attualità, memoria

"Intellettuali e contadini alla macchia per la libertà", di Dino Messina

Una scelta morale prima ancora che politica. È questo il senso dell’epopea della Resistenza che viene fuori dalle pagine di Cento ragazzi e un capitano , il saggio di Pier Giorgio Ardeni che racconta i venti mesi di guerra partigiana sulle montagne dell’alto Reno (Bologna) concentrandosi sui ragazzi delle brigate Giustizia e Libertà e della Matteotti. Alcuni di loro ebbero il privilegio di entrare a fianco delle truppe alleate nella Bologna liberata.
Una storia non agiografica quella scritta da Ardeni (appena pubblicata dall’editore Pendragon, pp. 476, e 28) che ha avuto una motivazione biografica (il padre dell’autore, Sisto, era uno di quei giovani sbandati dell’esercito italiano che non volevano più combattere per il fascismo), ma soprattutto una spinta scientifica. Studiando i flussi migratori della comunità di Gaggio Montano e di Porretta Terme per una ricerca dell’Università di Bologna, dove insegna Economia dello sviluppo, Ardeni si è imbattuto nei pochi fuoriusciti antifascisti che furono i primi punti di riferimento delle spontanee aggregazioni partigiane dopo l’8 settembre 1943.
Ne è nato un racconto corale, basato anche sulla fondamentale testimonianza e collaborazione dell’avvocato Francesco Berti Arnoaldi Veli, che aveva diciotto anni quando si diede alla macchia, sul diario del fratello Paolo, più giovane di un anno, sul memoriale di Renato Frabetti, militante comunista che scelse di unirsi ai «giellisti» e sui contributi più vari dei protagonisti. Dagli scritti di Enzo Biagi, studente poco più che ventenne che si unì al gruppo affidato dal Comitato di liberazione nazionale a un militare di carriera, il tarantino Pietro Pandiani, ai quaderni della brigata redatti per lo più da uno straordinario personaggio fiorentino, il critico d’arte Sandrino Contini Bonaccossi, discepolo di Carlo Ludovico Ragghianti, che seguì nel breve governo guidato da Ferruccio Parri. Era questa la rappresentanza borghese e intellettuale di una pattuglia costituita in maggioranza da operai e contadini di una zona molto povera, dove il fascismo era stato subìto e in cui si era conservato un fastidio sottotraccia verso la dittatura.
Sulla scorta delle indicazioni di Claudio Pavone, che all’inizio degli anni Novanta sdoganò anche a sinistra l’espressione di «guerra civile», questo libro scritto dal punto di vista dei partigiani non omette gli aspetti scomodi della lotta di liberazione, a cominciare dalle rappresaglie sulla popolazione civile che accompagnarono da Sud a Nord l’arretramento dell’esercito tedesco. L’episodio più grave, che viene ancora ricordato dalla comunità locale, avvenne alla fine di settembre del 1944 a Ronchidoso, per mano di un gruppo della Wehrmacht, sembra lo stesso che fu responsabile dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, ma non è accertato. All’arrivo dei soldati tedeschi, i partigiani si rifugiarono nella macchia, qualcuno fece partire un colpo, ci fu una prima rappresaglia. Ma l’eccidio di oltre sessanta fra uomini, donne e bambini, molti sfollati da Bologna, avvenne qualche giorno più tardi dopo che da Gaggio Montano era partita una delegazione con il segretario comunale e due suore per chiedere clemenza ai tedeschi.
Una rappresaglia gratuita, che suscita ancora controversie, non paragonabili però alla ferita provocata nella comunità da uno degli episodi che chiudono il volume: il regolamento di conti, a guerra finita, di un gruppo di ex partigiani che nel settembre 1945 uccisero per vendetta privata cinque «fascisti» di Gaggio Montano, tra i quali un ragazzo che aveva quindici anni all’8 settembre e una donna cui era stata requisita la casa dai tedeschi. Tra gli autori della mattanza c’erano l’ex partigiano giellista passato alla brigata Garibaldi Secondo Lenzi, descritto da Enzo Biagi come un fanatico, e il comunista Mario Rosinetti, che aveva avuto il padre ucciso a Marzabotto. Lenzi morì in carcere di tubercolosi prima della sentenza definitiva, gli altri responsabili furono condannati a 28 anni per omicidio e rapina, anche se uscirono di prigione dopo pochi anni per gli effetti dell’amnistia Togliatti. Ancora di recente il cippo che ricorda uno dei cinque uccisi di Gaggio Montano è stato imbrattato da presunti eredi della Resistenza.

Il COrriere della Sera 24.04.14

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Come ingannare i nazisti raccontando barzellette, di Antonio Carioti

Parlava un tedesco colto, da persona istruita, era gioviale, spiritoso, bravo nel raccontare barzellette. Ma sapeva anche usare il tono arrogante di chi ritiene di appartenere a una razza superiore. Benché il nome tradisse la sua origine italiana, i militari del Terzo Reich consideravano Carlo Travaglini uno dei loro. Non immaginavano che si trattasse di un convinto antinazista, che li stava abilmente ingannando.
Ha dei risvolti romanzeschi la vicenda narrata da Luigi Borgomaneri, ricercatore della Fondazione Isec, nel libro Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino (Archetipolibri, pp. 232, e 22). Ma tutto è rigorosamente documentato. Perché Travaglini dei tedeschi possedeva anche la tipica meticolosità e aveva conservato una gran mole di carte e oggetti riguardanti la sua attività partigiana. Testimonianze dalle quali emerge un quadro della guerra di Liberazione lontano dagli stereotipi della retorica esaltatrice o denigratoria. Ma partiamo dall’inizio.
Nato in Germania nel 1905 da madre tedesca e da un direttore d’orchestra italiano, Travaglini negli anni Trenta era entrato nel mirino della Gestapo, per via di un romanzo in cui aveva scritto una frase contraria all’antisemitismo. Arrestato con motivazioni probabilmente pretestuose, era stato chiuso in un lager e poi espulso in Italia. Qui si era sposato e aveva trovato un impiego alla Magneti Marelli di Milano. Durante la Resistenza, inizialmente l’attività di Travaglini consisteva soprattutto nel sottrarre alla deportazione militari e operai italiani, facendoli passare per manodopera specializzata di cui le fabbriche milanesi avevano bisogno per proseguire la produzione a vantaggio del Terzo Reich. Gli invasori si fidavano di lui e questo gli permise di diventare l’intermediario dell’industria chimica Ledoga con il potente ministero degli Armamenti di Berlino. Convinse perfino i nazisti a fornirgli un’automobile e riuscì a sottrarre un timbro del loro comando, utilissimo per falsificare documenti.
Inoltre collaborò con i Gruppi d’azione patriottica (Gap), le formazioni legate al Pci che conducevano la guerriglia urbana. Con alcuni giovani compagni, Travaglini colpì un campo d’aviazione controllato dai tedeschi e partecipò alla sparatoria in piazza del Duomo durante il corteo funebre delle camicie nere che accompagnavano la salma del segretario fascista milanese Aldo Resega, ucciso dai Gap. Borgomaneri sottolinea che Travaglini non era comunista e nel dopoguerra non svolse alcuna attività politica. La sua presenza «anomala» al fianco dei Gap dimostra che quell’organizzazione, come nota lo storico Santo Peli nell’introduzione del volume, non era affatto un nucleo impenetrabile di rivoluzionari votati con ferrea disciplina alla causa del partito, come è stata dipinta dalle opposte vulgate. Molti gappisti erano ragazzi poco politicizzati, ma decisi a tutto per combattere il nemico, che agivano spesso in modo spontaneistico e imprudente, senza una strategia precisa e violando le regole cospiratorie.
Un adolescente di quel tipo era anche «il ragazzo del Giambellino» cui si riferisce il titolo del libro. Non ancora sedicenne, Lamberto Caenazzo incontrò Travaglini in montagna nell’agosto del 1944, quando il coraggioso partigiano, scoperto dai tedeschi e sfuggito di poco alla cattura, si era aggregato a una banda che operava nella zona del lago di Como. Nonostante la differenza di età, tra i due nacque un’amicizia senza la quale il lavoro di Borgomaneri non avrebbe mai visto la luce.
«Fu Caenazzo a parlarmi dell’attività di Travaglini, del quale non avevo mai sentito parlare benché da anni studiassi la Resistenza milanese», racconta l’autore al «Corriere». Il fatto è che si trattava di un personaggio scomodo, estraneo ai partiti e pronto anche a denunciare le malefatte di alcuni partigiani. «Dopo la guerra — continua Borgomaneri — Travaglini non aveva fatto nulla per rivendicare i suoi meriti e su di lui era calato l’oblio. Addirittura inizialmente pensai che Caenazzo non fosse attendibile. Ma quando le figlie di Travaglini mi mostrarono il materiale conservato dal padre, mi appassionai alla sua figura e decisi di scriverne la storia».

Il Corriere della Sera 24.04.14