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Il fisco divide il paese in otto zone: "ma Nord e Sud sono uguali", di Valentina Conte

C’è L‘Italia disoccupata, povera. Basso Pil, poche imprese, poco Internet. Strade e treni malmessi. E scarsa consuetudine con il pagamento delle tasse. Ma c’è anche l’Italia che corre, dinamica, scarsi reati, alta velocità, aziende leader, redditi alti e dichiarati. Tra le due, altre Italie, più sfumate. Otto in tutto ne ha rintracciate l’Agenzia delle entrate che ha potenziato DbGeo, un enorme database, integrato con dati di Istat, Banca d’Italia e Catasto. Mappando, per la prima volta in modo così compiuto, lo Stivale secondo zone omogenee per caratteristiche non solo fiscali, economiche e industriali. Ma anche sociali. Tenendo conto del disagio, della criminalità, dell’importo medio della pensione, dei senza lavoro e degli occupati. Con l’obiettivo di stanare chi non paga le tasse, certo. Ma calibrando gli interventi, anche in base ad un lettura del contesto. Forte con i forti, più vicina ai deboli. Almeno nelle intenzioni. Pronta forse a superare il record del 2013: 13,1 miliardi di somme recuperate, sui 90 di tax gap( differenza tra imposta dovuta e versata). «La condizione socio-economica è un fattore che influenza l’adempimento spontaneo», ha dichiarato il 2 aprile in Parlamento il direttore dell’Agenzia,
Attilio Befera. Quasi una svolta.
La mappa di Arlecchino che ne viene fuori racconta storie dentro le macchie di colore. Vero che nel Meridione si tende di più ad evadere, ma il contesto è anche più difficile, il sommerso quasi un obbligo. Non che questo giustifichi, ma se ne tiene conto. Laddove i grandi capitali esentasse, con astuzie e alchimie, prendono il volo soprattutto al Nord. L’Agenzia delle entrate dunque prova a leggere i profili di quest’Italia. Sceglie 36 variabili (dalle 246 analizzate) e le sistema in sette gruppi: numero contribuenti, pericolosità fiscale, pericolosità sociale, tenore di vita, maturità della struttura produttiva, livello di tecnologia dei servizi, disponibilità di infrastrutture di trasporto. Emergono otto profili, declinati secondo titoli di film. Roma e Milano, ad esempio, finiscono in Metropolis, capolavoro di Fritz Lang.
Il Sud si muove tra Rischio totale, Non siamo angeli, Niente da dichiarare?. Il Nord spazia tra Stanno tutti bene e L’industriale. Il Centro cammina sul filo, tra Gli equilibristi e Pericolose abitudini. Al top della pericolosità fiscale, il Sud. Che però vince anche la palma di quella sociale (estorsioni, truffe, delitti, frodi). In teoria, dunque, oltre 11 milioni di potenziali furbetti tra Calabria, Campania, Puglia, Isole e le altre terre del Meridione. Contro 23,3 milioni di presunti virtuosi, a basso rischio (Centro-Nord). E 9,4 milioni in bilico (Roma e Milano).


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“Ma nei miei dati Nord e Sud sono uguali”

«Non è una mappa dei buoni e dei cattivi». Stefano Pisani, responsabile dell’ufficio analisi statistiche econometriche e “papà” del DbGeo – la macchina dell’Agenzia delle Entrate che ha scandito l’Italia in otto zone – non vuole salire in cattedra.
È l’Italia che evade…
«Ma non solo. È la fotografia di un Paese complesso, eterogeneo, diversificato. In cui Caserta assomiglia a Napoli, ma è diversa da Benevento, pur essendo nella stessa Regione. In cui Latina differisce completamente da Rieti, ma è più vicina ad Imperia. Un Paese in cui l’indicatore dei rifiuti urbani di Prato è stranamente elevato, indice di un’economia sommersa rilevante. L’Italia dalle mille sfaccettature».
Un Paese strozzato dalla solita dicotomia, però: Nord produttivo
e ligio, Sud assistito e pieno di evasori.
«Solo in apparenza. E il DbGeo ci aiuta a chiarire il più comune degli equivoci. È vero, l’indicatore che abbiamo scelto per misurare la pericolosità fiscale, la tendenza a pagare le tasse, è assai sotto la media nelle Regioni meridionali. Ma attenzione, si tratta della propensione ad evadere, dunque del rapporto tra le somme non pagate e quelle dichiarate. Se guardiamo all’entità dell’evaso, il Centro-Nord la fa da padrone. In altre parole, nel Mezzogiorno si evade in modo diffuso, ma per cifre in media molto più basse che altrove. La dicotomia non esiste».
Cosa le fa dire questo?
«Le forme di elusione ed evasione sono assai più sofisticate al Nord. L’area industriale emiliana, ad esempio, che si espande
verso la Lombardia ha lo stesso profilo: una media impresa dinamica e una certa tranquillità sociale. Ma questo non la mette al riparo dalla grande evasione. Mentre laddove la realtà produttiva è più povera, i redditi più bassi, il sommerso più diffuso, la propensione ad evadere sale. Ma le cifre sono più basse».
Ma a cosa serve la mappa, se non consente classifiche?
«Il nostro intento non era di stilare una graduatoria. Ma capire i punti di forza e di debolezza di ogni area. Ecco perché abbiamo scelto i nomi dei film, proprio a sottolineare caratteristiche qualitative omogenee. Questo lavoro serve a rendere l’Agenzia delle entrate più utile ai cittadini e più selettiva. Ad arrivare in posti diversi con strumenti diversi».
I blitz stile Cortina non si addicono a tutti?
«In un’area con pericolosità sociale bassa, basta il controllo di un funzionario. Per realtà più complesse, si attiva la Guardia di Finanza. Ecco perché non è sufficiente ragionare in termini di Regioni, ma disaggregare, arrivare al territorio. E non guardare solo alle auto di lusso, ma anche al consumo di energia elettrica, alla quantità di spazzatura, all’indice di disoccupazione».
Per stanare gli evasori non basta incrociare i famosi dati fiscali?
«Quello è il livello micro. Diciamo che il DbGeo è come la centralina dell’inquinamento: segnala i fumi ma non dice chi inquina. Noi orientiamo l’azione dell’Agenzia descrivendo a livello macro le zone. Poi dopo certo, partono i controlli mirati».

La Repubblica 06.04.14

"La scure sui dirigenti e l’incognita bonus", di Claudio Tito

La crescita del debito pubblico e altre risorse per finanziare il taglio del cuneo fiscale. Sono queste le due spine che il governo dovrà estrarre prima che la manovra economica messa in campo venga effettivamente varata. Martedì prossimo, infatti, il consiglio dei ministri darà il via libera al Def, il Documento di economia e finanza. La settimana successiva, probabilmente il 16, sarà la volta del decreto per ridurre l’Irpef a chi guadagna meno di 28 mila euro l’anno.
Ma appunto, in vista di questi due appuntamenti, Tesoro e palazzo Chigi devono mettere mano a questi due nodi.
Soprattutto per quanto riguarda il debito, infatti, il Def potrebbe essere accompagnato per la prima volta — dopo l’approvazione del cosiddetto Fiscal compact — da una relazione da trasmettere alla Commissione europea. In cui si spiega perché lo stock del debito potrebbe non scendere — come fissato dai trattati — di un 1/20 nella parte eccedente il 60%.
A Via XX Settembre, dunque, stanno prendendo in esame un problema che fino ad ora era rimasto “in sonno”. Sono ormai in corso di definizione i calcoli sui debiti che gli enti locali (comuni e regioni) hanno contratto in passato e che non sono mai stati conteggiati anche per la loro indecifrabilità. Una quota di quelle obbligazioni, quella in conto capitale (il 20 per cento del totale) andrà a far salire il nostro stock complessivo. Si tratta, osservano alla presidenza del consiglio e al ministero dell’Economia, di una ulteriore eredità ricevuta dal passato. Cui però è necessario far fronte subito. Questo “ricalcolo” richiede l’attivazione della procedura fissata dal Fiscal compact e recepita nella legge costituzionale del 20 aprile 2012. La variazione — secondo i tecnici di Palazzo Chigi e del Tesoro — sarà comunque minima ma dovrà essere votata a maggioranza assoluta dal Parlamento con l’invio di una relazione — insieme allo stesso Def — alla Commissione europea. Un passaggio che potrebbe presentare delle complicazioni soprattutto al Senato, dove la coalizione di governo ha numeri meno sicuri e il raggiungimento di una maggioranza “qualificata” non sempre è stata garantita.
L’attivazione della procedura “europea”, però, non bloccherà il piano di Palazzo Chigi sul cuneo fiscale. «Le coperture — ripete il premier — ci sono». Il progetto si articola su tre punti fondamentali le risorse per coprire i circa 6,5 miliardi necessari verranno reperite quasi esclusivamente dalla spending review. Quel “quasi” è ben presente a Palazzo Chigi. Secondo i conteggi fatti a Via XX Settembre, al momento si può arrivare a 5 miliardi. Per salire alla quota dei 6,5 miliardi necessari a finanziarie la sforbiciata del cuneo fiscale e mettere in busta paga a 10 milioni di italiani circa 80 euro al mese, il governo dovrà trovare anche altre risorse. E le scelte non potranno che avere un carattere “politico”. Proprio di questo dovranno parlare il presidente del consiglio e il titolare dell’Economia Padoan (forse già oggi).
Una quota di fondi allora potrebbe non essere pescata nei “tagli” di spesa — obbligatoriamente strutturali — ma (esclusa ogni forma di nuova tassazione) nel recupero dalla lotta all’evasione- elusione fiscale. Di sicuro, niente aumento del rapporto deficit/ pil dunque che per ora dovrebbe rimanere nelle aspettative al 2,6% e quindi nessuna revisione che comporterebbe — come per il debito — una comunicazione formale a Bruxelles.
Per il presidente del consiglio, un altro caposaldo sono le pensioni: «Non si possono toccare». Ma ci sono altri comparti che sicuramente verranno messi a dieta. Sono tre: la Sanità (risparmi per circa un miliardo, ma potrebbero crescere), beni e servizi, e infine gli stipendi dei dirigenti pubblici, a cominciare dai ministeriali. L’attuale tetto di 311 mila euro annui scenderà a 270 mila (come il presidente della Repubblica) per i vertici delle pubbliche amministrazioni. Ma verranno introdotti almeno altri tre scaglioni: 190 mila per i capi dipartimento, 120 per i dirigenti “di prima” e 80 mila per i dirigenti di seconda.
Restano poi in vita due possibili soluzioni per la distribuzione concreta dei famosi 80 euro al mese. Il primo metodo è il tradizionale taglio dell’Irpef per i redditi fino a 28 mila euro. La platea dei benificiati sarebbe di circa 10,7 milioni di italiani. Questa ipotesi presenta però due contali:
troindicazioni: c’è un effetto trascinamento della riduzione irpef a favore dei redditi fino a 55 mila euro. E al contrario non offre alcun beneficio gli incapienti — i senza reddito — e coloro che percepiscono fino a 8 mila euro annui.
La seconda ipotesi — nonostante le smentite dei giorni scorsi — resta quella del “bonus”. Che a Palazzo Chigi preferiscono chiamare “contributi”. In questo caso verrebbero coinvolti anche gli “incapienti” ma si allargherebbe sensibilmente la platea,
tanto da dover abbassare il tetto dei beneficiatari a un reddito massimo di 25 mila euro annui. La strada da imboccare entro i prossimi 10 giorni, dunque, sarà probabilmente quella in grado di rispettare il budget disponibile.
Infine c’è un altro aspetto che a Via XX Settembre stanno già valutando. Ossia l’utilizzo del margine che al momento ci concede il deficit. Il dato di partenza è che Renzi non vuole sforare il parametro del 3% nel rapporto deficit/pil. Però si stagliano già all’orizzonte delle spese per il 2014 che imporranno un intervento. Il Fondo per le calamità, ad esempio, è vuoto. Va ricolmato per affrontare in autunno eventuali emergenze. Non solo. Arrivano a scadenza i lavori che fanno seguito alle calamità naturali del 2013. Altra spesa. Per non parlare delle cosiddette “varie ed eventuali” e di alcune crisi aziendali che spingerà il governo ad attivare la cassa integrazione. Per questo il ricorso al deficit con un aumento fino al 2,9% del Pil potrebbe essere autorizzato nei prossimi mesi. Magari in autunno.
Anche in quel caso ci sarà bisogno di un voto a maggioranza qualificata alla Camera e al Senato e poi di una comunicazione a Bruxelles. Ma questo fa parte della “seconda fase” del governo Renzi. Anche perché a Palazzo Chigi tutti sperano il calo dei tassi possa mettere a disposizione 2-3 miliardi in più. E che con gli 80 euro al mese inserite nelle buste paga e con il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese, il Pil possa avere un’accelerazione nell’inversione di tendenza già evidenziata all’inizio dell’anno. Il premier insomma scommette sulla ripresa sperando che non sia solo un fuoco di paglia.

La Repubblica 06.04.14

"Pd al 33%, Forza Italia e Grillo alla pari (21) Scelta civica e Tsipras sotto la soglia del 4", di Nando Pagnoncelli

Il quadro che si prospetta, secondo i sondaggi, in vista delle elezioni europee (25 maggio) conferma lo scenario tripolare. In testa il Pd con il 33,3%, seguito da M5S e Forza Italia appaiati poco sopra il 21%, da Ncd con Udc e Popolari per l’Italia (5,7%) e dalla Lega Nord (5,3%). Questi partiti (oltre a Svp) si suddividerebbero i 73 seggi assegnati all’Italia.
La campagna elettorale per le elezioni europee presenta diverse incognite riguardo agli elettori e alle loro motivazioni di voto. Da sempre le Europee rappresentano una tornata elettorale particolare, caratterizzata da una sorta di strabismo: i cittadini votano per eleggere il Parlamento europeo (di cui peraltro sanno poco o nulla) ma scelgono quale partito votare in una prospettiva quasi esclusivamente locale, per dare forti segnali di approvazione o di dissenso al proprio partito, al governo in carica, al premier o all’opposizione, in una sorta di referendum. Il voto del 25 maggio sembra assumere una valenza diversa rispetto al passato, tenuto conto degli atteggiamenti critici nei confronti della politica dell’Ue che dall’estate del 2011 hanno iniziato a diffondersi in Italia, talora con accenti molto duri, mettendo in discussione la nostra appartenenza e, sia pure minoritariamente, il mantenimento dell’euro. 
Rappresenta quindi anche un referendum pro o contro l’Ue, dunque un doppio referendum. Da ultimo, nello stesso giorno si voterà per l’elezione del sindaco e il rinnovo dei consigli comunali in oltre un Comune italiano su due. Non è un fatto inedito, ma quest’anno presenta alcuni aspetti che potranno influenzare l’esito delle elezioni europee e indurre comportamenti di voto selettivi e scelte disgiunte: per il Nuovo centrodestra di Alfano, ad esempio, le Europee rappresentano un vero banco di prova per misurare per la prima volta il proprio consenso elettorale e prefigurare le strategie future; sarà quindi in forte competizione con Forza Italia con cui però sarà presumibilmente alleato nella maggior parte dei Comuni al voto. In questo difficile contesto, il livello di interesse per le Europee come di consueto appare piuttosto limitato: gli italiani si dividono all’incirca a metà tra chi si dichiara molto (16%) o abbastanza (34%) interessato a questo appuntamento e chi, al contrario, lo è poco (32%) o per nulla (16%). L’interesse prevale nettamente tra gli elettori del Pd e del Ncd. Prevale, sia pure in misura meno netta, anche tra gli elettori del M5S, mentre tra gli elettori di Forza Italia sono decisamente più numerosi i disinteressati. Coloro che prevedono di andare sicuramente a votare rappresentano meno di un elettore su due (46%); a costoro si aggiunge il 17% che si dichiara possibilista, mentre il 6% è fortemente indeciso e il 31% esclude di recarsi alle urne. 
La prima incognita, dunque, è la partecipazione al voto: nel 2009 il partito del non voto (astensionisti più schede bianche e nulle) raggiunse la cifra record del 38% circa (i voti validi furono il 62%) con un incremento di quasi il 3% rispetto al 2004. Dal sondaggio odierno, che risulta una sorta di fotografia istantanea, non certo una previsione dell’esito finale, emerge che la cosiddetta «area grigia» costituita dall’astensione e dall’indecisione rappresenta quasi due elettori su cinque (39,1%). La graduatoria dei partiti conferma lo scenario tripolare emerso alle elezioni dello scorso anno e vede in testa il Pd con il 33,3% delle preferenze, seguito da M5S e Forza Italia che risultano appaiati poco sopra il 21%, da Ncd insieme a Udc e Popolari per l’Italia (5,7%) e dalla Lega Nord (5,3%). Tutti questi partiti (oltre a Svp) si suddividerebbero i 73 seggi assegnati all’Italia. Scelta civica per l’Europa, insieme a Centro democratico e Fare, è accreditata del 3,8%, quindi di poco sotto la soglia di sbarramento del 4%, come pure Fratelli d’Italia-An (3,5%). Un’altra Europa per Tsipras, la lista sostenuta da intellettuali ed esponenti della società civile e da alcuni partiti della sinistra, è più distante e si colloca al 3,1%. Tutti i restanti partiti risultano sotto l’1%. In un clima nel quale i sentimenti di anti politica che hanno caratterizzato il voto del 2013 non accennano a diminuire e la crisi peggiora le condizioni di vita di un numero sempre maggiore di cittadini, la capacità di mobilitazione degli elettori più apatici da parte dei partiti e dei loro leader sarà decisiva. E, a questo proposito, si osserva che nell’insieme risultano premiate le forze politiche che sostengono posizioni critiche o fortemente ostili nei confronti dell’Europa. Sono posizioni che incontrano il consenso prevalente (ma non esclusivo) dei ceti più popolari, delle persone meno istruite e di quelle più penalizzate dalla crisi economica. La campagna elettorale è solo all’inizio, ma alla luce di tutti questi elementi appare estremamente complessa.

Il Corriere della Sera 05.04.14

"Libertà di ricerca. Nella mappa mondiale Italia come Croazia e Iran", di Cristina Pulcinelli

Libertà va cercando. Ma non la troverà, pare, in Italia. Dal terzo congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica che si è aperto ieri a Roma emerge infatti che il nostro Paese ha qualche problema su questo fronte. A farcelo notare ci ha pensato Andrea Boggio, professore associato di Legal studies alla Bryant University (Stati Uniti), che ha aperto il congresso intitolato «Colmare il divario tra scienza e politica», promosso dall’Associazione Luca Coscioni e dal Partito radicale, con la collaborazione dell’Università di Manchester e dalla European Society for Human Reproduction (ESHRE), con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero della Salute e di Roma Capitale. Boggio ha presentato una novità: l’indice di libertà e autodeterminazione. Si tratta di uno strumento per misurare a livello mondiale il grado di libertà di ricercatori e pazienti. Alla realizzazione di questo progetto hanno lavorato alcuni studiosi già dal 2008 e ora, finalmente, è pronto. Tutto parte da una premessa: «Espandere il sapere scientifico mediante la ricerca, accrescere il benessere dei pazienti attraverso i trattamenti medici e garantire la somministrazione dei migliori trattamenti disponibili sono aspirazioni universali che accomunano ricercatori, professionisti del settore sanitario e pazienti di tutto il mondo». La trasformazione di queste aspirazioni in risultati concreti, tuttavia, è vincolata da leggi che non sono uguali dappertutto. «Gli ambienti regolatori variano di nazione in nazione: alcune nazioni favoriscono la libertà di ricercatori, professionisti del settore e pazienti; alcune la limitano». Allora, si sono detti i ricercatori, possiamo provare a delineare un quadro mondiale che metta a confronto la legislazione, e quindi il grado di libertà della ricerca, almeno su alcuni temi. Per ora sono state prese in esame quattro aree strategiche: ricerca con embrioni e cellule staminali, riproduzione assistita, aborto e contraccezione, scelte di fine vita. Per ognuna di queste aree, sono stati identificati aspetti chiave per misurare il grado di libertà di ricerca ed autodeterminazione garantita ai cittadini. Successivamente sono state create una serie di domande che permettessero la misurazione del grado di libertà ed infine sono stati raccolti dati in un gran numero di paesi, adottando una metodologia che si ispira al noto rapporto sulla libertà di stampa pubblicato ogni anno da Freedom House, organizzazione privata e indipendente con sede a Washington. Al momento Boggio e colleghi hanno messo a punto una mappatura completa per 42 paesi, parziale per più di 100: «Le sfumature più chiare rappresentato un maggior grado di libertà. I colori diventano progressivamente più scuri man mano che ci imbattiamo in un paese con maggiori proibizioni e restrizioni». Quello che emerge è un quadro estremamente eterogeneo. Salta agli occhi, però, la posizione del nostro Paese: l’Italia nella classifica complessiva (che tiene conto dell’indice nei quattro settori esaminati) è al trentacinquesimo posto su 42. Subito prima della Croazia e dell’Iran e poco sotto la Turchia e la Colombia. Se consideriamo che nella classifica per la libertà di stampa siamo ventiquattresimi su venticinque paesi dell’Europa occidentale, non c’è da stare allegri. Boggio sottolinea tre fatti. Il primo è l’estrema frammentazione delle regioni del mondo: «In Europa, per esempio, l’eutanasia attiva è legale in tre nazioni mentre in paesi come la Croazia e la Norvegia il grado di libertà attinenti alle scelte di fine vita è bassissimo. L’aborto è regolamentato in modo molto permissivo in Svizzera, Ungheria, Belgio, Olanda e Grecia, e praticamente vietato in Irlanda. La mappa risulta ancora più colorata se si considera la ricerca con embrioni e la riproduzione assistita». Il secondo punto è che le mappe che mettono in risalto il maggior grado di libertà a livello globale sono la mappa su aborto e contraccezione e quella sulla riproduzione assistita. Quella invece da cui risultano più restrizioni è quella sulle scelte di fine di vita. Questo perché i primi temi hanno una storia di attivismo lunga decenni. Il terzo punto è che anche le aree che sembrano più stabili e più orientate alla libertà individuale ed al diritto di autodeterminazione sono comunque oggetto di aspre battaglie politiche. «Il caso dell’aborto è paradigmatico – sottolinea Boggio con costanti operazioni di boicottaggio e sabotaggio del diritto di autodeterminazione della donna». ​

L’Unità 05.04.14

"Certificato antipedofilia: allarme eccessivo", di Reginaldo Palermo

Sta creando più di una polemica il decreto legislativo n. 39 del 4 marzo scorso in materia di abuso di minori.
I problemi maggiori riguardano l’articolo che introduce una nuova disposizione nel vecchio DPR 313/2002 che detta norme in fatto di casellario giudiziale.
La nuova disposizione stabilisce che “il certificato penale del casellario giudiziale di cui all’articolo 25 deve essere richiesto dal soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori“precisando che il mancato adempimento a questo obbligo comporta per il datore di lavoro una sanzione pecuniaria piuttosto pesante.
Va però detto che il decreto in questione non cancella altre norme correlate che restanto quindi pienamente in vigore.
Per esempio, continuano ad essere pienamente valide tutte le norme in materia di autocertificazione. A nostro parere, la nuova disposizione vuole consentire anche al datore di lavoro di privato di poter richiedere agli uffici giudiziari il certificato del casellario giudiziale che, contenendo dati sensibili, non potrebbe essere richiesto da altri tranne che dal diretto interessato.
C’è poi da dire che il certificato in questione, ove richiesto da un privato cittadino, anche se dipendente pubblico, non può essere usato nei rapporti con la pubblica amministrazione, secondo quanto stabilito dalla legge 183/2011 (anzi tali documenti devono ormai riportare la dicitura “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”). E questo spiega ancora meglio per quale motivo il nuovo decreto dica che i certificati vengono richiesti dal datore di lavoro (e non dal dipendente).
In ogni caso, per i dipendenti pubblici il problema non si pone del tutto; nella scuola per esempio, anche i supplenti temporanei – all’atto del primo incarico – devono dichiarare di essere in possesso dei requisiti per l’accesso all’impiego, tra i quali vi è anche quello di avere la “fedina penale” pulita.
Sta poi all’Amministrazione effettuare i controlli a campione previsti dalla legge, richiedendo appunto al Tribunale il certificato originale.
E’ vero che il certificato del casellario giudiziale ha validità 6 mesi, ma è anche altrettanto vero che gli Uffici giudiziari hanno comunque l’obbligo di trasmettere alla Pubblica Amministrazione ogni notizia riguardante condanne o rinvii a giudizio relativi ai dipendenti pubblici.
Insomma, nel concreto, ci sembra di poter ragionevolmente affermare che il recente decreto legislativo 34 non impone nuovi obblighi per le scuole che però, d’ora innanzi, dovranno prestare maggiore attenzione nei rapporti con il personale esterno e volontario.

da La Tecnica della Scuola 05.04.14

"L’Aquila, il sisma e gli errori da non scordare", di Mario Tozzi

Bisogna ricordarlo, il terremoto de L’Aquila, per molte ragioni. Prima di tutto per l’orrore delle morti assurde, che non vogliamo dimenticare: in nessuna città del mondo (e tantomeno di quello supposto moderno) dovrebbe essere possibile morire dentro case mal progettate e peggio costruite, nonostante una legge antisismica degli Anni Quaranta. E non dovrebbe accadere di morire in casa per un terremoto, soprattutto se non è tanto forte, figuriamoci per uno di magnitudo 6,3 Richter, roba che a Tokyo nemmeno se ne accorgono.

Ma L’Aquila non va dimenticata neanche per quanto accaduto immediatamente prima del terremoto, la sequenza sismica che, però solo a posteriori, possiamo oggi leggere come precursore della scossa principale. In Italia abbiamo registrato altre sequenze analoghe, per esempio al massiccio del Pollino (fra Calabria e Lucania), dove le scosse durano da anni e non sappiamo se ad esse seguirà una scossa superiore a quella di magnitudo 5 già registrata nel 2012. E non possiamo saperlo oggi come non lo sapevamo ieri, con buona pace di chi si ostina a ritenere prevedibili i fenomeni naturali più nascosti all’osservazione diretta che ci siano sulla faccia della Terra. Parlare di previsione di sismi, oggi, distoglie dal vero obiettivo che è e deve essere la prevenzione: una casa ben costruita salva la vita, a prescindere dal momento in cui il terremoto arriva.

Il terremoto de L’Aquila è stato l’unico caso al mondo in cui esperti e scienziati (cui, al massimo, si può imputare di aver mal comunicato, ma in tutto il mondo i ricercatori avrebbero dato risposte simili) sono stati condannati in primo grado per aver tranquillizzato la popolazione. E che dovevano fare, spingere l’intero Abruzzo appenninico a trasferirsi al mare? Come se la colpa dei morti fosse loro e non di chi ha costruito male e di chi ha controllato peggio, non intervenendo per decenni.

Quello de L’Aquila è un terremoto che non possiamo dimenticare neanche per il dopo: una questione malposta fino dall’inizio, quando un sempre sorridente presidente del Consiglio e la Protezione Civile Nazionale (che organizzava, in quel periodo, anche il G8 alla Maddalena e la festa di San Giuseppe a Copertino) ci raccontavano che la ricostruzione era già iniziata, ad appena qualche mese dai crolli. Era una bugia, fra le tante la più odiosa, perché illudeva chi aveva appena subìto la catastrofe che fosse finito in poco tempo e che si potesse evitare la fase del container dopo quella delle tende. Ora, possiamo mettere in opera moduli abitativi provvisori (così si chiamano) molto più confortevoli dei container dell’Irpinia (1980), ma non c’è alcun modo di passare direttamente dalle tendopoli alla ricostruzione vera, in nessun dopo terremoto in nessuna parte del mondo. Le avveniristiche new town de L’Aquila si stanno rapidamente degradando, nessuno sfollato ci vuole vivere per sempre e rimarranno a imperitura memoria di ciò che non si deve fare in nessun caso dopo un terremoto: stornare denari pubblici che, invece, sarebbero poi utili nella vera ricostruzione. Nei cinque anni passati, poi, sono emersi i problemi tipici dei sismi italiani: ricostruire nello stesso tempo case e monumenti, visto che anche il tessuto economico basato sul turismo deve riprendersi? Ma anche impietosi paradossi tutti italici: le macerie sono rifiuti speciali? E come vanno smaltiti? Mentre L’Aquila, di fatto, non esce ancora dall’emergenza.

No, non possiamo dimenticare il terremoto del 2009, non solo per chi ha perduto la vita in un modo niente affatto governato dal fato e per chi è sopravvissuto, ma anche per tutti gli italiani di domani, che devono sapere di popolare un territorio in cui il rischio naturale è accresciuto o addirittura creato dagli uomini.

La Stampa 05.04.14

“Piano-lavoro per 900mila giovani ", di Roberto Mania

IL primo maggio, giorno delle festa del lavoro, partirà il piano “Garanzia giovani” che offrirà a tutti i ragazzi tra i 15 e i 25 anni che hanno terminato la scuola o perso il lavoro, un’opportunità di formazione o di inserimento in un’azienda entro quattro mesi. L’annuncia in questa intervista il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. «È una novità straordinaria – dice -. Nella storia d’Italia non era mai successo che qualcuno si occupasse di un giovane appena uscito dalla scuola. E il primo maggio ha ovviamente un valore simbolico».
Poletti si dice disposto a rivedere alcuni punti del decreto legge, all’esame del Parlamento, sui contratti a termine e l’apprendistato, poi spiega che il governo punta a ridurre le tipologie contrattuali attualmente esistenti ma non a sostituirle con l’unico contratto a tutele crescenti. Non c’è nell’agenda del governo la riapertura del cantiere delle pensioni se non per la parte che riguarda ancora i lavoratori cosiddetti esodati. E non c’è nemmeno la legge sulla rappresentanza sindacale su cui aveva scommesso in particolare il leader della Fiom, Maurizio Landini. C’è invece l’ambizioso progetto di estendere a tutti coloro che ricevono un sussidio e sono in buone condizioni di salute una sorta di servizio civile, un «servizio comunitario» lo definisce Poletti che aggiunge: «Sono cose che possono cambiare la società italiana. Invece mi fa patire il fatto di dover discutere se ridurre o meno la durata dei contratti a termine da 36 mesi a 24».
Lei patirà, ma da questo dobbiamo cominciare. Il governo è disposto
a ridurre la durata dei contratti a termine senza causale da 36 mesi a 24 come le chiede una parte del Partito democratico?
«No. Ipotizzare questo cambiamento non è assolutamente possibile, dal mio punto di vista. Una modifica di questo tipo non sarebbe coerente con l’impianto del decreto. E poiché abbiamo detto che l’impianto del provvedimento non si tocca, devono restare i 36 mesi».
Le otto proroghe per i contratti a termine sembrano effettivamente
troppe. Si potranno ridurre?
«Ci sono temi su cui si può ragionare. Il numero delle proroghe ha una sua logica, ma non è un dogma. Dunque se ne può discutere. Come si può discutere sulla formazione connessa all’apprendistato. Dobbiamo scrivere una norma compatibile con le regole comunitarie senza contraddire il nostro intento di rendere più semplice l’accesso all’apprendistato».
Ma gli imprenditori saranno ancora obbligati a stabilizzare una
percentuale di apprendisti per poterne assumere altri?
«Questo l’Europa non ce lo chiede e io continuo a pensare che non sono le norme che possono imporre i comportamenti positivi alle imprese. Le norme possono vietare qualcosa e possono, come fanno già, incentivare le assunzioni a tempo indeterminato di apprendisti e di lavoratori con i contratti a tempo ».
Non è contraddittorio avere liberalizzato i contratti a termine
con il decreto legge e poi puntare sul contratto a tutele crescenti
nel Jobs act? Alla fine il mercato del lavoro continua ad
essere diviso in due.
«Il nostro obiettivo è semplificare le regole e questo si fa con entrambi i provvedimenti».
Ridurrete il numero di tipologie contrattuali?
«Certamente, questo è uno dei nostri obiettivi».
Quali abolirete?
«Valuteremo quelli ridondanti, e ce ne sono. Se ne discuterà».
I contratti flessibili interessano soprattutto i giovani. Ha detto
che dal primo maggio sarà operativa la Garanzia giovani. Come
funzionerà?
«Un giovane interessato potrà iscriversi sul portale. Verrà poi contattato dagli uffici degli enti locali o dalle agenzie per
l’impiego. Sarà fatto un suo profilo e poi gli verrà offerta un’opportunità. È chiaro che dietro dovrà esserci tutto il sistema imprenditoriale. Consideriamo la Garanzia giovani il prototipo delle nostro politiche attive per il lavoro».
Quanti saranno i giovani coinvolti?
«Il bacino potenziale è di 900 mila giovani che nell’arco di 24 mesi riceveranno un’opportunità di inserimento».
Probabilmente servirà anche il contributo dei sindacati. Il governo
presenterà una proposta di legge sulla rappresentanza sindacale come chiede Landini?
«È un tema molto delicato. Non è una priorità per il governo. C’è un accordo tra le parti sociali e pensiamo che vada rispettato».
Riaprirete il cantiere delle pensioni per rendere più flessibile
l’età per uscire dal lavoro?
«Non c’è alcun cantiere da aprire. Abbiamo ripreso il dossier del ministro Giovannini per garantire una tutela alle persone che possano trovarsi senza lavoro e senza pensione».
Valuterete l’estensione della staffetta generazionale proposta dal ministro Madia, per il pubblico impiego, anche nel settore privato?
«Non ne abbiamo mai parlato. C’è altro, invece, di cui parliamo: fare in modo che nessun italiano in buone condizioni di salute che riceve un sussidio per ragioni diverse resti a casa a non fare nulla».
In concreto cosa vuol dire?
«Che chi riceve legittimamente un aiuto dalla comunità perché ha perso temporaneamente il lavoro, sarebbe giusto che offrisse la sua disponibilità per quello che io chiamerei un “servizio comunitario”. Per fare un esempio potrebbe rendersi disponibile a distribuire i pranzi alla Caritas o assistere gli anziani ».
Dovrebbe essere obbligatorio?
«No. Credo che si debba sperimentare utilizzando la rete capillare del volontariato in Italia dove ci sono 300 mila associazioni e sei milioni di volontari. Rimanere dentro la comunità, non isolarsi, vuol dire avere più opportunità per ritrovare una occupazione. Il governo può mettere in campo una banca dati e studiare una forma di assicurazione».
La sua proposta assomiglia un po’ ai vecchi lavori socialmente utili.
«Veramente è proprio l’opposto. Con i lavori socialmente utili chi veniva coinvolto, in un lavoro vero o finto, pensava di aver maturato un diritto ad essere assunto dalla Regione o da altri. Di aver in sostanza maturato un credito. Qui è il contrario: si “restituisce” qualcosa che per un periodo si è ricevuto dalla comunità a cui si appartiene».

La Repubblica 05.04.14