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"Tutti i contendenti del 25 aprile ", di Michele Serra

È stato un 25 aprile nervoso, e questa non è una novità. È almeno dai primi anni Settanta che la festa della Liberazione è (anche) occasione di attrito tra “ufficialità”, vera o presunta.
EVIVACI movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa.
Ma quest’anno il nervosismo ha assunto le forme, davvero molto contemporanee, di uno sbriciolamento tipicamente “local”, che nel nome delle cause più varie, alcune nobili alcune abbastanza stravaganti, ha inteso rivendicare la Resistenza come una cosa propria, indegnamente usurpata dalle varie autorità sui vari palchi cittadini.
A Roma è stata la questione mediorientale a prendersi la scena, con scontri verbali molto aspri tra “brigate ebraiche” e simpatizzanti della causa palestinese, entrambe le fazioni ovviamente arciconvinte di essere “i veri partigiani”. A Torino alcuni No Tav hanno contestato l’Anpi, colpevole di “essere nel Pd”, mentre si sa che “i veri partigiani” eccetera eccetera. A Palermo è stata molto percepibile la causa dei No Muos, che sarebbe (il Muos) il nuovo sistema di puntamento satellitare americano, che comporta servitù militari indesiderate; e pur trattandosi di una lotta del tutto rispettabile e degna di coronamento, non è facilissimo stabilire se e quanto si sia “veri partigiani” a seconda che si sia favorevoli o contrari a un nuovo sistema di puntamento satellitare. A Milano esponenti della Giunta Pisapia sono stati contestati da un drappello di No Canal, contrari al passaggio di un nuovo canale nel loro quartiere. E anche qui si dovrà riconoscere la non immediata identificazione tra le due circostanze, di portata storica piuttosto impari: l’opposizione a un canale artificiale e la liberazione dal nazifascismo.
Già: perché è poi di questo, dopotutto, che si tratterebbe. Il 25 aprile del 1945 vennero liberate dai tedeschi e dai loro alleati repubblichini Milano e Torino; e l’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale proclamò, via radio, l’insurrezione. Per convenzione quel giorno venne considerato dai fondatori della nuova democrazia il più rappresentativo della lotta di liberazione partigiana al fianco degli angloamericani. Ovviamente è del tutto lecito non festeggiarlo, cosa che i nostalgici del regime fascista hanno sempre fatto, e anche buona parte degli italiani di destra che considerano 25 aprile e Primo Maggio “feste comuniste”.
Ma partecipare avocando a sé, alla propria lotta non importa se globale o di cortile, non importa se la più degna o la più insostenibile, la titolarità del verbo “resistere”, oltre a essere leggermente narcisista è un poco sconveniente nei confronti di chi (milioni di italiani) considera il 25 aprile la festa della libertà ritrovata, dunque una festa di tutte le persone libere: punto e basta. Una festa del “noi”, non una festa dell’“io”, che ce ne sono già tante.
Che poi quegli ideali fondativi siano stati onorati oppure traditi, e in quale misura onorati e in quale traditi, è un dibattito decisivo e avvincente; che esistano molte possibili forme di resistenza, alcune del tutto nuove, e la pigra consuetudine democratica non le valorizzi e anzi le inibisca, è pure verissimo; ma insomma, se un giorno all’anno milioni di italiani vogliono festeggiare non “le resistenze”, ma quella Resistenza lì, quella guerra, quella vittoria, la nascita di quella democrazia che poi, con alterne fortune, è ancora la nostra, perché fare di una festa di popolo, cioè di tutti, il proprio cortile politico? Un corteo non è un cortile. In Francia a nessuno verrebbe in mente di salire in groppa al 14 luglio per farsi notare e fare pubblicità alle proprie faccende politiche o alla propria singola lotta. E il 25 aprile è il nostro 14 luglio, il compleanno della nostra libertà. D’accordo, non siamo la Francia. Ma se ci riuscisse, ogni tanto, di essere almeno l’Italia?

da Repubblica

Liberi

L’ultima intervista a Maria Cervi, figlia di Antenore, uno dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti nel dicembre 1943, di Gianni Sartori. “Avevo intervistato Maria Cervi (figlia di Antenore, uno dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti nel dicembre 1943) nel giugno del 2007 per una serie di articoli in vista del convegno “Il sapore giovane della resistenza” e ci eravamo lasciati con l’impegno di rivederci in quella occasione (domenica 24 giugno 2007). L’incontro era stato organizzato a Vicenza nell’ambito di Festambiente, ma purtroppo Maria ci aveva lasciato pochi giorni prima della manifestazione vicentina”.
Inevitabilmente questa sua testimonianza (forse la sua ultima intervista) ha finito per acquistare un valore particolare”. Gianni Sartori.

Qual è a suo avviso, l’importanza, l’attualità della Resistenza per la democrazia nel nostro paese?

Per me la Resistenza è ancora, nei fatti, il momento della nascita della Repubblica, della rifondazione democratica. Non sono invece convinta che questa consapevolezza sia presente in tutta la popolazione. A volte mi sembra venga dato per scontato. Forse non è stato fatto abbastanza per conservare la memoria di quanto è avvenuto. Temo che in questi ultimi sessant’anni ci siamo un po’ “distratti” e ora i risultati si vedono. D’altra parte penso anche che negli ultimi anni (diciamo dal cinquantesimo al sessantesimo della Resistenza) ci sia stata una ripresa, un recupero sia da parte delle istituzioni che dei partiti, della scuola…

Da questo punto di vista, il sacrificio dei fratelli Cervi resta un esempio ancora molto significativo. Ritiene sia importante anche per i giovani?

Parlando con molte delle persone che vengono al museo mi sembra di capire che resta un esempio emblematico. In maggioranza i visitatori sono giovani, soprattutto studenti. Il fatto di voler sapere, visitare la casa, lasciare dei “segnali” esprime interesse, attenzione. Evidentemente rimane un segno molto forte. Anche andando in giro per l’Italia in occasione di conferenze o manifestazioni scopro continuamente sale, circoli, scuole …a loro dedicati. Talvolta rimango stupita perché la cosa va ben oltre quello che mi sarei aspettata. Incontro molte persone che conoscono sia i loro nomi che episodi della loro vita, come quello del trattore e del mappamondo…

Ce ne può parlare?

Nel 1939 (io avevo cinque anni) comprarono un trattore, all’epoca un elemento sicuramente innovativo dato che nessuna azienda di piccole dimensioni lo possedeva. Al momento dell’acquisto si fecero regalare un mappamondo, un simbolo di modernità ma anche di cultura, della volontà di scoprire il mondo, gli altri popoli…E molti mi chiedono “ma dov’è il trattore, dov’è il mappamondo?” con un riferimento preciso, molto diretto. Oggi sono entrambi conservati nel museo gestito dall’”Istituto Nazionale Alcide Cervi”. Il trattore è stato la scelta ultima, preceduta da un lungo percorso di innovazione per adottare sistemi nuovi di coltivazione. Tutta la loro vita era indirizzata in questa direzione. C’era stata, per esempio, la scelta della coltivazione di prato stabile per intensificare la produzione di latte e quindi del parmigiano. Risaliva al 1938 un progetto di abbeveraggio automatico per le mucche. Qui da noi negli anni trenta il pascolo non esisteva più e non c’erano quasi più gli abbeveratoi. L’acqua veniva portata nelle stalle con i secchi, un lavoro assai faticoso. Prima di installare l’abbeveratoio, completarono l’ampliamento delle stalle. Quando nel 1934 (io avevo tre mesi) andammo ad abitare in questa casa dove ora c’è il museo, c’era la possibilità di tenere solo otto capi di bestiame. Nel 1943, al momento del loro arresto, ce n’erano cinquantasei.

Possiamo dire che la famiglia Cervi rappresentava un fattore di discontinuità rispetto alla situazione tradizionale nelle campagne?

Le loro iniziative erano circondate sia da curiosità che da perplessità da parte degli altri contadini. Rientrava nel loro atteggiamento anche la a scelta, nel 1934, di lasciare la mezzadria per diventare affittuari, per avere maggiore libertà. Ritenevano che l’affittuario, una volta pagato l’affitto, fosse più libero di agire, di innovare. Il proprietario di questa casa era un medico condotto che acconsentiva a questi interventi. L’ampliamento delle stalle venne fatto in “acconto d’affitto”.

Contemporaneamente cresceva anche il loro impegno politico. Come ebbe inizio?

La formazione della loro coscienza politica comincia ancor prima del ’34. C’erano dentro di loro questi valori di giustizia sociale, di libertà. Dicevano che non era giusto “se noi stiamo bene e gli altri no”. Naturalmente ci furono alcuni episodi determinanti. Nel ’29 Aldo, mentre era militare, venne ingiustamente condannato a cinque anni di carcere che poi diventarono due anni di confino a Gaeta. Qui avvenne l’incontro, sicuramente importante, con alcuni esponenti politici confinati. Al ritorno di Aldo ci fu un confronto con gli altri fratelli e fu in quel periodo che diventarono comunisti.

Quali erano i valori della famiglia Cervi?

Era una famiglia di cattolici praticanti e alcuni di loro cominciarono a chiedersi come portare avanti quei valori, con coerenza. Un altro momento importante risale al 1936 quando Ferdinando venne richiamato dall’esercito per andare in Africa. La nostra famiglia non era d’accordo, dato che non riteneva giusto andare a combattere contro un altro popolo. Da parte di Ferdinando ci fu anche un intenso confronto con il suo confessore, in chiesa. Lo zio non si lasciò convincere e infatti non andò in guerra. Con questi avvenimenti comincia la loro ribellione al fascismo, ma soprattutto lo studio, l’elaborazione…Il nonno (“papà Cervi” nda) diceva che “loro non erano cambiati, avevano solo cambiato strada”. Forse pensavano che certi valori non erano abbastanza difesi. Talvolta è necessario anche qualche sacrificio, come appunto con la Resistenza, un maggiore impegno per la Pace, la libertà, soprattutto per la democrazia. Questi principi non devono ridursi a dei “piccoli monumenti” belli e importanti; devono anche essere vissuti, messi in pratica. Mi è piaciuto il messaggio del presidente della Repubblica a capodanno. Parlando della partecipazione ha citato Giacomo Olivi, un partigiano fucilato a Modena nel ’44, quando scrisse “Non dite di essere stanchi”. E’ un richiamo che porto sempre con me e, quando posso, cerco di trasmetterlo, soprattutto ai giovani. In fondo è lo stesso messaggio di don Milani quando diceva “mi riguarda, me ne devo occupare”. Ecco, forse oggi è questo l’aspetto più preoccupante: il distacco, l’indifferenza, la mancanza di prospettiva.

Ha parlato di “papà Cervi”. Cosa ricorda dei suoi nonni?

Il nonno era iscritto al Partito popolare dal 1924. Al museo abbiamo conservato la sua tessera firmata da don Luigi Sturzo. Alla fine i valori guida erano gli stessi. C’è chi ha creduto di continuare a difenderli in un modo e chi ne ha cercato un’ altra strada. E’ significativo poi che le “due strade” si siano ritrovate nella Resistenza. Anche mia nonna Genoeffa è morta cattolica praticante, nell’ottobre 1944, dieci mesi dopo la fucilazione dei suoi figli. E anche lei aveva avuto i suoi “momenti di ribellione”. Si era appena sposata e nella stanza dove dormivano, pioveva regolarmente dal tetto in cattive condizioni. Lei, per quanto timorosa, aveva chiesto invano al padrone di ripararlo. Allora ha fatto un bel buco nel pavimento, in modo che l’acqua cadesse proprio sul letto dei padroni che dormivano nella stanza sottostante. Naturalmente il tetto venne riparato prontamente. Mia nonna non ha neanche voluto dare “l’oro e il rame per la Patria” come chiedeva Mussolini. Diceva che “non è giusto dar via la fede che mi ha donato mio marito”. C’era quindi questo senso innato della giustizia da cui non ci deve discostare.

www.partitodemocratico.it

"Se riparte l'economia ma il credito resta fermo", di Carlo Bastasin

Con zelo e buona sorte, quasi tutti gli indicatori dell’eurozona sembrano muoversi nella direzione giusta a un mese esatto dalle temute elezioni europee. Così, sfidando il diffuso euroscetticismo, entra nel dibattito elettorale l’interrogativo se la crisi stia addirittura finendo. In fondo l’economia tedesca sta dando segni di grande vigore e i Paesi confinanti ne ricevono impulso. La Spagna ha chiuso il primo trimestre 2014 con la crescita più alta da sei anni. La Grecia ha un surplus di bilancio maggiore del previsto. Inoltre il Portogallo, come già aveva fatto l’Irlanda, è tornato a finanziarsi sui mercati e vuole uscire dal programma di assistenza grazie a risultati di bilancio migliori di quelli richiesti dalla troika. Quanto ai “mercati” sembrano piuttosto contenti di se stessi.
In effetti i dati sono più controversi e l’ottimismo andrebbe quanto meno temperato. La disoccupazione nei Paesi critici è esorbitante, il livello degli investimenti lontano da quello del 2008. L’ipotesi che le riforme approvate nei Paesi più fragili abbiano modificato il clima di business è da verificare. I debiti pubblici continuano ad aumentare e l’inflazione a restare troppo bassa. Infine rimane il dubbio che se non si consoliderà la ripresa, capitale e lavoro oggi inoccupati vadano persi per sempre e che ciò riduca la crescita potenziale futura, mantenendo instabile l’economia europea.
In fondo la principale strategia di politica economica in atto in Europa è la graduale normalizzazione dei “canali di trasmissione” tra una politica monetaria accomodante e l’economia. La ripresa tedesca più forte del previsto è dovuta anche a condizioni finanziarie delle imprese prive di precedenti. Ma finora nei Paesi più fragili i canali di trasmissione sono rimasti ostruiti. C’è qualche segno di miglioramento, ma i bassi rendimenti e la liquidità della Bce non raggiungono imprese e famiglie. La strategia dunque è stata di mantenere vicino a zero il rendimento dei titoli a breve termine dei Paesi più sicuri dell’area euro, così come avviene negli Stati Uniti e in Giappone.

In tal modo, essendo calata l’attrattiva dei mercati emergenti, gli investitori globali non hanno avuto alternativa se non di cercare rendimenti “normali” nei Paesi della periferia dell’eurozona. L’effetto più vistoso finora è stato quello di ridurre gli spread dei titoli sovrani tra centro e periferia. Ma anche di rafforzare l’euro, con conseguenze restrittive per l’economia. L’obiettivo ora è di trasferire rapidamente la riduzione dei tassi d’interesse al credito bancario favorendo anche la ricapitalizzazione di banche e imprese. Ma il peso dell’incertezza calato sull’area euro da cinque anni grava ancora sulle decisioni di credito delle banche, così come su quelle di consumo e di investimento di famiglie e imprese. Il barometro segna tempo migliore, alcuni indicatori anticipatori non erano così buoni da tre anni, ma ogni giorno che passa la capacità produttiva inutilizzata continua a essere corrosa da una ruggine metaforica.
In un intervento molto significativo, il presidente della Bce Mario Draghi ha elencato ieri tutte le condizioni che ostacolano gli stimoli della politica monetaria. Dal rafforzamento dell’euro ad eventi esogeni sui mercati globali, dai problemi sul mercato del credito a rischi di inflazione troppo bassa. Gli analisti saranno colpiti dall’ipotesi di pubblicazione dei verbali delle riunioni del consiglio della banca, o ancor più dall’eventualità di un allentamento quantitativo in caso di deflazione. Draghi riconosce infatti che la situazione è vulnerabile, uno shock negativo potrebbe far precipitare la spirale debito-deflazione. Non essendoci molta esperienza di calo dei prezzi nelle economie avanzate è utile che l’impegno sia chiaro e preventivo. Con un’analisi dei rischi diventata molto complessa, e con conseguenze asimmetriche tra i Paesi, è utile che la Bce ammetta gradi ulteriori di trasparenza nel dibattito interno della banca.
Ma forse l’annuncio più concreto dell’intervento di ieri di Draghi è che la Bce prefigura nuove operazioni di credito a lungo termine (oltre che di acquisti di titoli) alle banche, a fronte di prestiti realmente effettuati alle imprese. Tra tante, si tratta della misura più coerente. In tal modo anziché trasferirsi solo sugli spread dei titoli pubblici, il basso costo del credito raggiungerà finalmente l’economia. Se ciò non avverrà sarà il turno dell’allentamento quantitativo.
È importante tuttavia che la sequenza cominci presto, perché una condizione di tassi d’interesse bassi ovunque in tutto il mondo non può essere permanente. Le riflessioni della Federal Reserve americana su un’uscita dalle condizioni monetarie eccezionalmente accomodanti sono avanzate, benché ambigue. Se il ciclo dei tassi d’interesse si invertisse, l’afflusso di capitali verso la periferia potrebbe prendere la direzione contraria con velocità imprevedibile.

Il Sole 24 Ore 25.04.14

"Ore una: insurrezione", di Bruno Gravagnuolo

“Aldo dice 26×1”. All’alba del 25 aprile 1945 al nord risuona dalle radio italiane questa strana formula, metà sciarada, metà misura di mobilità. Invece è la parola d’ordine dell’insurrezione che allerta tutte le grandi città ancora occupate dai nazifascisti, e invita i partigiani di pianura e di montagna a sferrare l’attacco. Con i resistenti armati già operanti in territorio urbano. È Milano la prima ad insorgere e a liberarsi prima dell’arrivo degli alleati. Ma l’invito è rivolto a Genova, Torino, Venezia, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Parma, Modena, città queste ultime dove la Resistenza aveva già preso il controllo dei luoghi strategici importanti.

La formula dice «26», come data massima entro cui insorgere e «1» a indicare l’ora d’avvio. Milano è in anticipo. È il luogo simbolico più importante, sede del Clnai con lo stato maggiore operativo della lotta. E lì è il cuore del Nord. Dove il 16 dicembre del 1944 era tornato Mussolini, per annunciare al Lirico che il nemico sarebbe stato inchiodato nella Valle Padana. Invece Alleati e Partigiani sfondano in primavera la Linea Gotica, dopo aver pagato enormi prezzi da Massa Carrara fino a Nord di Pesaro e passando per l’Appennino insanguinato di rappresaglie. L’ora è arrivata per- ciò e anche l’Unità clandestina parla chiaro: «Insurrezione».

Vale la pena di leggerlo tutto quello strano comunicato, in realtà un telegramma inviato a tutti i comandi di zona partigiani: «Nemico in crisi finale. Stop. Applicate piano E 27. Stop. Capi nemici e dirigenti fascisti in fuga. Stop. Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette. Stop. Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et Piacenza- Torino. Stop. 24 aprile 1945». Non è questione di filolgia o di enfasi celebrativa ricordare il dettaglio del dispaccio, da cui vien fuori la parola in codice. Perché nel dettaglio c’è una politica di massa che diventa linea generale, da applicare nei luoghi chiave indicati, entro il giorno 26. Eccola: fare prima, insorgere prima dell’arrivo alleato e imprimere alle cose una dinamica precisa. Un principio di autogoverno nazionale. Nello stesso momento in cui si procedeva insieme agli Alleati, ma senza subalternità.

Quindi precise norme di controllo del territorio, presa di possesso dei punti chiave, eliminiazione dei focolai di contro-resistenza e via libera agli angloamericani nell’inseguire i nazifascisti in fuga. Accorciando così i tempi della guerra che ormai volgeva al termine. Dopo lo sfonda- mento della Gustav e il fallimento dell’offensiva tedesca nelle Ardenne. In Maggio sarebbe tutto finito ma la Resistenza italiana con il suo apporto, militare e civico, imprimeva un suo sugello agli eventi, accorciando la tragedia e risollevando l’onore di una nazione trascinata nel baratro dal fascismo, e dalle colpe della Monarchia. Non senza le annesse istruzioni, a presidiare fabbriche, edifici, ponti, strade e materiale rotabile. Oltre all’onore, venivano messe in salvo le dotazioni del paese non ancora distrutte dalla furia bellica del biennio 1943-45. Cose che avrebbero consentito al paese pur sconfitto, di pagare un prezzo meno amaro alla disfatta e di piantare le basi per ordinamenti civili saldamente democratici e condivisi. Insomma grazie alla Resistenza vittoriosa – politicamente più che militarmente – non ci fu né scenario greco di guerra civile né restaurazione monarchica e conservatrice. E il tutto passando per una alleanza anche con le forze moderate e monarchiche. Contando la «tutela» di chi, come Churchill, avrebbe voluto la continuità con i Savoia e un ruolo puramente ausiliario di partigiani e Cln. Ma come ci si era arrivati a quel «miracolo», che poneva le basi della futura Costituzione e salvava il salvabile di un’Italia in ginocchio?

Almeno due date vanno ricordate al riguardo, ma appartengono all’anno precedente: il 1944. La prima è il 22 aprile 1944: governo di unità nazionale con Badoglio. Che rinvia la questione istituzionale, da risolvere con referendum a guerra finita. E poi, il 31 di gennaio dello stesso anno: il Cln di Roma guidato da Bonomi dà delega al Cln milanese di tramutarsi in Cln alta italia, con dentro comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, monarchici. Presi- dente Alfredo Pizzoni, liberale. Che rimarrà fino al 27 aprile, per cedere il posto al socialista Morandi. Il Clnai, assumerà ufficialmente il 26 dicembre 1944, il ruolo di «terzo governo», o «governo ombra» nei territori occupati. E come si accennava non senza frizioni con gli Alleati, timorosi di dinamiche rivoluzionarie imprevedibili. Il miracolo sta in questo: la coesione tra forze opposte in quella situazione drammatica e senza collegamenti. Con il paese spossato e spezzato. Ma prima c’è un altro miracolo da ricordare, che fu una vera e propria «invenzione»: la Svolta di Salerno. Annunciata da Togliatti dopo il suo ritorno in Italia il 22 marzo 1944, e concretizzatasi nel primo governo di unità nazionale, con gli obiettivi già visti. La svolta era stata in verità lanciata già a fine settembre 1943 da Ma- rio Correnti – alias Togliatti – tramite Radio Mila- no Libertà, che trasmetteva da Ufa, capitale del- la Baskiria sovietica. E diceva la voce: «Badoglio è il legittimo capo del popolo italiano». Una cosa enorme, rifiutata dall’antifascismo militante, incluso quello comunista. E che crea un’impasse, a partire dal Congresso di Bari – 28-29 gennaio 1943 – che vede il Cln diviso proprio sulla Monarchia e la linea unitaria da seguire. È Togliatti che sblocca tutto, proponendo anche la Luogotenenza di Umberto, insieme all’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Croce la definì «la bomba Ercoli», certo autorizzata dalla «geopolitica» di Stalin, e però tutta farina del sacco di Togliatti. Fu quello «sblocco» a consentire di unire azione armata sul territorio e quadro istituzionale legittimo. Popolo e continuità legale dello stato. Contro il nemico principale e per la Liberazione. Di lì, da quel sangue e da quell’intelligenza, viene il primo stato democratico italiano. Di lì veniamo tutti noi e lì dobbiamo sempre ritornare. A quei princìpi, direbbe Machiavelli. Anche quando immaginiamo futuro.

L’Unità 25.04.14

La crisi di Piombino è un caso europeo", di Patrizio Bianchi

Tutto il mondo dell’acciaio è entrato da tempo nell’altoforno della crisi e sembra inevitabilmente costretto ad una lenta cremazione. A Piombino, nel giorno in cui è annunciata la chiusura delle lavorazioni a caldo, arriva però l’accordo tra governo e Re-ione per un ridisegno dell’intera area industriale, per porre in sicurezza il territorio, bonificare i terreni, risistemare la viabilità, rendere più funzionale il porto.
Le risorse poste in campo dal governo e dalla Regione permetteranno ai lavoratori di mantenere aperto lo stabilimento, sostenere i redditi e quindi mantenere viva una città che ormai nei decenni ha visto a più riprese crisi aziendali che anche qui diventano crisi personali, umane, civili. Dobbiamo tuttavia ricordare che il tema di una politica industriale per l’intero comparto dell’acciaio resta del tutto aperto e per sua dimensione non può essere affidato alla sola azione della Regione e del governo nazionale. Il 13 giugno dello scorso anno la Commissione Europea presentò al Parlamento lo schema di un Piano d’azione per portare fuori dalla crisi la siderurgia. Questo piano si basava sul principio che la nuova siderurgia europea dovesse necessariamente presentarsi contestualmente competitiva dal punto di vista economico e sostenibile da quello ambientale. Si ricordi che il carbone e l’acciaio furono i settori su cui nacque il primo abbozzo di Unione europea, dato che proprio il controllo della estrazione del carbone e della produzione di acciaio – emblemi stessi del capitalismo imperialista del primo Novecento – era stato fra le cause che avevano portato alla rovina dell’Europa nelle due guerre mondiali.
Negli anni ottanta la siderurgia fu sul baratro di una crisi senza ritorno, perché già allora appariva evidente che in Europa sussistevano industrie nazionali, non coordinate fra loro che, riorganizzandosi individualmente, mantenevano capacità produttive che con le nuove entrate da parte dei paesi emergenti determinavano sovracapacità ingestibili. Il piano di allora, che portava il nome del Commissario Davignon, permise di congelare una situazione che dopo trenta anni si ripresenta con caratteri di criticità per tutto il comparto europeo. Secondo i dati dell’Unione europea, a livello mondiale oggi ci sono circa 540 milioni di tonnellate di sovracapacità produttiva, a fronte di una dinamica industriale che ha spostato molta della domanda di acciaio verso Oriente e verso Sud. In Europa l’accesso di capacità produttiva è di 80 milioni di tonnellate su 217 installate.

Dopo anni di deindustrializzazione, assunta come fatale, oggi la stessa Commissione Barroso scopre in extremis il bisogno di un rinascimento della manifattura in Europa, come fattore essenziale per lo sviluppo dell’intero continente, dandosi come obiettivo – per l’ormai imminente 2020 – di riportare dal 15 al 20 % del Pil europeo le attività manifatturiere. Per raggiungere questo obiettivo diverrà cruciale il ridisegno della industria siderurgica europea. Innanzitutto in termini di innovazione e di formazione delle risorse umane. In Europa diventa necessario realizzare prodotti ad alto valore aggiunto, con tecniche che riducano il costo delle materie prime (molte di riciclo), di energia ed emissioni di CO2. L’intero apparato della ricerca europea viene così chiamato in causa per permettere la realizzazione di produzioni effettivamente competitive e sostenibili, così come è evidente che gran parte dei lavoratori che rimarranno, e auspicabilmente entreranno nel settore nei prossimi dieci anni, dovranno avere competenze largamente diverse da quelle attuali.

La nuova Commissione europea, che risulterà dalle prossime elezioni, dovrà gestire il nuovo Piano europeo d’azione per la siderurgia, mettendo in campo tutti gli strumenti per un rilancio, che comunque richiederà una dura negoziazione a livello internazionale per una riduzione concordata degli eccessi di capacità; si pensi che ben 200 milioni di sovracapacità sono localizzati in Cina. Per giungere alla attuazione rapida del Piano europeo, il nostro paese deve disporre al più presto di un suo piano d’azione, per poter dimostrare come l’Europa, al di là delle tante banalità sentite in questi giorni, sia l’unico livello possibile per la ristrutturazione ed il rilancio dei settori cruciali per la crescita. In alternativa l’industria europea, compresa l’industria tedesca, sarebbe solo condannata ad inseguire le successive crisi, nella speranza che il crollo di un operatore permetta agli altri di sopravvivere fino alla successiva crisi.

Avendo affrontato la crisi di Piombino con questa assunzione collettiva di responsabilità, diviene ora necessario delineare un quadro di politica industriale, in cui all’Europa si chieda non solo un qualche finanziamento in più, ma si chieda di essere il soggetto politico adeguato a questa sfida globale.

L’Unità 25.04.15

"Il percorso difficile delle riforme", di Federico Geremicca

Due via libera preoccupati. Il primo sancito con la controfirma al decreto che, ora si può dirlo ufficialmente, aggiungerà 80 euro al mese al reddito di 10 milioni di italiani; il secondo confermato in un colloquio con Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama dov’è confusamente in discussione il testo di radicale riforma del Senato. Due questioni spinose sulle quali, ieri, Giorgio Napolitano ha voluto vederci più chiaro, dispensando consigli e avvertimenti. Alla fine, in fondo, due buone notizie per il governo: anche se lassù al Colle la preoccupazione permane.

Il lungo colloquio col ministro Padoan e la successiva controfirma al cosiddetto decreto-Irpef chiudono – almeno temporaneamente – una vicenda rapidissimamente trasformata da provvedimento a sostegno delle famiglie e dei consumi in oggetto di violente dispute pre-elettorali.

I chiarimenti forniti dal ministro dell’Economia sul senso dell’operazione, e soprattutto sulle sue coperture (Napolitano ha voluto risposte anche sugli anni a venire) sono stati giudicati convincenti e dunque accolti dal Presidente della Repubblica: si tratta, comunque la si veda, di un punto fermo ad una discussione fino a ieri assai confusa e caratterizzata da numeri ballerini (quelli delle coperture), bozze sostituite da altre bozze e propaganda e contro-propaganda elettorale.

La vicenda, comunque, adesso è chiusa: e saranno l’autunno-inverno prossimi a dire dell’efficacia e della sensatezza del provvedimento così fortemente voluto da Matteo Renzi.

Non lo stesso, purtroppo, si può affermare a proposito della seconda questione: e cioè il contrastato percorso del progetto di riforma del Senato della Repubblica. L’attenzione di Giorgio Napolitano verso il processo riformatore così faticosamente avviato non è di oggi, e non ha bisogno di esser qui nuovamente sottolineata.

È dunque comprensibile la preoccupazione del Capo dello Stato di fronte all’evolversi del confronto iniziato in Commissione al Senato. Dire che la situazione sia confusa (e condizionata dall’ormai prossima scadenza elettorale) è davvero poco: il Pd diviso, la Lega contraria, il Movimento di Grillo impegnato quasi esclusivamente ad accentuare le divisioni e le continue oscillazioni di Silvio Berlusconi – che smentisce e riconferma ormai due volte al giorno l’intesa stipulata con Renzi – non sono certo dati rassicuranti…

Ce n’era a sufficienza, insomma, affinché Napolitano chiamasse a sé Anna Finocchiaro, presidente-regista dei lavori in corso a Palazzo Madama ed esponente stimata dal Presidente della Repubblica. Situazione confusa, in divenire ma non compromessa, è stato spiegato al Capo dello Stato. Anna Finocchiaro non si è detta pessimista circa l’approdo finale della discussione: ma ha confermato al Presidente che certe rigidità del governo (sui tempi e sul contenuto della riforma) e il clima sempre più dichiaratamente pre-elettorale certo non aiutano il confronto.

La posizione del Presidente della Repubblica sulla questione è sufficientemente nota: cogliere l’occasione, cercare il consenso più ampio possibile, andare avanti a partire dai “quattro paletti” fissati da Renzi ma – per il resto – massima attenzione ai contenuti della riforma. Per contenuti, naturalmente, si intendono composizione, ruolo e funzioni del Senato della Repubblica, che Napolitano (come aveva già spiegato al premier nel loro ultimo incontro) considera mal definiti e largamente migliorabili, per usare un eufemismo…

Ma, appunto, il via libera ad andare avanti c’è, anche se è un via libera – come detto in avvio – accompagnato da più d’una preoccupazione. C’è il timore che il clima elettorale condizioni e faccia arenare la riforma; e c’è la sensazione che Silvio Berlusconi – fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo – non sappia più bene cosa fare. I sondaggi orientano (non da ora…) ogni sua scelta: ed i sondaggi oggi vedono il Pd di Renzi veleggiare verso il 35% dei consensi. Comprensibile, in fondo, che tiri il freno per non regalare un altro risultato al premier prima del voto di maggio. Perché è vero, «Renzi è un simpatico rottamatore»: ma a tutto, anche alla simpatia, alla fine c’è un limite…

La Stampa 25.04.14

"Il negoziatore inaffidabile", di Sebastiano Messina

Berlusconi torna da Vespa e per dimostrare che è sempre quello di prima — il patteggiatore più inaffidabile che si sia mai visto — fa saltare subito il patto del Nazareno: la riforma del Senato «così non è votabile», annuncia, e l’Italicum «forse è incostituzionale».
Non è cambiato nulla, insomma. Altro che padre della Patria. Alla vigilia delle europee il leader di Forza Italia — nel suo nuovo status di condannato con agibilità politica — rovescia il tavolo delle riforme, sostiene che «le regole della democrazia sono state obliterate », come se la Costituzione fosse un biglietto del tram, e attacca frontalmente l’uomo del gran rifiuto, il presidente che non gli ha voluto concedere la grazia: Giorgio Napolitano. L’accusa, durissima, è quella di aver tramato contro di lui. Non è nuova, ma stavolta è presentata con l’annuncio inedito di prove clamorose. Il presidente della Repubblica — sostiene Berlusconi tornando dopo 14 mesi di astinenza nello studio amico di “Porta a porta” — nel 2010 tentò di far cadere il mio governo, spingendo il mio principale alleato al tradimento, ovvero alla mozione di sfiducia. «Fini — dice — ha fatto ciò che ha fatto perché convinto dal capo dello Stato che avrebbe formato lui il nuovo governo ». E siccome Vespa si mostra incredulo, aggiunge secco: «Ho dodici testimoni che hanno sentito la voce al telefono del capo dello Stato, messa in diretta da Fini per convincerli che aveva le spalle coperte per la sua operazione politica». Un colpo di teatro niente male, che arriva verso la fine della trasmissione, quando Vespa è stato costretto ad allungare di mezz’ora il tempo dell’intervista per recuperare il tempo impiegato dal suo ospite preferito a raccontare aneddoti riciclati e sogni improbabili di futura grandezza. In fondo non è cambiato nulla neanche per Vespa, che ha accolto il condannato Silvio Berlusconi con un cordiale «bentornato» e lo ha definito diplomaticamente «un cittadino con dei doveri diversi da quelli di prima», circostanza che gli ha impedito di tirar fuori la lavagna, la scrivania di ciliegio e il plastico di Montecitorio ma non di annunciarne al pubblico, nel promo, il ritorno in tv «alla fine del Medico in famiglia».
Certo, ignorare la circostanza non proprio usuale di intervistare un condannato non era pensabile, ma il conduttore lo fa nel modo più indolore, mostrando la casa di riposo dove Berlusconi dovrà scontare la cosiddetta pena, con intervista rassicurante al direttore dell’istituto («Cosa gli farete fare?». «Abbiamo deciso di escludere le attività infermieristiche e di igiene»), subito elogiato dall’interessato: «E’ una persona di buonsenso, moderata, cordiale…». Quanto a ciò che lo aspetta, l’ex cavaliere liquida la questione come un po’ di tempo in più per il suo hobby preferito, il giardinaggio. «Ho già visto le fotografie dei giardini, molto grandi. Lì ci sarà molto da fare per uno che ama la natura come me. Forse questa cosa farà sorridere, ma potrei fare dei lavori in giardino». Solo giardinaggio? No. «Potrò dialogare con gli anziani di politica, cultura e storia. Ma sono pronto a fare anche cose più umili».
Farà pure il giardiniere, intratterrà i vecchietti e magari spingerà qualche carrozzella, ma questa faccenda della condanna non va proprio giù, a uno come lui che punta ai libri di storia, ed è rivelatrice la sua reazione al direttore dell’ Unità Luca Landò che gli domanda («Mi perdoni, anzi mi consenta…») perché il presidente
della Repubblica tedesco, Horst Koehler, nel 2010 si è dimesso quando si è venuto a sapere che qualcuno gli aveva pagato le vacanze (affrontando poi da semplice cittadino un processo dal quale è uscito pienamente prosciolto) mentre lui è rimasto incollato alla poltrona quando è stato accusato di una così enorme frode fiscale. «Intanto — risponde piccato — non si può paragonare Silvio Berlusconi a quel signore tedesco…».
Con i tedeschi, poi, e con una certa frau Merkel, lui ha un conto aperto. E infatti, dopo aver detto che Renzi è «un grandissimo comunicatore ed è indubitabilmente simpatico, anche se da simpatico rottamatore sta diventando un simpatico tassatore», dopo aver elogiato Gheddafi e persino Travaglio, «forse il giornalista più intelligente che io abbia incontrato», dopo aver rivelato che alle europee lui pronto alle elezioni anche nazionali – punta a superare il 25 per cento, dopo aver battuto più che poteva su casa, Iva ed Equitalia, si ferma a raccontare la storia di quella volta che la cancelliera «per combattere il buco nell’ozono voleva obbligare tutte le case automobilistiche a mettere un motore elettrico nel 10 per cento delle loro auto, erano tutti d’accordo e si deve solo a me se abbiamo evitato questa regola assurda presentata col pretesto del buco nell’ozono». «Ma guardi — obietta il solito Landò — che le emissioni delle auto riguardano l’effetto serra, il buco nell’ozono non c’entra nulla». Lui però non si scompone. Sorride, allarga le braccia e poi risponde: «Siamo nello stesso contesto…». Sempre a spaccare il capello in quattro, questi comunisti.

La Repubblica 25.04.14