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"Al Pd quasi un Consenso su due da chi votava altro", di Nunzio Paglioncelli

Chi aveva scelto il centrodestra nel 2013 per il 59% preferisce Forza Italia mentre l’8% va al partito di Alfano di

Le elezioni dello scorso anno sono risultate un vero e proprio terremoto politico. Secondo il Cise del professor D’Alimonte si è registrato il più elevato tasso di volatilità di sempre, ossia la percentuale di elettori che hanno modificato il proprio comportamento di voto rispetto alla tornata elettorale precedente. Ebbene, nel 2013 quasi due elettori su cinque (39,1%) hanno cambiato la scelta del 2008, tradendo il partito votato allora. È un dato che risulta ancor più eclatante se si considera il confronto internazionale: infatti analizzando le 279 elezioni legislative che si sono tenute in 16 paesi europei dal 1945 al 2013, il dato italiano dello scorso anno si colloca al terzo posto. L’emorragia di voti dei principali partiti è stata davvero impressionante: il Pdl, che aveva trionfato nel 2008, ha perso 6,3 milioni di elettori; il Pd ne ha persi 3,5 milioni, la Lega Nord ha più che dimezzato il proprio elettorato perdendo 1,6 milioni di voti, e così via.
Il calo di voti dei principali partiti ha determinato anche una sorta di sconvolgimento nel profilo degli elettorati, facendo perder loro i tradizionali riferimenti sociali e mettendoli in forte difficoltà nell’individuare domande e aspettative e nell’elaborare nuove proposte. Il Movimento 5 stelle, al debutto nazionale, si è affermato come primo partito ottenendo circa 8,7 milioni di voti. L’analisi dei flussi elettorali, che consente di stimare gli spostamenti di voto da un partito ad un altro, ha messo in evidenza la straordinaria trasversalità del movimento di Grillo che lo scorso anno è stato capace di intercettare quasi in egual misura gli elettori delusi dai partiti di centrosinistra e di centrodestra e di richiamare al voto elettori che nel 2008 non avevano votato. A poco più di un anno da quel terremoto è interessante verificare le dinamiche elettorali attuali, per capire se siamo in presenza di un perdurante «sciame sismico» oppure se le «scosse di assestamento» abbiano lasciato spazio a un nuovo equilibrio. Dall’analisi, effettuata su più campioni per aumentare l’affidabilità delle stime, emerge un livello di fedeltà ai partiti decisamente più elevato rispetto a quanto registrato lo scorso anno. In particolare circa due terzi degli elettori del Pd e della Lega Nord appaiono propensi a confermare il proprio voto e il 59% degli elettori del M5S risulta fedele alla scelta del 2013. Tra coloro che avevano votato il Pdl il 59% intenderebbe votare Forza Italia, l’8% Ncd e il 7% Pd. Quest’ultimo è un dato davvero inedito, tenuto conto della tradizionale impermeabilità tra il partito di Berlusconi e il principale partito antagonista. D’altra parte si è più volte sottolineato il grande appeal di Matteo Renzi presso l’elettorato di centrodestra e quello centrista. Gli indecisi e gli astensionisti sono più numerosi tra le fila della sinistra (Sel e Rc 39%), di Fratelli d’Italia (27%), di Udc e Fli (26%) e del Pd (26%), a conferma del fatto che il nuovo corso renziano attrae sì nuovi elettori ma determina anche delusione in una parte di elettorato più tradizionale del Pd che al momento preferirebbe astenersi anziché scegliere altri partiti. I flussi di provenienza del voto di ciascun partito evidenziano infatti che tra quanti oggi voterebbero il Pd solo la metà (54%) aveva votato per lo stesso partito lo scorso anno: più bassa è questa percentuale e più elevata risulta la capacità di attrazione di nuovi elettori che, nel caso del Pd, si stima provengano soprattutto da M5S (13%), da Scelta civica (12%), dal Pdl (5%) ma anche da chi si era astenuto lo scorso anno (8%). Il movimento di Grillo ha una fortissima componente di elettori del 2013 (80%) e attrae in misura uguale elettori Pd e Pdl (4%). Fi ha un elettorato concentrato tra gli ex elettori del Pdl (77%) e fatica ad attrarne di nuovi. La Lega dopo il severo risultato dello scorso anno appare in crescita, attirando voti dal Pdl (15%) da Scelta civica (12%) e dal M5S. Da ultimo, Ncd e Fdi, due partiti molto trasversali: il partito di Alfano al momento avrebbe un elettorato proveniente per quasi la metà dal bacino originario (31% da elettori Pdl e 15% da elettori Udc e Fli), per il 20% da Scelta civica, per l’8% dal M5S, per il 6% da Fdi e per l’8% da chi nel 2013 si era astenuto. Tra gli elettori del partito di Giorgia Meloni solo un quarto proviene da elettori che avevano votato per Fdi nel 2013 mentre il 23% proviene da elettori Pdl, il 15% dal M5S, il 7% dalla Lega e ben 11% da astensionisti. E analizzando le intenzioni di voto rilevate dopo le festività pasquali l’unica novità di rilievo è costituita dalla lieve crescita del consenso per Fdi che al momento si collocherebbe al di sopra della soglia del 4%. Gli altri partiti presentano scostamenti minimi rispetto alla scorsa settimana: d’altra parte, è difficile immaginare spostamenti di voto di centinaia di migliaia di elettori in poco tempo. E, ancora una volta, è opportuno ricordare che non si tratta della previsione dell’esito finale delle europee ma di stime: va tenuto in debito conto l’elevata incertezza che ancora permane, l’incognita dell’astensione e il fatto che le campagne elettorali servono a «smentire» le stime dei sondaggi, dato che ogni partito investe tempo, energie e denaro per mobilitare elettori e aumentare il proprio consenso, contraddicendo quanto i sondaggi fotografano nel corso della competizione.

da Il Corriere della Sera

"Riforme, ecco il piano B di Renzi", di Francesco Bei e Giovanna Casadio

Avanti anche senza Berlusconi. Oggi il premier da Napolitano. Il premier lavora a un piano B sulle riforme dopo la sortita di Berlusconi. Per Renzi si tratta di estendere l’Italicum anche per Palazzo Madama e andare al voto in autunno. Sarebbe così il nuovo Parlamento ad eleggere il successore di Napolitano che Renzi vedrà oggi.
«Avanti anche senza Forza Italia », avverte il ministro Boschi, mentre il presidente del Consiglio sottolinea: «Fi non rompe, ha la necessità di recuperare posizioni su Grillo».

Ne ha parlato soltanto con pochissimi e fidati. Ma il piano esiste, eccome. Se tutto dovesse finire nelle sabbie mobili, se Berlusconi si dovesse rivelare un ostacolo insormontabile sulle strade per le riforme, Matteo Renzi ha in già in mente cosa fare. «Non mi faccio cuocere a bagnomaria. Facciamo l’Italicum anche per il Senato e torniamo a votare».
Certo, per ora si tratta di una nube lontana, un’operazione rischiosa da adottare soltanto come extrema ratio. Escluso che Renzi solleverà la questione oggi al Quirinale, nel colloquio che avrà con Napolitano. Per il momento il premier ha ordinato di gettare acqua sul fuoco rispetto ai proclami bellicosi di Forza Italia. «Keep calm and carry on», come ha scritto in un sms. Tanto più che, nei numerosi contatti di ieri tra palazzo Chigi e il quartier generale forzista, a Renzi è stato assicurato che solo di campagna elettorale si tratta. Tanto è vero che la linea pacta servanda sunt è stata ribadita in serata da una dichiarazione alla camomilla di Giovanni Toti: «Nessuno può osare pensare che Forza Italia non rispetti i patti». Eppure l’operazione Italicum di Renzi resta nei cassetti di palazzo Chigi, pronta a essere dispiegata nel caso le elezioni europee portassero il Pd a un risultato lusinghiero e la riforma della Costituzionale finisse impantanata. La legge elettorale per il Senato sarebbe ricalcata su quella della Camera – ballottaggio compreso – ma per venire incontro al Nuovo centrodestra le soglie di sbarramento interne alle coalizioni sarebbe abbassate al 4 per cento. Perché è chiaro che, se Forza Italia si sfilasse, il nuovo Italicum dovrebbe passare con i soli voti della maggioranza. «Se Fi dovesse cambiare idea e tirarsi indietro – ha ribadito ieri sera Maria Elena Boschi – andremo avanti con la maggioranza, con i numeri che abbiamo». A quel punto, Napolitano permettendo, sarebbe solo un problema di convenienza elettorale. Votare a ottobre 2014 sarebbe possibile, anche se ovviamente durante il semestre europeo il capo dello Stato farà di tutto per non “regalare” al paese un’altra campagna elettorale. Altra ipotesi sarebbe quella della primavera 2015. Entrambe le finestre elettorali darebbero comunque a Renzi la possibilità di ripresentarsi davanti agli elettori senza il pesante fardello di tagli – 17 miliardi – che la spending review prevede per il 2015. Oltretutto sarebbe il prossimo Parlamento, a quel punto, a scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Il premier potrebbe contare su gruppi parlamentari più fedeli e meno a rischio di imboscate come quelle dei 101 che tradirono Prodi.
E tuttavia, almeno fino al voto del 25 maggio, questi discorsi restano tra le quattro mura dello studio del premier. Ora è il momento di concentrarsi sul presente ed evitare quella che Renzi con i suoi definisce la «bersanizzazione della campagna elettorale ». Ovvero la sindrome pericolosissima che prende il Pd quando i sondaggi sono favorevoli. Quell’atteggiamento “abbiamo già vinto” che costò la vittoria a Bersani. Il premier è fiducioso sul risultato ma resta prudente. «Grillo inventa la storia della rimonta ma non è così. Comunque non dobbiamo mollare ». Semmai i renziani iniziano a essere preoccupati per i sondaggi al ribasso del Cavaliere. Gli esperti elettorali democratici hanno infatti rilevato che ogni voto in uscita da Forza Italia, invece di andare all’Ncd, finisce per ingrossare il paniere del M5s. Per cui una Forza Italia crollata al 16 per cento equivarrebbe a un M5S cresciuto oltre il 26 per cento. Un risultato che certo a palazzo Chigi nessuno si augura.
In ogni caso gli sforzi di Renzi e dei suoi collaboratori sono ora tutti concentrati a far rientrare la fronda interna al Pd, una ricucitura indispensabile per andare avanti. Sms sono partiti in queste ore dal ministro Boschi, dal sottosegretario Delrio e dallo stesso Renzi indirizzati ai dissidenti. L’appello è: non offriamo sponde a Berlusconi, «evitiamo le divisioni». Ma il premier ha anche ammesso che il governo non si impiccherà su una settimana in meno o in più di discussione. Lo fa sapere in un giro di telefonate alle «teste calde» dem Lorenzo Guerini, il vice segretario: «I tempi slittano, è inevitabile. Il 16 maggio il Senato sospende l’attività. Però entro quella data potremmo chiudere in commissione. Il risultato politico ci sarebbe comunque».
La sinistra del Pd spera in questo allungamento dei tempi per cambiare il testo. I dissidenti dem sono convinti che sia l’unico effetto positivo del caos scatenato da Berlusconi. «Togliere la riforma del Senato dalla campagna elettorale per le europee è un bene, così possiamo riprendere a parlare dei contenuti», osserva Felice Casson. Tutto questa apertura al dialogo non convince un renziano duro e puro come Giachetti, sempre più pessimista. «Il nostro problema – confida – non è Berlusconi ma la minoranza interna. Si accaniscono sulla riforma del Senato ma è l’Italicum il loro vero obiettivo. Faranno di tutto per fermarlo».

da Repubblica

"Le troppe Mete esotiche per il nuovo Senato", di Michele Ainis

Un Senato? No, 52. Perché sono 52 i progetti di riforma che ingombrano la commissione Affari costituzionali, e ogni testo è un viaggio verso mete esotiche, e nessun viaggio è uguale all’altro.Ma il rischio è di rimanere ametà strada, inchiodatiin un aeroporto di scalo. Succede, quando i voti si trasformano in veti. E conle riforme ci succede da trent’anni. Come nel gioco dell’oca: gira e rigira, ti ritrovi sempre alla stazione di partenza. Scoprendo infine che i partiti nonsono mai partiti, che era tutta una finta, una manfrina. Siccome però a questo viaggio ormai ci abbiamo preso gusto, siccome la riforma del Senato è l’architrave su cui poggia ogni altra riforma economica e sociale, siccome sul nuovo Senato si è scatenata una bagarre, almeno stavolta converrà attrezzarsi.
Attrezzarsi come? Intanto con un vademecum per i viaggiatori: tre avvertenze per le loro partenze.

Primo: la fantasia costituzionale. È una qualità, ma senza esagerare. Resistendo alla tentazione di creare il mondo daccapo ogni lunedì, ma resistendo pure al copia-incolla, alla scimmiottatura delle esperienze altrui. Ogni Paese ha le proprie tradizioni, anche se in Italia la prima tradizione è il tradimento. Dunque bene sui sindaci a Palazzo Madama, benché il Bundesrat tedesco — cui s’ispira il progetto del governo — non ne contempli la presenza: dopotutto i municipi innervano la nostra storia nazionale, a differenza che in Germania. Male, molto male, l’idea bislacca dei 21 senatori nominati dal Colle. Nel Senato attuale equivalgono a due gruppi parlamentari; nel nuovo Senato a ranghi dimezzati peserebbero come quattro partiti. Partiti del presidente, presidenzialisti per definizione. E il capo dello Stato verrebbe tirato dentro suo malgrado nella mischia: un dono avvelenato.

Secondo: i posti (e i quattrini). A quanto pare s’è aperta una gara a chi sa usare le forbici più lunghe; vincerà Caligola, che in Senato ci voleva soltanto il suo cavallo. Ma l’efficienza delle istituzioni dipende anche dal numero dei loro inquilini. Troppi, s’intralciano a vicenda; pochi, non riescono a smaltire l’arretrato. E in questo caso il Senato diventerebbe un costo inutile, pur senza l’indennità dei senatori. Ma infine smettiamola di misurare la qualità della riforma sulla fattura da pagare: stiamo ristrutturando il bicameralismo, non un bilocale.

Terzo: la coerenza, virtù dimenticata. Ce n’è ben poca nei progetti alternativi di chi (come Calderoli) difende con le unghie l’elezione diretta del Senato: se quest’ultimo mantiene la stessa legittimazione popolare della Camera, perché negargli il voto di fiducia sul governo? Ce n’è ancora meno nel testo presentato da Chiti, dove il Senato approva ogni legge che incida sui diritti: in pratica, tutte le leggi. Tanto vale lasciare le cose come stanno, si fa meno fatica. Ma è poco coerente anche la proposta dell’esecutivo, con un’elezione di secondo grado affidata ai Consigli regionali, anziché alle giunte: ne uscirebbe un doppione della Camera, più o meno con la stessa proporzione fra i partiti.

La soluzione? Rafforzare il ruolo di garanzia del nuovo Senato. Inserendovi (per una legislatura) gli ex presidenti della Consulta, della Cassazione, delle principali Authority. Magari aggiungendovi una quota di cittadini estratti per sorteggio fra categorie qualificate: non è un’eresia, lo suggerisce un gruppo di fisici e d’economisti (dopo una simulazione al calcolatore) per migliorare il rendimento delle assemblee rappresentative. Miscelando queste quote con i delegati regionali o comunali. E miscelando altresì le competenze, in aggiunta a quelle concernenti il rapporto fra Stato e Autonomie. Significa attribuire al Senato ogni decisione sulla quale i deputati versino in conflitto d’interesse (dalle immunità alla verifica dei poteri, dalla legge elettorale al finanziamento dei partiti). Significa assegnargli il parere vincolante su tutte le nomine dei dirigenti apicali dello Stato. Ma soprattutto significa costruire una seconda Camera, anziché una Camera secondaria.

da Il Corriere della Sera

"Otto famiglie italiane su dieci sono in difficoltà economica", da lastampa.it

Il rapporto Confcommercio-Censis: c’è un leggero miglioramento del clima
di fiducia. Il 66% ritiene che il Governo sia in grado di far superare al paese la lunga fase di crisi economica.

Otto famiglie su dieci vivono «una sensazione di precarietà e instabilità», solo una su cinque «ritiene invece di essere in una situazione di solidità». Dati dell’outlook Confcommercio-Censis sul primo semestre 2014. C’è comunque «un leggero miglioramento del clima di fiducia», legato ad «ottimismo sulle riforme Renzi»: emerge che «ben il 66% del campione ritiene che il Governo sia in grado di far superare al paese la lunga fase di crisi economica».
Il rapporto rileva «un miglioramento del clima di fiducia, il primo dal 2011 ad oggi», ma sottolinea che comunque «l’incertezza è il sentimento prevalente con una quota di quasi il 40% delle famiglie che vivono adottando un comportamento di attendismo, in attesa dell’evolversi degli eventi». «Il protrarsi della crisi , la mancanza di lavoro, il peso delle tasse», evidenzia l’outlook Confcommercio-Censis su consumi e clima di fiducia per il primo semestre 2014, «continuano ad alimentare lo stato di forte difficoltà in cui si trovano le famiglie italiane che, rispetto alla propria situazione economica e alla propria capacità di spesa, avvertono nella maggior parte dei casi – quasi l’80% – una sensazione di precarietà e instabilità». E «solo un quinto delle famiglie ritiene, invece, di essere in una condizione di solidità». In particolare, il 17% del campione definisce la condizione economica e la capacità di spesa della sua famiglia «ad alto rischio»; il 21% risponde: «difficile, perché rischio di non farcela; per il 41% è «precaria»; per il 21% «solida.
Per Confcommercio-Censis «È ipotizzabile che il leggero miglioramento del clima di fiducia sia stato favorito dal cambio del quadro politico a marzo. A conferma di ciò, il capitale di fiducia di cui sembra godere il Governo guidato attualmente da Matteo Renzi risulta consistente: ben il 66% del campione ritiene, infatti, che il Governo sia in grado di far superare al Paese la lunga fase di crisi economica: il 24% del campione pensa che «abbia molta probabilità di riuscirci; il 42% che «abbia qualche possibilità di riuscirci»; il 22% che «non ci riuscirà perché la crisi è troppo complicata»; ed un 5 % ritiene che «non ci riuscirà per incompetenza».
È «ancora più alta la quota, oltre il 75%, di chi ritiene che il Governo riuscirà, almeno in parte, a realizzare il piano di riforme annunciato»: il 52% ritiene che ci riuscirà solo in parte, il 25% pensa «che ce la farà»; pessimista il 14%: «Non ce la farà».
Intanto, «certo è che, in un quadro complessivo di difficoltà e crisi dei consumi, le famiglie hanno ben chiare le priorità che l’Esecutivo deve affrontare subito per migliorare la situazione: creazione di nuovi posti di lavoro (56,3%) e riduzione della pressione fiscale (nel complesso il 32,1%: il 18,3% lo chiede riferendosi alla tassazione sulle imprese, il 13,8% per le persone fisiche); mentre per il 9% la priorità del governo dovrebbe essere potenziare i sussidi di disoccupazione.

da www.lastampa.it

"In bilico sul crinale tra rilancio e ricaduta", di Fabrizio Galimberti

Nel giorno della Liberazione, è arrivato anche l’annuncio di una “liberazione” dell’economia italiana dalle catene del deficit e della recessione? L’annuncio di una delle tre grandi agenzie di rating – la Fitch – di un passaggio delle prospettive del debito pubblico italiano da negativo a stabile è senz’altro una buona notizia. I giudizi delle agenzie sui debiti sovrani sono da prendere sul serio, dato che sono esenti dal “peccato originale” del loro modus operandi: nessuno le paga per i giudizi sui Paesi, mentre sono invece pagate dalle emittenti stesse dei titoli per le obbligazioni private, creando un chiaro conflitto di interessi.
Il giudizio della Fitch, ampiamente motivato ed equamente assortito di fattori positivi e negativi, conferma le luci e le ombre che erano andate stagliandosi negli ultimi mesi. Il miglioramento dello spread e il tasso medio sul debito italiano ai minimi storici non sono banali conseguenze dell’abbondanza di liquidità nella finanza internazionale. Sono stati meritati attraverso una politica di bilancio che ha portato i fondamentali della finanza pubblica italiana in una situazione migliore di quella francese o spagnola. E, se la serie storica del debito pubblico fosse riformulata in modo da attribuire al passato quei debiti verso i fornitori per spese di investimento che oggi lo appesantiscono con i pagamenti in ritardo, e se ne fossero esclusi i versamenti per i salvataggi di altri Paesi (come vorrebbe il buon senso), anche la traiettoria del rapporto debito/Pil non sarebbe così negativa.
È vero: per certi aspetti le misure recenti configurano una scommessa. Il ricorso (pienamente giustificato) alle “circostanze eccezionali” per giustificare un ritardo nella corsa al pareggio strutturale del bilancio, così come le incerte coperture dei famosi 80 euro, sono una scommessa. Con uno slalom “alla Tomba” fra i paletti europei e un’ardente dose di ottimismo si spera che le misure e gli obiettivi del Def saranno validati a posteriori da una crescita superiore alle attese. È giustificata questa speranza?
I fattori di dubbio non mancano. La situazione politica, malgrado il vento di novità che soffia dal Governo Renzi, rimane instabile, anche se bisogna fare uno sconto elettorale a molte fibrillazioni. Soprattutto, l’economia reale “eppur si muove”, ma il moto appare ancora fragile. E il positivo giudizio di Fitch sul sistema pensionistico italiano (“è sostenibile”) maschera la dicotomia che accomuna lavoratori ed ex-lavoratori: sia gli uni che gli altri sono divisi fra protetti e precari nel primo caso, e, nel secondo caso, fra quanti hanno ottenuto pensioni vicino all’ultimo stipendio e quanti – i giovani di oggi – si ritroveranno con pensioni molto meno vantaggiose rispetto ai loro padri.
Ma oltre a fattori di dubbio ci sono fattori di speranza. L’alone da ultima spiaggia che circonda il nuovo Governo rende più difficile ipotizzare crisi clamorose ed esiziali. E l’atmosfera in Europa sta cambiando riguardo alle politiche di austerità: malgrado i toni severi, la bancarotta intellettuale di quelle politiche ha lasciato il segno, ed è poco probabile che la Commissione frapponga ostacoli a un Paese che cerca di sollevarsi “tirando sulle stringhe delle scarpe”.
Ferve da noi la contabilità della manovra: riduzioni di imposta finanziate da riduzione di spesa, si dice, possono essere recessive invece di dare uno stimolo (il moltiplicatore della spesa è superiore al moltiplicatore dell’entrata). Il che è tecnicamente vero, ma la temperie presente della nostra economia mal si presta a questi calcoli. Dopo una lunga prostrazione che ha rigettato il reddito reale pro-capite al livello di fine secolo scorso, tutto ormai si gioca su variabili diverse dalla contabilità degli stimoli. Quel che conta è la fiducia, la propensione al consumo non è una costante, la propensione a investire è scalpellata dagli “spiriti animali”, l’umore del Paese può cambiare rapidamente. Qui sta la cerniera della nostra vicenda congiunturale. Mai come in questo momento la Politica (con la P maiuscola) può e deve fare molto per cambiare l’umore del Paese. Mai come in questo momento le forze politiche si devono chiedere, prima di tutto, cosa è bene per l’Italia. Mai come in questo momento un Paese in bilico fra ripresa e ricaduta ha bisogno di quel “Buongoverno” che attende da decenni.

da Il sole 24 Ore

"Gli occhi strabici dell’Occidente", di Federico Rampini

CON un attacco russo all’Ucraina sempre più probabile, Obama convoca un “G7 telefonico” d’emergenza. All’ordine del giorno: le nuove sanzioni contro Putin, che l’America vorrebbe dure e veloci, mentre l’Europa continua a tergiversare.
LA TENSIONE è alle stelle anche sul fronte economico, dopo che Standard & Poor’s ha declassato il rating della Russia quasi al livello “junk” (titoli “spazzatura” ad alto rischio di default) e le fughe di capitali da Mosca accelerano. Ma l’unità dell’Occidente è piena di distinguo. Inoltre, anche la Casa Bianca è tutt’altro che convinta che le sanzioni possano dissuadere Putin. Unica nota leggera nel crescendo di allarme: Obama conferma che «sì, si butterebbe in acqua per salvare Putin se lo vedesse affogare», in risposta ad un apprezzamento non si sa quanto convinto da parte del leader russo (era stato Putin alla tv russa a definire Obama «una brava persona che non esiterebbe a buttarsi in acqua per salvarmi», ma nel suo caso non è sicuro se fosse un complimento, o invece un’allusione a debolezza e ingenuità dell’americano…).
Obama è costretto a fare le ore piccole mentre è ancora in tournée asiatica. Come non bastassero i preparativi nucleari della Corea del Nord, quando è
notte in Estremo Oriente lui convoca a telefono Angela Merkel, François Hollande, David Cameron e Matteo Renzi: un G7 in formato ridotto con i quattro europei della Nato che fanno parte di quel club. Vistosa è l’assenza di Lady Catherine Ashton, quella che dovrebbe essere ministro degli Esteri dell’intera Unione europea. Sulla carta, è vero, la Commissione Ue partecipa ai G7 solo come osservatrice.
In quell’assenza però gli americani leggono anche la disunione dei loro alleati. Tant’è: nessun annuncio di nuove sanzioni esce da quella teleconferenza. «Fin dove può arrivare Putin?» si sarebbero chiesti a turno sia la Merkel che Hollande e Cameron. Di fronte alla brutalità delle mosse di Mosca nell’Ucraina orientale, gli occidentali ribadiscono che il torto sta tutto da quella parte.
«Il governo ucraino ha rispettato tutti i suoi impegni – è la posizione unanime del G7 – ivi compresa l’amnistia per tutti i ribelli che abbandonino gli edifici governativi occupati. Putin non ha affatto rispettato gli accordi di Ginevra, non si è degnato neppure di lanciare un appello alle milizie filo-russe perché depongano le armi». Fin qui l’analisi delle colpe è chiara, la condanna è inequivocabile.
Sul da farsi, invece, gli occidentali tentennano. L’America spinge per nuove sanzioni, subito, passando a un livello superiore. Non basta cioè prendere di mira degli individui, siano pure gli oligarchi più vicini a Putin. Bisogna lanciare sanzioni “settoriali”, colpire pezzi interi dell’economia russa. E’ qui che gli europei deludono ancora una volta Obama. Lui si aspettava una decisione comune sulle nuove sanzioni già ieri, invece il weekend è arrivato senza annuncio. Ciascun governo europeo torna a farsi i conti in tasca. I paesi più dipendenti dall’import di gas russo scongiurano che l’energia resti fuori dalle sanzioni. La Francia ha paura di perdere commesse militari. L’Inghilterra non vuole subire fughe di capitali degli oligarchi con conto bancario nella City di Londra. Affiora perfino una richiesta del Belgio: niente sanzioni sull’import di diamanti, per carità, la piazza di Anversa sarebbe danneggiata se scomparisse la materia prima, le pietre preziose che vengono dalla Russia. La Casa Bianca è disposta a ripiegare su un pacchetto di sanzioni più mirate, lo staff di Obama col Dipartimento di Stato e col Tesoro hanno pronta una nuova lista di nomi, individui e aziende strettamente legati a Putin, implicati perfino nella destabilizzazione sull’Ucraina. Anche su quella lista, gli europei hanno da ridire. Gli atti non coincidono con la retorica, visto che Hollande invoca «una risposta rapida» e la Merkel gli fa eco con un perentorio «dobbiamo agire».
Nessuno sembra farsi illusioni sull’effetto che questi appelli possono avere su Putin, che nei giudizi del G7 «continua a peggiorare la tensione con un’escalation di retorica e con le minacciose esercitazioni militari al confine con l’Ucraina». Per Obama non ci sono dubbi sul fatto che «Putin vede il mondo con gli occhiali della guerra fredda». Non è chiaro quali occhiali abbiano deciso di usare i leader occidentali, alle prese con una crisi della quale denunciano la gravità senza vederne l’esito.

da Repubblica

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“Sull’Ucraina Europa in seconda fila”, di Mario Deaglio

A poche settimane dalle elezioni che rinnoveranno il Parlamento di Strasburgo, le forze politiche europee appaiono attentissime ai propri problemi nazionali, ma distratte o capaci soltanto di vaghe istanze per quanto riguarda i problemi europei. Nello spazio politico europeo si agitano idee e programmi su come ottenere più soldi dall’Europa, attraverso il Fondo Sociale Europeo e altri strumenti del genere, mentre esiste una quasi assenza di dibattito, un vero e proprio vuoto su come farà l’Europa a crescere in modo da rendere più abbondanti le risorse che consentono tale redistribuzione.

Il vuoto diventa un abisso nel quale sprofondano socialisti francesi, conservatori inglesi e democristiani tedeschi (per non parlare delle forze politiche italiane) quando si considera il ruolo dell’Europa nell’economia e nella politica globale. Siamo in presenza di un’incredibile carenza di «visioni», idee e progetti, particolarmente evidente nel caso della crisi ucraina, esploso sulla “porta di casa” dell’Europa senza che l’Europa se ne preoccupi più di tanto. Al punto di lasciare tranquillamente agli Stati Uniti – che sembrano giocar la carta ucraina per ribadire un’egemonia mondiale fortemente indebolita negli ultimi anni – l’iniziativa diplomatica e la gestione strategica di questa delicatissima vicenda, come è avvenuto ancora ieri con le consultazioni tra Obama e i leader europei.

Eppure, l’Ucraina e la Russia sono molto più importanti per l’economia e l’assetto politico europeo che per l’economia degli Stati Uniti e un embargo occidentale alla Russia, o qualche altra sanzione dura, finirebbero per danneggiare gravemente l’Europa mentre gli Stati Uniti ne sarebbero solo lievemente toccati (e forse, in taluni casi, perfino avvantaggiati). Se infatti aderisse a tale embargo, l’Europa si farebbe economicamente del male con le proprie mani, quasi senza rendersene conto. Si verificherebbe una riduzione sensibile della domanda russa di prodotti europei anche se, senza arrivare all’embargo, i rapporti commerciali tra Europa e Russia dovessero indebolirsi fortemente e se l’economia russa andasse in crisi per effetto delle pressioni esterne: quasi «per disattenzione», senza averne mai neppure seriamente discusso, l’Europa potrebbe trovarsi risucchiata in una fase depressiva proprio quando gli ultimi dati segnalano una ripresa ancora modesta ma incoraggiante. Gli europei dovrebbero inoltre cercare affannosamente fonti di energia in grado di sostituire il gas e il petrolio russo già dal prossimo inverno.

All’interno dell’Europa, le economie maggiormente interessate agli andamenti russi – e quindi alla gestione della crisi ucraina – sono quella tedesca e quella italiana. Entrambe ricevono dalla Russia, in parte attraverso l’Ucraina, un apporto molto importante alle risorse energetiche delle quali hanno bisogno; entrambe esportano verso la Russia prodotti qualificanti. Al di là delle dimensioni quantitative (la Russia è un partner commerciale primario dell’Unione Europea) vi è una dimensione qualitativa che va tenuta in conto: per moltissime imprese italiane che producono impianti e macchinari, prodotti chimici e medicine la presenza in Russia (garantita anche da stabilimenti e reti distributive) consente un «salto di dimensione» tale da permettere alle imprese in questione di impostare strategie globali.

Allo stato attuale della spinosa vicenda ucraina, caratterizzata dalla scarsità di informazioni indipendenti, sono razionalmente ammissibili, ma entrambe con molte riserve, sia opinioni da «falchi» sia opinioni da «colombe». I «falchi», tra i quali va annoverata Hilary Clinton, possibile candidato del partito democratico americano alle prossime elezioni presidenziali, paragonano il presidente russo Vladimir Putin a Hitler e l’annessione della Crimea all’annessione dei Sudeti: un’analogia piuttosto debole da un punto di vista storico. Tra le «colombe» si possono annoverare i trecento intellettuali tedeschi che, in una lettera aperta di qualche giorno fa, hanno espresso un certo appoggio a Putin, anche qui sulla base di paragoni storici che non sembrano fortissimi. Non è invece accettabile, ed appare difficile da comprendere, l’assordante silenzio europeo mentre l’ala orientale della casa europea rischia di essere coinvolta in questo grave incendio.
Tale vuoto politico conferma che la politica europea è inadeguata rispetto alle esigenze dell’economia europea, non ne comprende le necessità e può danneggiarla anche gravemente con le proprie esitazioni. In questa situazione il «vecchio Continente» rischia di rivelarsi davvero vecchio e inadeguato, paralizzato dalle proprie indecisioni che lo portano sovente a un localismo esasperato anziché a una visione globale. I suoi primati industriali si stanno rapidamente riducendo: l’acquisto da parte di Microsoft della maggior parte delle attività di Nokia ha sancito il declino della telefonia cellulare, dominata in gran parte dagli europei, a favore di sistemi di comunicazione che utilizzano Internet (dominati in gran parte da americani, coreani e cinesi). Il possibile acquisto di Alsthom, il gigante francese del settore energetico-ferroviario, da parte dell’americana General Electric va nella stessa direzione. L’Europa, insomma, è in «seconda fila», come dice il titolo dell’Annuario ISPI 2014. E rischia di arretrare alla terza o alla quarta fila, con la prospettiva di diventare irrilevante; o addirittura di uscire di scena se mai le elezioni di maggio fossero vinte dagli avversari dell’euro e dell’unione economica.

da www.lastampa.it

"La memoria per il futuro", di Paolo Di Paolo

«Pensavo a tutto quel che era accaduto in quella lunghissima giornata, ma pensavo soprattutto al domani»: sono le parole con le quali Ada Gobetti commentava, nel suo Diario partigiano appena ripubblicato, la grande giornata del 25 aprile 1945. Fate attenzione a questa frase: «pensavo soprattutto al domani». La donna che era stata accanto al giovane, intransigente antifascista Piero Gobetti proiettava subito l’esperienza resistenziale su un orizzonte futuro. Questa mi sembra la lezione più essenziale: «Non ci sarebbero più stati bombardamenti, incendi, rastrellamenti, arresti, fucilazioni, impiccagioni, massacri. Questa era una grande cosa», scrive ancora Ada. Poi aggiunge: «Si trattava di non lasciar che si spegnesse quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati».

Tocca ancora a noi tenere viva quella fiamma: e non come esercizio retorico o di conservazione istituzionale del passato, ma appunto come una storia che implica ancora e sempre il presente, se siamo disposti a proteggere quelle conquiste, a non tradirle. Le manifestazioni di ieri e di ogni 25 aprile in tutta Italia sono un presidio: conforta pensare ai ragazzi della Rete degli studenti dell’Emilia Romagna che insieme agli universitari di Bologna ieri mattina, prima di salire su un treno diretti a una cerimonia, hanno affisso sui muri del capoluogo manifesti con le frasi di Gramsci, Pertini, Calamandrei. Non è un caso che siano frasi di uomini esemplari e che appunto siano il segno di modelli di libertà e dignità politica. «I giovani non hanno bisogno di prediche – sono parole di Pertini -, i giovani hanno bisogno, da parte degli anziani, di esempi di onestà, coerenza e altruismo».

E questo è il punto: prima di chiederci se i giovani sanno o non sanno cosa è accaduto il 25 aprile del ’45, chiediamoci quanto a quell’evento siano stati fedeli, nei decenni, i padri. Se questi padri hanno saputo dare un esempio. Se questi padri hanno dimenticato, prima ancora che con la perdita della memoria, con la perdita della dignità. Nel toccante film documentario «La memoria degli ultimi» del giovane Samuele Rossi, un ex partigiano oggi novantenne rivolge a sé stesso una domanda: di fronte all’Italia come è oggi, è valsa la pena di quel sacrificio? Ci pensa un istante, poi risponde che sì, ne è valsa la pena. Comunque e nonostante. E questa non è solo la risposta di un partigiano, è la risposta collettiva di gente che ha lottato e si avvia a lasciare la scena. Gente per la quale tutto ciò che noi, nati al sicuro, sappiamo dai libri o dai film è stata vita vissuta. L’addio alle famiglie, i ponti minati, le montagne da valicare, la paura, la fame, anche la violenza, certo, perché ce n’è stata, e brutale. L’hashtag legato al documentario e a un progetto di archiviazione delle testimonianze sulla lotta partigiana è #nonperderelamemoria, ma non basta questo, non bastano le conferenze e i convegni nelle scuole. Occorre rivitalizzare questa memoria, far sì che i più giovani se ne «approprino» con i loro strumenti, reinventino il racconto, per una via emotiva prima che intellettuale: come è nel caso di alcuni romanzi di questi anni, firmati da autori nati molto dopo gli eventi (Paola Soriga, Giacomo Verri, Simona Baldelli e altri), o nel film «Bimba col pugno chiuso», dove la storia di una giovanissima staffetta partigiana – Giovanna Marturano, classe 1912, scomparsa da poco – viene reinterpretata alternando al documentario inserti di animazione che fanno di Giovanna qualcosa di più che una testimone: la protagonista di un incredibile e toccante «romanzo» dal vero.
Come hanno scritto per il suo mancato 102° compleanno i bambini di una scuola di Roma: «Combattendo ogni giorno senza paura e con determinazione una guerra diversa, hai lasciato un’impronta nella storia e nei nostri cuori».
Da quei cuori che si avviano a diventare adulti, possono ripartire le domande giuste. Quelle in grado di proiettare sul presente il senso del 25 aprile. Sono le domande che gli ex partigiani protagonisti di «La memoria degli ultimi» ripetono con occhi carichi di dubbio e insieme di speranza: i ragazzi di oggi farebbero ciò che abbiamo fatto noi, se servisse? Sarebbero in grado di lottare per la libertà propria e del loro Paese? Non è necessario andare molto lontano da qui per vedere che c’è chi lo fa, chi aspetta e cerca di costruire altrove un altro 25 aprile.

da L’Unità