ho diretto lo scavo di una reggia fatta costruire da un principe locale nel VI secolo avanti Cristo. Grazie all’apporto di specialisti di vari settori abbiamo ricostruito il paesaggio che la circondava. Intorno alla reggia non c’era una città come ci si aspetterebbe, ma pascoli di pecore, quindi pecunia, il potere economico che veniva dal controllo delle vie della transumanza e delle greggi. Intorno ai pascoli, i campi di grano e poco più oltre i boschi. Abbiamo dunque restituito non solo i resti di un edificio, ma un modello di società e di antropologia».
Ma a Pompei gli scavi già ci sono, ed è difficile gestire quanto è alla luce?
«Bisogna ristudiare da capo quello che è stato scavato evitando nuovi scavi. Anche perché le tecniche conoscitive dell’archeologia in questi anni sono molto cambiate. Da una parte conoscere meglio il sito aiuta a mantenerlo in vita, dall’altra una seria e attraente divulgazione scientifica porterà il pubblico ad amarlo ancora di più. Pompei è un caso eccezionale per molti motivi: dalla sua fondazione nel VI secolo si sono sovrapposte civiltà e culture molto diverse. Quella etrusca, che aveva una comunità a Pontecagnano, quella greca, presente a Cuma e naturalmente quella romana. L’interesse per l’incrocio e il meticciato di culture è un portato del nostro tempo».
Servono però competenze e specialisti di ogni tipo: come pensate di trovarli?
«Sì, paleobotanici, archeozoologi, studiosi, storici, geologi, esperti del patrimonio culturale. Appena arrivato ho detto subito che apriremo le porte alle università a agli istituti di ricerca, che lavoreranno sul sito coordinati dalla soprintendenza».
E a livello internazionale?
«Per questo sto organizzando anche un primo incontro di specialisti di vari settori dal titolo Pompei oggi e domani, l’idea è invece allargare le competenze anche a livello internazionale, creando un comitato che segua e periodicamente controlli i restauri, l’andamento del sito, valutando i progetti, dando suggerimenti. Anche perché Pompei non può essere un affare solo italiano: è un patrimonio mondiale, tutelato dall’Unesco».
Allora veniamo ai problemi. L’articolo de «l’Unità» sui recenti e deludenti restauri della domus del Criptoportico che voleva aprire una discussione ha invece scatenato una polemica: quali le vostre reazioni? «Quando è uscito l’articolo mi ero appena insediato: quello che ho fatto è stato prendere tutti i progetti per capire se ci fossero dei problemi. Il primo è che non ci possono essere progetti a pioggia, fatti ognuno da uno specialista, magari bravissimo, ma per conto suo. Alla fine a Pompei ci saran- no cento tipi di coperture diverse: occorrono delle linee guida e un coordinamento generale e anche a questo dovrebbe servire il comitato di lavoro, perché ogni restauro ha delle sue specificità, ma va inserito in un contesto».
Come procede il Grande Progetto Pompei (GpP)? «Fino a maggio noi, cioè la soprintendenza, siamo la stazione appaltante, poi le consegne passano a GpP e al generale Nistri che lo dirige. A noi resterà la manutenzione ordinaria del sito. I nuovi progetti li cureranno la soprintendenza e i tecnici, architetti, archeologi e restauratori del GpP, o ditte esterne. Comunque dovranno essere validati da noi».

E Invitalia che ruolo avrà?

«Invitalia affianca il GpP da un punto di vista amministrativo e potrà fare progetti sulla fruizione, ma non sui restauri».
I fondi dell’Unione Europea, malgrado i ritardi riuscirete a impiegarli nei tempi prescritti?
«A marzo, quando sono arrivato alla Soprintendenza, ho espresso qualche perplessità al riguardo. Con Nistri però abbiamo stilato un cronoprogramma serratissimo per riuscire a utilizzare, e bene, quei fondi».

Ce la farete?

«Cercheremo di farcela».

Sta partendo un Piano della conoscenza dal costo di 8 milioni di euro: non è un po’ tardi, visto che i tempi dei finanziamenti europei scadranno tra pochi mesi?

«I ritardi sono evidenti, ma questa banca dati diagnostica sarà utilissima soprattutto dopo il GpP, per la futura manutenzione di Pompei».
E i lavori per affrontare il dissesto idrogeologico, che secondo molti è la causa dei continui crolli? «Partiti anche quelli, ma non è opera mia: sono iniziati al momento del mio insediamento».

Il GpP, a meno che l’Unione Europea non lo rifinanzi in futuro, dovrebbe concludersi in un paio di anni: sarà un intervento spot o qualcosa di stabile resterà?

«Con il ministro Dario Franceschini stiamo lavorando a questo: dotare la soprintendenza di una serie di figure tecniche, strutturisti, archeologi, geologi, magari presi tra quanti avranno lavorato nel GpP. Ho trovato molta disponibilità».
Professore, a sentire lei a Pompei andrebbe tutto bene…
«Per carità, i ritardi e i problemi sono tantissimi, spesso banali e di facile soluzione: in 60 giorni abbiamo riaperto tre domus bellissime, abbiamo rimesso a posto le cancellate di ferro, cercato di rimuovere quanto più possibile quel nastro di plastica bianco e rosso da cantiere e installare dei dissuasori con le corde. E non le nascondo che negli ultimi giorni mi sto occupando anche di fogne e di liquami».

L’Unità 27.04.14

"Pagliacciata populista per un pugno di voti", di Gad Lerner

Quando Berlusconi gigioneggia sui tedeschi sostenendo che «secondo loro i campi di concentramento non sono mai esistiti», va ben al di là di un’esibizione di ignoranza: il falso storico diviene arma impropria di propaganda, grottesca pulsione demolitrice di un’architettura europea già pericolante. Pur di colpire un avversario politico, il socialista Martin Schulz, che solo l’altro ieri a Genova aveva voluto visitare Villa Migone, il luogo in cui 69 anni fa il generale tedesco Gunther Meinhold sottoscrisse davanti ai partigiani il suo atto di resa incondizionata, Berlusconi non esita a provocare un incidente diplomatico. Lo fa da sprovveduto, con quella sua intonazione canzonatoria che ancora una volta lo rimpicciolisce al cospetto della tragedia storica con cui vorrebbe misurarsi. Come il 27 gennaio 2013 quando, subito prima di assopirsi in prima fila al Memoriale milanese della Shoah, aveva definito Mussolini «un leader che per tanti versi aveva fatto bene».
Il suo fare maldestro rischia di indurci a sottovalutarne la pericolosità. Biascica a vanvera di
«fosse di Putin, no scusate, di Katyn», per sostenere che i tedeschi ricordano un crimine sovietico ma negherebbero viceversa i crimini nazisti. Si compiace della «campagna pubblicitaria straordinaria» di cui avrebbe beneficato Martin Schulz definendolo «kapò», «benevolmente pensando di dargli una occasione di lavoro in tv». Può darsi che davvero non capisca quando richiama «la mia solita ironia»: «Stavo sorridendo, stavo celiando»… Per lui i campi di sterminio sono al massimo argomento da barzelletta.
L’uomo che per un ventennio ha ricoperto di discredito internazionale il nostro Paese è anche la dimostrazione vivente del danno culturale subìto da una collettività reticente nel fare i conti con le sue colpe storiche. Campione dell’autoindulgenza, tipico esponente di un’Italietta minimizzatrice sulle responsabilità del fascismo, a furia di ripetersi che in fondo siamo sempre stati “brava gente” gli viene naturale proiettare sugli altri il vizio che coltiva per sé.
Sarà inutile, dunque, segnalare al condannato che ancora sproloquia in pubblico, quale netta differenza di comportamento abbia manifestato la classe dirigente tedesca di fronte alle responsabilità dei dodici anni di regime hitleriano. Dubito che il magnate televisivo Berlusconi abbia mai sentito parlare di Guido Knopp, il divulgatore della storia dei crimini nazisti che, a partire dal 1978, ha inchiodato davanti ai teleschermi della Zdf, con trasmissioni choc in prima serata, la Germania intera. Senza indulgenze, senza tacere né l’orrore né il coinvolgimento di massa nella pratica dello sterminio. I libri di Knopp sono pubblicati anche in lingua italiana, ma a che servirebbe consigliarli al nostro politico ignorante?
La Germania che a partire da Adenauer fino ad oggi non ha smesso di offrire risarcimenti ai familiari delle sue vittime, e le onora con un senso di colpa del tutto assente in personaggi come Berlusconi — artefice della riabilitazione del fascismo italiano — oggi è di nuovo al centro di un’aspra controversia sul futuro dell’Europa. Ciò dovrebbe indurre dei leader responsabili a rifuggire dalla strumentalizzazione di ferite che ancora sanguinano. Un conto è criticare la politica dell’austerità impersonata da Angela Merkel (che peraltro milita nella stessa formazione politica europea di Berlusconi, almeno fino a quando il Ppe non si deciderà a espellere dalle sue fila Forza Italia); ben altro gettare il marchio del nazismo addosso a un esponente della sinistra “colpevole” solo di essere tedesco.
Questo è infatti il calcolo, meschino e irresponsabile, che si cela dietro alla pagliacciata berlusconiana: alimentare un sentimento popolare antitedesco nella speranza che ciò gli procuri il recupero di una manciata di voti. Ancora una volta la leva del populismo di destra è il disprezzo del suo stesso elettorato, ritenuto ignorante e cinico come chi lo guida. Senza badare alle conseguenze incendiarie che una simile contrapposizione — se non adeguatamente contrastata — potrebbe determinare negli equilibri di un continente già lacerato dalla crisi economica e dagli etnonazionalismi riemergenti.
L’indignazione che le parole di Berlusconi stanno provocando nello stesso Partito Popolare Europeo che indegnamente lo ospita, dovrebbero indurlo a chiedere scusa. Ma lui è troppo abituato a buttarla in vacca per capirlo.

La Repubblica

Per l'insegnamento della lingua e della cultura italiana all'estero

Dopo aver appreso da fonte sindacale (si veda qui) dell’esito deludente dell’incontro tra MAE e OOSS (purtroppo il MIUR era assente) sulla situazione del personale scolastico all’estero, insieme alle colleghe Coscia e Garavini abbiamo presentato una interrogazione al Governo, che trovate in calce (ma potete leggerla anche cliccando qui). Continua il nostro impegno per l’insegnamento della lingua e della cultura italiana all’estero

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Al Ministro degli affari esteri, al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
il 17 aprile 2014, il Ministro degli affari esteri ha convocato al tavolo le organizzazioni sindacali per affrontare diverse questioni concernenti la situazione del personale scolastico all’estero (restituzioni a domanda e per fine mandato; criteri per la definizione del contingente in relazione all’anno scolastico 2014/2015; aggiornamento sulle nomine ex legge n. 125 del 2013);
il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca non era presente al tavolo;
fonti sindacali riferiscono dell’esito dell’incontro in termini deludenti, poiché l’amministrazione si sarebbe limitata a fornire mere informazioni preventive, quali il numero previsto di rientri in Italia (61, di cui 3 dirigenti scolastici) e la corrispondenza tra i rientri con il numero di posti decurtati dal contingente di docenti in servizio all’estero;
in particolare, se tale ultima previsione trovasse conferma, detto contingente per il prossimo anno scolastico raggiungerebbe le 772 unità, di cui ben 117 posti vacanti. In tale contesto si supererebbero abbondantemente gli obiettivi di decurtazione dei posti fissati dalla cosiddetta spending review del Governo Monti: l’articolo 14, commi 11 e 12, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, modificando l’articolo 639 del decreto legislativo n. 297 del 1994, ha infatti disposto una riduzione di 400 unità del personale scolastico impegnato nelle scuole italiane all’estero, nelle scuole europee e nelle istituzioni scolastiche e universitarie estere, da operare in 5 anni, nella misura di 80 unità. Ma il personale di ruolo in servizio al 1o settembre 2014, sarà di 655 unità a fronte delle 624 da raggiungere nel 2016/2017 a norma del citato articolo 14 del decreto-legge n. 95;
nel corso del medesimo incontro il Ministro degli affari esteri ha comunicato, seppur con approssimazione, che complessivamente le nomine da espletarsi per il prossimo anno scolastico, a norma della recente disposizione prevista dall’articolo 9 della legge n. 125 del 2013, sono solo 18;
nella definizione del contingente delle nuove nomine occorre tener conto prioritariamente della tenuta del sistema e della qualità del servizio erogato, soprattutto alla luce delle dinamiche di rientro di personale in Italia nei prossimi anni;
in particolare, per l’anno scolastico 2015/2016 saranno circa 200 le unità di personale a rientrare, determinando così un deciso superamento delle richieste della cosiddetta spending review, precedentemente richiamate, e un contraccolpo alla stabilità e solidità del sistema dell’insegnamento della lingua e della cultura italiana all’estero, che va progressivamente precarizzandosi –:
quali siano le analisi effettuate dai Ministri interrogati e quali criteri siano stati definiti per individuare il numero di nomine da espletare per il prossimo anno scolastico;
conseguentemente, come intendano procedere per dare piena attuazione alla disposizione della citata legge n. 125 del 2013, al fine di dare risposte chiare alle attese del personale scolastico rispetto al futuro delle scuole e delle istituzioni scolastiche all’estero. (5-02695)

"Thyssen, nell’appello bis possibili aumenti di pena", di Massimo Solani

Resta la rabbia dei parenti, esplosa dopo la lettura del dispositivo della Corte di Cassazione, ma anche la sensazione che dopo le prime reazioni negative la sentenza possa contenere sorprese valutabili solo leggendo il testo che sarà depositato entro 90 giorni. Perché dopo lo sgomento dei più, seguito alla decisione della Suprema Corte di rinviare il processo Thyssen in appello per la rideterminazione delle pene a carico dei dirigenti della multinazionale imputati per il rogo che nel 2007 causò la morte di sette operai, le indiscrezioni uscite dal Palazzaccio di piazza Cavour sembrerebbero
frenare il timore di un ulteriore ribasso delle pene, già falciate in appello quando l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale venne derubricata
in omicidio colposo con colpa cosciente.
Una speranza che rimane aggrappata, ostinatamente, attorno a tecnicismi legali tutti da decifrare. «Con la decisione di giovedì gli imputati per il
tragico rogo della Thyssen non sono stati favoriti in alcun modo e non è stato
accolto alcun motivo di ricorso dei loro difensori», ha infatti spiegato una fonte della Cassazione. «Le responsabilità degli imputati – prosegue la fonte – sono state accertate ed, anzi, il rischio è che nel nuovo processo di appello le pene aumentino perché è stato stabilito che il reato di rimozione ed omissione dolosadi cautele contro gli infortuni sul lavoro (articolo 437 del codice penale) non può essere assorbito negli altri reati comel’omicidio
colposo e incendio, ma deve essere considerato e punito come reato autonomo». «Il rogo della Thyssen è un fatto di una drammaticità senza precedenti – prosegue la spiegazione arrivata della Suprema Corte – e la Cassazione ha creato le condizion di diritto perché nel nuovo processo d’appello possano
essere inflitte agli imputati le pene in assoluto più alte che siano mai state irrogate per incidenti di questo tipo. Abbiamo riconosciuto tutte le colpe configurabili e abbiamo detto che la rimozione delle cautele infortunistiche deve essere considerato come reato a sè stante. È la prima volta che questo succede».
Una precisazione che ribalta completamente le prime sensazioni e che trova
conferma anche nelle parole del pm di Torino Raffaele Guariniello che aveva
condotto l’inchiesta e sostenuto a dibattimento l’accusa di omicidio volontario.
«La decisione della Cassazione non significa che le pene debbano essere rimodulate al ribasso, noi chiederemo un aumento delle pene», ha infatti commentato ieri Guariniello facendo riferimento alle pene fra i 7 e i 10 comminate nel primo appello. «Il considerare il reato di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche separato dal reato di disastro – ha specificato il pm – implica che si possa chiedere un aumento di pena.
Anche se non c’è il dolo eventuale siamo soddisfatti che sia rimasta la colpa
cosciente. L’aspetto negativo è che a oltre sei anni di distanza dalla tragedia non c’è una sentenza definitiva nonostante le indagini vennero chiuse in soli tre mesi».
Perché adesso, con un processo d’appello da rifare, il rischio è che la prescrizione arrivi a lavare via le colpe della dirigenza Thyssen per il rogo del 5 dicembre 2007 e per le morti di Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Antonio Schiavone, Bruno Santino e Roberto Scola. «Sarebbe sorprendente che con un’indagine conclusa in soli 3 mesi si andasse a finire in prescrizione»¸ ha infatti ammesso Guariniello. «Noi – ha spiegato il pubblico ministero – abbiamo chiuso le indagini in 3 mesi grazie alla nostra specializzazione. Da altre parti, ai sei anni si sarebbero aggiunti ulteriori anni di indagini. Questo vuol dire che quando si arriva in cassazione i giudici spesso dicono che il reato c’è ma è prescritto. Se non
facciamo in fretta – ha concluso – c’è il rischio prescrizione per il reato di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. Bisogna che il nuovo processo sia fissato al più presto».
Una speranza che accomuna le famiglie delle vittime, la procura di Torino e
i sindacati. Chedopo la lettura della sentenza avevano commentato duramente
la decisione della Cassazione. «Fermo restando il rispetto che si deve per le
sentenze – le parole lapidarie del segretario Cgil Susanna Camusso – c’è stata
una strage dovuta ai non investimenti dell’azienda e ridurne la portatami sembra sbagliato».

da L’Unità

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«Capisco la rabbia dei parenti I processi sono troppo lenti», di Marco Imarisio
Guariniello: il premier dovrebbe intervenire
«La gente non capisce». Con quel sorriso da ignoto che si ritrova Guariniello, gli succede spesso di risultare spiazzante. Ancora di più oggi, poche ore dopo che i pianti e le lacrime dei familiari delle vittime Thyssen hanno punteggiato una sentenza di Cassazione letta ovunque come una sconfitta dell’accusa, costretta a rimangiarsi l’imputazione di omicidio volontario, a ricominciare da capo con un nuovo processo. «L’emotività non sempre aiuta a capire le cose» premette il magistrato torinese diventato un’icona di lavoratori e consumatori, una specie di santo protettore che si tiene però sempre a distanza di sicurezza dai suoi fedeli. «Non per snobismo, ma per metodo. Se cavalcassi l’onda dell’emozione diventerei un tribuno del popolo. Fare il magistrato è un’altra cosa».
Nonostante le apparenze, la musica lirica che esce dallo stereo del suo ufficio, le pile di libri di poesia in evidenza sul tavolo da lavoro, Raffaele Guariniello è un uomo pragmatico. Nel gennaio del 2011, quando mancavano ormai pochi mesi alla sentenza di primo grado sul rogo che bruciò le vite di sette operai, ricevette una delegazione dei familiari delle vittime. Nino Santino aveva parlato a nome degli altri. Il padre di Bruno, il più giovane degli operai della linea 5, il più lento a morire, era diventato un simbolo della tragedia, con la faccia del figlio sempre stampata su una maglietta nera. Quasi si vergognava. «La ThyssenKrupp ci ha offerto tanti soldi, procuratore. In cambio vogliono che ci cancelliamo dalle parti civili. Ma abbiamo paura di danneggiarla». Era un timore legittimo. Il dibattimento senza le famiglie delle vittime poteva anche diventare un sacco vuoto. Guariniello li aveva presi di sorpresa, come spesso gli accade. «Dovete accettare, subito. Con la giustizia non si sa mai, non ci sono certezze. Avete il dovere di accettare l’offerta, io mi arrangio comunque».
La tendenza al bicchiere mezzo pieno è parte del succitato metodo. «Io li capisco, gli sfoghi dei familiari. Ma non c’entrano nulla con la sentenza della Cassazione. Sono dovuti al tempo che passa, tanto, troppo. Non sono bastati sei anni a finire un processo, che pure era il prodotto di indagini svolte a tempo di record. Quell’attesa infinita sviluppa sempre e comunque nelle vittime e nei parenti il senso di una giustizia negata. Il nostro sistema non è in grado di garantire processi giusti nella loro durata, è un dato di fatto. Mi risulta che il nuovo governo abbia intenzione di mettere mano al sistema della giustizia italiana. Ecco, faccio un appello a Matteo Renzi: per favore, cominci da qui. I tempi brevi sono il segno di una civiltà giuridica che a noi ancora manca, e della quale abbiamo un bisogno disperato».
Guariniello è consapevole di quel che si dice di lui. La sentenza di giovedì notte rafforzerà la sua fama di magistrato che quasi sempre vince all’andata e spesso perde il ritorno. «Mi sembrava di aver fornito parecchie prove contro questa teoria, ma si vede che gli esami non finiscono mai. Diciamo piuttosto che è stato un pareggio». La scomparsa del dolo eventuale che era alla base dell’accusa di omicidio volontario segna un arretramento della linea che Guariniello ha sempre sognato di segnare per le stragi bianche. «Non c’è dubbio. Non siamo stati abbastanza bravi da convincere la Cassazione della bontà di questa tesi».
L’emotività è come la nebbia, impedisce di vedere le cose. Il giorno dopo, letto e riletto il dispositivo della sentenza, il magistrato torinese trova tre aspetti positivi che nella fretta sono passati inosservati. «Primo: la Cassazione scrive che “si confermano le responsabilità degli imputati”. Significa una piena convalida alla nostra impostazione, che era la novità maggiore del processo. Non considerare i fatti come episodi isolati, ma risalire alla politica di sicurezza dell’azienda, alle responsabilità dei vertici, del consiglio di amministrazione. Questo a aspetto ormai non è più scalfibile. Secondo: è stato respinto il ricorso presentato dalla società. La responsabilità penale non è più solo delle persone fisiche, ma della stessa azienda come soggetto giuridico. Terzo: vero, scompare il dolo eventuale, ma la Cassazione stabilisce che gli imputati hanno agito nonostante la previsione dell’evento. Si chiama colpa cosciente, siamo appena un gradino sotto di quanto avevamo ipotizzato».
L’ultima goccia del bicchiere mezzo pieno è quella che Guariniello distilla con meno piacere. «Tolta l’aggravante, si torna a due reati distinti, omicidio colposo e disastro colposo. Nel nuovo processo d’appello potremo chiedere pene ancora più pesanti, e chi le auspica potrà così essere soddisfatto». Il distinguo finale è puro Guariniello, un distillato del suo modo di essere. «A me interessa instaurare dei principi, cambiare le cose. Le sentenze invece vanno e vengono». L’idea di privare un uomo della sua libertà non lo fa dormire di notte. In quarant’anni di carriera ha chiesto un solo arresto. Accadde durante le Olimpiadi invernali del 2006, con il massaggiatore della squadra austriaca. Aveva la stanza piena di fialette proibite. Si stava calando dalla finestra. Guariniello ci sta male ancora oggi.

da Il Corriere della Sera