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"La nave più grande d’Europa torna a sfregiare Venezia", di Francesco Merlo

Trainato dai cavi della Capitaneria, ma soprattutto dai cavilli del Tar, il mostro raccontato dagli ambientalisti — lo spavento, l’orrore, il pericolo — ha perso il fascino marinettiniano. Già dalle tegole rosse della Giudecca, alle sette del mattino, non sembra che sia tornato a penetrare Venezia, con la goffa insolenza della prima volta. Ma che invece se la stia portando appresso, che stia insomma trascinando con sé questo tappeto di case sull’acqua che gli hanno steso ai piedi. Ma è all’approdo che il mostro si rivela fantozziano distruggendo il ponte mobile di legno che chiamano finger, un incidente da nulla ma carico di simbologia, uno di quei presagi ai quali i marinai una volta davano la stessa importanza che noi diamo alla meteorologia. Di sicuro quel finger che si rompe somiglia alla bottiglia che non si rompe nel film di Paolo Villaggio quando la contessa Serbelloni Mazzanti Vien del mare (non) vara la nave.
D’altra parte, quando lenta, ostinata e inesorabile, un’ora prima sfiorava i palazzi, le cupole e i campanili più agili e ariosi del mondo, noi, che da un’altana osservavamo il suo bocca a bocca con Palazzo Ducale, San Giorgio Maggiore, la chiesa della Salute, avevamo la netta impressione che la nave fosse Venezia, e che la città senza radici e senza identità fosse invece questa Msc Preziosa, con il suo esotismo omologato, il dominio di un ordine finto al di là di ogni misura e di ogni codice, il triangolo delle Bermude delle identità perdute delle città del mondo ormai alla deriva, il luccicante spazio-spazzatura inventato dall’architetto Koolhaas che proprio quest’anno dirigerà la Biennale: 140mila tonnellate di junkspace, 68 metri d’altezza, 4.345
passeggeri, 1.751 cabine, 97 suite con maggiordomo personale in tight e guanti bianchi, il teatro Platinum con 1.600 posti, 4 piscine, 12 jacuzzi, 9 ristoranti (uno Eataly) e 26 ascensori per portare Astolfo sulla Luna.
È sbucata dal buio la nave più grande d’Europa: 333 metri di puntini luminosi e l’insegna “Msc Preziosa” accesa sul ponte più alto. Molto presto, però, il chiarore del cielo ha sbiadito le luci e ha mostrato soprattutto i fumi dei suoi dodici camini, forme nere disegnate dal vento che solo apparentemente sono uguali perché invece ogni nave ha le sue, come fossero impronte digitali. «A me non pare King Kong a New York» mi ha detto, delusa, una vecchia signora tedesca che con me si è impossessata di questa torretta. È vero che «non sbanda, non spaventa e non si inchina » come mi dirà dopo la guardia costiera che l’ha scortata, ma la Preziosa è sicuramente una non-nave già quando scivola tra le lingue di sabbia della bocca del Lido senza quel movimento agile e rotondo “da cigno” che fece innamorare Hegel. «Lo strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo» è qui umiliato dal suo stesso armatore italiano che lo ha ridotto a “fun ship”, con quello scivolo, pensate!, chiamato “vertigo”: «120 metri di curve e tornanti da brivido». Ed è umiliato anche dalla burocrazia perchè il Tar non è il rullo di legno e la slitta che Maometto applicò alle sue navi quando, invece di solcare il mare, scalarono la montagna per espugnare Bisanzio, ma è il torpido trucchetto all’italiana, la proroga, il rinvio col cerone di legalità. Sembra il tanko dei serenissimi finalmente a San Marco. È il futurismo in pretura.
Il divieto che fu imposto dal ministro Clini, governo Monti, resterà sospeso finché non sarà reso praticabile un percorso alternativo. E le grandi navi potranno continuare a baciare San Marco. «Vuol dire che tornerà tutto come prima e di nuovo il sabato ne passaranno 6, 8, 10» mi dice Mara Sartore, una bella e giovane signora veneziana, editore di raffinate guide d’arte in inglese. E racconta: «All’ultimo piano dell’ufficio alla Giudecca ogni volta che passava una nave tremavano i vetri, le porte e il pavimento. Non un terremoto, ma una vibrazione, come la metropolitana».
E però Venezia non si divide tra futuristi e passatisti. E infatti i pamphlet della Marsilio di Cesare De Michelis a difesa della grandi navi non odiano come i marinettiani «la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite». E i “No grandi navi” non sono solo i conservatori della città-cartolina, il tardo Strapaese di Celentano e gli estremisti che sui muri scrivono «meno città-vetrina e più vetrine rotte». Non è l’ideologia che rende la battaglia aspra e violenta, con cifre truccate e foto apocalittiche ottenute con grandangoli e zoom. E non è neppure lo stereotipo del carattere litigioso dei veneziani, facili all’acqua alta anche in testa, che impedisce di scegliere una rotta alternativa per le grandi navi. «A Marghera — mi spiega Marino Folin presidente della Fondazione Venezia 2000 — c’è un porto, ci sono già collegamenti, la ferrovia, gli autobus, e da lì puoi portare i turisti sul Brenta, a Verona, a Vicenza, in montagna ». Ma gli altri, guidati da Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale, vorrebbero invece, scavando canali già esistenti dietro la Giudecca, evitare solo San Marco e fare ancora approdare le navi nellaStazione Marittima. Tutte le soluzioni — sono tante — comportano qualche anno di lavori e qualche rischio per la laguna. Ma la battaglia non è astratta: in gioco ci sono forti interessi economici e due modelli di città. Da un lato il turismo di massa e dunque gli albergatori, i commercianti, gli abitanti che affittano le case di famiglia. Per loro ogni anno le grandi navi sbarcano quasi un milione e ottocentomila turisti su un numero complessivo che va dai 20 ai 22 milioni. E dall’altro lato c’è la Venezia dell’impiego, dell’università, delle fondazioni che considerano le grandi navi come la tela squarciata di Fontana, la fine dell’arte, della bellezza di Thomas Mann, del tempio del turismo d’élite, del «vivo tra Venezia Parigi e New York». La contrapposizione (ripeto: di interessi) è il vero mare sul quale ieri hanno ricominciato a navigare le grandi navi. Fino a quando?
Seguo la Preziosa lungo i giardini e sino alla riva degli Schiavoni, nel bacino più bello del mondo, di fianco al palazzo Ducale e dunque quasi a San Marco. E per la verità mi pare
un battibecco anche il confronto ravvicinato tra le due scienze del turismo sull’acqua, il fitto dialogare tra le zattere e le terrazze del Gritti e del Danieli con i 18 ponti che portano i nomi di altrettante pietre preziose. Non è vero che si fronteggiano la storia e la modernità ma due tecnologie alberghiere: quella del superlusso falso che galleggia e quella del superlusso vero dell’Hilton Molino che nella terra imbevuta d’acqua è invece piantato con tronchi d’albero. Anche la piccola grazia delle tante pensioni sconfigge la sazietà sensoriale del troppo, l’effimera illusione da nababbo offerta dal Grand Hotel alla Greta Garbo che non ha nemmeno la magia rotatoria della porta girevole che include ed esclude, sotto a chi tocca, avanti un altro.
Sono passate le 18 quando a San Marco alzo gli occhi e guardo avanzare senza alcun pathos di marzianità questo albergo che ora ripercorre il cammino a ritroso facendo scappare le piccole barche e i motoscafi come il fuoco che insegue le stoppie perché sposta onde, rimescola la laguna e non può essere fermato mai. Porta su di
sé il graffio di quel finger distrutto e adesso i fumi sono più chiari. Quando scivola da canale della Giudecca non mi viene in mente l’invasione degli ultracorpi ma il tram che da ragazzo, nella Roma che visitavo con mio padre, vedevo arrivare sino al Pantheon. Ancora oggi a Roma i Suv ingombrano e rendono incongruo il miracolo dei vicoli più affascinanti d’Italia perché la convivenza tra modernità e storia è bellissima ma ha bisogno della giusta distanza, quella dei parcheggi per esempio: arrivi in macchina, ma a piazza Navona entri a piedi. E a piazza Armerina non vai in Vespa sui mosaici. Ezio Micelli che a Venezia è stato per tre anni assessore all’Urbanistica dice che «la giusta distanza c’è persino negli outlet che sono pedonalizzati con un format vincente sempre uguale: a Barberino, a Serravalle, a Noventa… «. Perché non dovrebbe funzionare anche con i turisti che arrivano a Venezia via nave?
Sulla Preziosa mi hanno vietato di salire. Volevo vedere Venezia dalla nave, mi immaginavo uno spettacolo mozzafiato, il volo d’uccello di Jacopo de’ Barbari che, nel 1500, non aveva elicotteri. Ebbene non è così. Interrogo i passeggeri che non sono tutti stranieri. Molti mi dicono, ridendo, le stesse cose: «È come vedere Venezia in televisione», «come su Youtube », «come da un palco a teatro ». Mentre la nave avanzava stavano affacciati sui ponti a scattare foto con i telefonini. Ora però solo un signore abbronzato mi dice: «Ho visto San Marco dall’alto ma non dal cielo». È un’immagine inautentica ma straordinaria di cui pochissimi si accorgono forse perché «come ha spiegato Benjamin con l’architettura abbiamo tutti un rapporto distratto»
mi dice Manuel Orazi che è uno storico dell’archiettura.
Vederli sbarcare è come assistere a un naufragio. Sono più di tremila. I loro occhi, che sono stati sottoposti ad un’orgia decorativa senza precedenti, mi sembrano vuoti. Si capisce che vorrebbero tornare indietro, che fuori dalla nave non sanno dove andare. Provo a dire che Venezia è molto più bella dal campanile di San Giorgio, che è alto otto metri meno della Preziosa ed è del Palladio: «Di chi?». Fruttero e Lucentni dicevano che i croceristi «sono una truppa votata al macello culinario». Domando: come va lo stomaco? Un napoletano vomita: adesso che è a terra finalmente soffre il mal mare. Poi canta Califano: «Guardo Venezia e vedo Napoli / Gondoliere ti prego portami a Napoli / una gondola lì non corre pericoli».

La Repubblica 06.04.14

«L’Aquila rivivrà se demoliremo le new town», di Jolanda Buffalini

Le new town? «Noi le vogliamo demolire». L’affermazione è forte soprattutto perché viene dal giovane segretario della Fillea, Emanuele Verrocchi, ovvero dal sindacato delle costruzioni della Cgil aquilana, che nel senso comune dovrebbe pensare piuttosto a costruire che a propugnare il «consumo zero di territorio». Eppure lui va giù deciso: «Demolire le new town non è uno slogan, stiamo lavorando a un progetto serio su questo, sapendo che ancora servono e che ci sono le assegnazioni in corso per le persone, come i single, che erano state escluse nella fase dell’emergenza». Però il punto è che «secondo noi il futuro de L’Aquila va in un’altra direzione rispetto al Progetto Case. L’Aquila è città d’arte, quella è la sua vocazione, come sua vocazione è la difesa della natura, del territorio che ha intorno, su queste basi può rinascere». E non basta: «Le new town sono state il simbolo della dispersione, dell’isolamento delle persone e delle famiglie che con il terremoto hanno perso non solo i propri cari e la casa ma anche il senso della loro socialità. Demolirle ha un senso anche rispetto al trauma psicologico, ai disagi psichici generati dal sisma».

Percorriamo via Roma, zona rossa, una delle strade del centro storico trasformata dal sisma in una «Cambogia». Difficile dire cosa risorgerà al posto dei cumuli di pietre in cui si sono trasforma- ti i palazzi antichi, pero’ si apre il cuore a San Pietro a Coppito: la piazza, la chiesa con i suoi leoni romanici e’ stata uno dei simboli della distruzione delle cose piu’ amate. Ora, attraverso i bandoni si vede il restauro, il cumulo dei marmi non è più tristemente a terra. Cantiere del Mibac, come tanti altri cantieri partiti grazie ai Beni culturali, che si sono dimostrati, contro ogni previsione del- le ideologia mercatiste e emergenziali, l’istituzione più efficiente, pur con le forze limitate, perché non c’è persona- le in più . Una buona notizia per gli aquilani, in questo quinto anno di passione, e’ stata la riconferma di Fabrizio Magani, il direttore generale per l’Abruzzo, decisa dal ministro Franceschini.

In piazza Duomo c’è Giovanni Lolli, esponente Pd che, dal 2009, dentro e fuori il Parlamento, ha svolto il ruolo di «Wolf» , il risolutore di problemi di Pulp Fiction, dai finanziamenti, alle tasse, alla psicologia, quando la confrontation istituzionale portava sull’orlo di una crisi di nervi. Così quando gli chiedo cosa pensa della proposta di demolire le new town sbotta in dialetto: «E mo’ quantu ce costa?». Per Lolli il principale difetto del Progetto Case è stato «che era già pronto, calato su L’Aquila e non modulato sulla città».

Verrocchi non si scompone. Demolire i prefabbricati che non servono, mentre «i pilastri antisismici possono venire utili per i servizi o i parcheggi del parco naturale». Idee ancora provvisorie, sostenute, però, da una visione che il segretario nazionale della Fillea, Walter Schiavella, fa propria: «Sostenemmo fin da allora che si deve privileggiare il recupero, che era sbagliata l’idea di Berlusconi di città satellite non temporanee, che si sono dimostrate uno spreco di denaro, sono di qualità non alta, hanno consumato territorio, hanno costi elevati di gestione e, parallelamente, hanno inciso su un troppo lento ripristino del centro».

Gianni Di Cesare, segretario regionale della Cgil, ritorna al 2009: «Quando Berlusconi disse agli aquilani “dalle tende alle case”, non ci fu partita. Non ci potevamo opporre, abbiamo impedito che venissero costruite a piazza d’Armi, che e’ parco urbano». Però, aggiunge, Di Cesare, «le new town hanno anche frenato altri fenomeni negativi, come il proliferare di soluzioni abusive, che pure ci sono state. Oggi e’ difficile imporre a un pensionato da 600 euro al mese di demolire la casa costruita in emergenza, magari dove c’è l’acqua o su terreno agricolo».

È un’idea che «va benissimo» per l’urbanista Vezio De Lucia perché «le new town sono un obrobrio da tutti i punti di vista» e «il comune non riuscirà mai a gestirle». Spiega l’architetto Antonio Perotti che «L’Aquila, prima del terremoto, aveva 60 frazioni, ora ne ha 100». Questo significa – spiega De Lucia – «che non si riesce a installare una edicola, figuriamoci un asilo nido o una fermata dell’autobus». Demolire sarebbe una operazione di «saggezza urbanistica enorme e l’Italia un grande Stato se lo facesse, perché è una impresa che richiede molte risorse finanziarie». Ed è chiaro che «non si devono togliere risorse al centro storico». Però sapere dove si vuole andare è importante, «una volta – sospira De Lucia – questo si chiama- va pianificare».

Cinque anni dopo tornano, per la fiaccolata, i genitori dei ragazzi rimasti sotto le macerie, nel pomeriggio incontrano i parenti degli aquilani e gli altri familiari delle catastrofi che si sono compiute per colpa e negligenza di istituzioni e società. Alcuni, però, quest’anno hanno scelto di restare a casa, di non rinnovare il dolore terribile di quella notte. C’è, arrivata dalla Grecia, la famiglia di Vassilis Koufolias, che morì a Via Campo di Fossa e dove si ferì anche sua sorella, che dal 2009, passa da una operazione all’altra. Sergio Bianchi, che ha tatuato sul braccio il nome di suo figlio Nicola, è venuto a L’Aquila perché con i proventi del libro «Macerie dentro» ha istituito due borse di studio per giovani geologi.

Antonio Di Franco è un piccolo imprenditore del restauro edile che lavora a L’Aquila. Ha letto il nostro articolo sui cantieri, sul lavoro nero della manodopera portata dalla Romania, sulla necessita’ dei controlli, per evitare altre tragedie: «Cruciale – ci dice – sarebbe responsabilizzare i tecnici, ingegneri e architetti, che hanno la direzione del cantiere e i proprietari. Loro devono sa- pere cosa succede in casa loro».

L’Unità 06.04.14

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L’Aquila cinque anni dopo Il futuro è un cantiere, di Jolanda Buffalini

Barak Obama aveva i capelli neri, cinque anni fa, quando arrivò fra gli aquilani sconvolti e frastornati, in fila nelle tendopoli per ricevere dalle mani dei volontari pranzo cena e colazione ma espropriati del loro proprio destino. I lavori fervevano ma non per loro. Cinque milioni furono spesi solo per la suite presidenziale e le altre stanze in cui i grandi del- la terra sopraggiunti per il G8 non abitarono, gadget e accappatoi compresi. Cinque anni dopo, insieme ai capelli del presidente americano, si sono imbiancati quelli di molti terremotati, i pensionati giocano a carte sulle panche delle fermate degli autobus, i bambini sono cresciuti nei Musp, cioè nei moduli provvisori scolastici, e non conoscono la loro città. Gli adolescenti passano il tempo libero nei centri commerciali oppure sul corso Federico II, che si popola il venerdì notte in una atmosfera surreale di musica e buio inquietante. Gli adulti pagano il mutuo della casa distrutta e intanto si arrabattano fra le bollette astronomiche del progetto Case, che avrebbe dovuto essere a basso consumo energetico e invece divora gas, perché i pannelli solari non sono mai stati attivati. Meno male che ci sono i pensionati, i di- pendenti pubblici e gli studenti (dell’università, del conservatorio, dei centri di ricerca), altrimenti al centro dell’Italia ci sarebbe un buco nero di rovine: le imprese chiudono, precari e free lance si disperano, i commercianti, quando non sono falliti, si sono sparpagliati fra centri commerciali e miriadi di costruzioni che devasta- no il territorio. Sono 37.000 gli aquilani in cura per disagio psichico su una popolazione che, prima del sisma, contava 70.000 persone.

Eppure l’atmosfera è cambiata, per la prima volta dopo quel maledetto 6 aprile 2009. Si sono aperti 200 cantieri nel centro storico, nelle periferie in cemento armato gli abitanti (46.000) sono rientrati nelle case. Resta il grosso da fare, l’operazione più delicata, far tornare a battere il cuore dell’Aquila, quello dei vicoli e delle piazzette su cui affacciano i palazzi anti- chi, le chiese dei Quarti di fondazione medievale. Perché è per quelle mura antiche che si cerca di non emigrare, è lì che si nasconde il segreto della qualità della vita di una città bellissima. L’operazione per far tornare a pulsare le strade dei 56 piccoli centri del cratere.

Molti anziani temono che non faranno in tempo a rientrare nella loro strada, nella loro piazza, nella loro casa, ma anche a loro fa bene vedere il braccio corto delle gru volteggiare, sentire il rumore della fiamma ossidrica, vedere i restauratori sui ponteggi. Il geometra informatico Maurizio Tollis, del dipartimento per la ricostruzione, mostra ai visitatori del «Salone del- la ricostruzione» un sito strepitoso del Comune dell’Aquila dove con un clic puoi vedere dove sono collocate le gru e da dove partiranno i lavori per i sotto servizi, final- mente appaltati, la cifra dei contributi erogati e tante altre informazioni che girano anche su tablet, facilitando il lavoro di chi è in cantiere o fuori sede. «Ora ò’importante – dice Enrico Ricci dell’Ance regionale – è la certezza del flusso dei finanziamenti per poter programmare». Giovanni Legnini, che ha la delega del governo per la ricstruzione, indica la cifra di un miliardo l’anno.

Il giro nei cantieri fa scoprire la realtà contraddittoria di un paese, l’Italia, in cui convivono serietà, abnegazione e professionalità con le furbizie dell’avidità e dello sfruttamento più ingiusto. Emanuele ha 25 anni e un contratto di apprendistato ma fa l’apprendista di se stesso, poiché lavora in una ditta che ha un solo dipendente, lui. Dovrebbe imparare e fa tutto da solo. La paga è bassa perché le ore dichiarate sono inferiori a quelle reali, 800 euro, ma il datore di lavoro gliene mette in tasca ancora meno, 600. Prima faceva il manovale con contratto a progetto, e ha perso il diritto alla disoccupazione, prima ancora aveva un contratto da metalmeccanico per montare ponteggi. Questo consente al padrone di risparmiare sulla formazione alla sicurezza, obbligatoria nell’edilizia, e sulla cassa edile, che tutela i lavoratori delle costruzioni quando un cantiere chiude. Emanuele si è stancato, ha preso il coraggio a due mani e ha bussato, timidamente, alla porta della Cgil. Per fortuna ha incontrato Cristina Santella che si è presa a cuore il suo caso: «anche io – racconta Cristina – sono entrata così nel sindacato». «È il lavoro grigio – spiega Emanuele Verrocchi, segretario Fillea provinciale – e proprio ora che i cantieri sono partiti, che all’Aquila ci sono 10.000 operai, bisogna alzare la guardia».

Ma proprio l’alto numero dei cantieri rende ridicolmente insufficiente il numero degli ispettori. Racconta Cristina di un gruppo di operai romeni giovanissimi che lavorava in un cantiere vicino al Comune: «Mi hanno chiesto dalla finestra dell’acqua. Erano arrivati direttamente dalla Romania, al nero. La loro vita si svolgeva fra l’alloggio e il posto di lavoro, come schiavi. Quando hanno capito che li avevamo itercettati li hanno rispediti a casa».

San Pietro Apostolo a Onna, è il primo cantiere nel borgo vecchio che al terremoto ha tributato 49 bare. È partito a giugno 2013 ma, racconta il capocantiere Peppe Di Leo, «ci sono voluti mesi prima di avere l’elettricità, anche se il palo dell’Enel è a 6 metri». Di Leo è socio della cooperativa «Internazionale» di Altamura, lavorano insieme alla impresa di restauro di Reggio Emilia Tecno. «Qui gli ispettori – dice – possono accomodarsi quando vogliono, abbiamo tutti in regola». Perchè vi chiamate «Internazionale», chiedo? «Non per l’Inter – dice lui – ma per l’internazionale socialista. Noi siamo di tradizione comunista e io sono orgoglioso di questa società che riesce a stare al passo e a dare lavoro». Si sono fatti le ossa nel terremoto dell’Umbria e poi al Petruzzelli. Gli operai vengono come lui, dalla Puglia o da Reggio Emilia. Come Stefano Savi, giovane restauratore marchigiano. Ma, continua Peppe, «bisogna fare i salti mortali perché succede che non paghino lo stato avanzamento lavori quando devono. Noi, però, per poter lavorare, dobbiamo essere in regola con i con- tributi». Aggiunge Silvio Amicucci, Fillea Abruzzo: «L’imprenditore che non viene pagato rischia di finire nelle mani di chi ricicla denaro sporco».

Il piccolo ma «rognoso» cantiere di San Pietro Apostolo (XII secolo) racconta molto della ricostruzione aquilana. Il 34% del- le 1634 imprese che lavorano nel Cratere viene da fuori e corrisponde il 45% di una massa salariale che nel 2013 è stata di 80 milioni. È un dato che racconta due cose: la prima è che le imprese del territorio non si sono adeguate alla realtà del terremoto, «hanno puntato – spiega Silvio Amicucci – sulla costruzione del nuovo, quando ormai, a parte il terremoto, è chiaro che si deve puntare alla riqualificazione». L’altra cosa è un interrogativo, rispetto al- la congruità fra mole dei lavori avviati e salari corrisposti. È finalmente operativo un tavolo di monitoraggio fra prefettura e parti sociali, era stato istituito da Franco Gabrielli ma è entrato in funzione solo ora, grazie alla sensibilità del nuovo prefetto Alecci. Un osservatorio che previene anche le infiltrazioni mafiose, all’ultima riunione è stato segnalata una impresa del sud che cambia spesso la sede legale, dove si abusa della cassa integrazione e molti lavoratori sono in nero. Magari non ha nulla che fare con la criminalità organizzata ma gli approfondimenti sono d’obbligo.

L’Unità 05.04.14

L’imprenditrice con il figlio malato «Donne e lavoro, autorganizziamoci», di Rita Querzè

Mina Pirovano è un’imprenditrice, una mamma, e anche una che cerca di cambiare il mondo. Chi la vuole immaginare deve pensare a una signora bionda, 44 anni, pragmatismo e parlantina a profusione. A proprio agio in Assolombarda, il salotto buono dell’industria milanese. Ma anche seduta davanti a un tè a Dubai, concentrata nell’impresa di convincere un potenziale compratore. Cosa vuol dire fare andare d’accordo famiglia e lavoro? Mina Pirovano lo ha scoperto fino in fondo un pomeriggio di primavera di cinque anni fa. «Allora mi occupavo dell’azienda di famiglia — racconta — settore manifatturiero, stampaggi in plastica per l’industria automobilistica o degli elettrodomestici. La mia seconda passione era il mondo dell’associazionismo rosa, forse per il senso di uno squilibrio nel mondo del lavoro troppo evidente. Così, insieme con la Camera di Commercio di Monza, avevo organizzato gli Stati generali dell’imprenditoria femminile. Il giorno prima del simposio mio figlio, malato da qualche tempo, si sentì male. Le gambe paralizzate, non riusciva più a muoversi. Non l’avevo mai visto così. Rimasi con lui in ospedale il giorno e la notte. Alle cinque del mattino mi misi un tailleur, mi truccai davanti allo specchio di quella stanza d’ospedale. Andai al convegno perché lo dovevo a tutte le persone che si erano mobilitate con me. Ma soprattutto perché me lo aveva chiesto mio figlio. Ma dentro avevo già detto basta. Conciliare gli impegni sempre più pressanti del lavoro con la mia situazione familiare era diventato impossibile. Abbandonai l’azienda: mio figlio veniva prima».
Sono passaggi, questi, che lasciano il segno. Ma Mina Pirovano non ha resistito a lungo lontano dal mondo dell’impresa. «Quando il medico mi ha detto che mio figlio era guarito, mi sono ributtata nella mischia. Ho fondato un’altra azienda, questa volta tutta mia. Si chiama Mina design, produco oggetti di plastica per la tavola. Bicchieri ma non solo. Oggetti da usare e riusare. Ho rischiato, lo ammetto. Ho investito soldi miei nella convinzione che l’idea fosse buona. Adesso il fatturato cresce a due cifre ogni anno. Tenendo conto che sono partita in piena crisi, mi pare un buon risultato». Da quando ha ripreso a lavorare Mina Pirovano ha assunto anche una nuova determinazione. «Fare tutto quello che è nelle mie possibilità per promuovere una reale conciliazione tra famiglia e lavoro», spiega l’imprenditrice, che oggi coordina i comitati per l’impresa femminile di tutte le Camere di commercio della Lombardia.
«Quando ho letto sul Corriere le parole della presidente del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, prima, e di Maurizio Ferrera, ieri, mi sono detta: «Finalmente. Finalmente il tema della partecipazione femminile al mercato del lavoro sta salendo posizioni nell’agenda della politica. È arrivato il momento di dare un segnale forte per sbloccare le cose. Ho apprezzato del governo Renzi il coinvolgimento delle donne anche in ministeri importanti. Ora servono le politiche».
Ma quali? Le risorse pubbliche scarseggiano. E anche gli interventi sulla conciliazione sono già stati duramente penalizzati. «Guardi, come prima cosa bisogna lasciare alle donne la libertà di organizzarsi. Lo vedo anche con le mie dipendenti; sanno da sole come fare. Ben venga il telelavoro o il lavoro agile come lo si chiama oggi. E questa sarebbe già una politica attuabile a basso costo. Poi mi piace ricordare che quando si pensa al lavoro delle donne non bisogna automaticamente riferirsi solo al lavoro dipendente. C’è anche quello autonomo e c’è l’impresa. Ambiti in cui il contributo femminile può essere straordinario».
Secondo Pirovano le donne dovrebbero imparare a far pesare il loro essere maggioranza. «Gli uomini sanno fare gruppo meglio di noi. Anche se stiamo velocemente imparando. Lo vedo nell’associazionismo, nelle nostre riunioni, sempre più spesso partono dinamiche che portano a darsi una mano a vicenda. Ma di una cosa sono convinta: questa non è una battaglia da fare da sole. È con il sostegno dei nostri mariti e dei nostri compagni — in una parola coinvolgendo gli uomini — che le cose possono davvero cambiare. Gli interventi maschili a favore di una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro sono preziosi proprio per questo. Molti uomini si stanno rendendo conto che più donne al lavoro sono una vantaggio per l’economia ma anche per l’equilibrio delle famiglie».
Per finire, le quote. Tema ancora molto dibattuto. Una strada a cui Pirovano si è opposta per lungo tempo. «Ma ora non più — allarga le braccia —. Non che la cosa mi faccia felice, ma non c’era altra strada. E se ci fosse una quota fissa di donne anche nelle liste elettorali credo che il Paese, tra qualche anno, non potrebbe che ringraziare».

Il Corriere della Sera 06.04.14

L'appello degli scienziati «Un'Europa di progresso», da unita.it

Il prossimo martedì 8 aprile presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Piazzale Aldo Moro a Roma verrà presentato il “Manifesto per un’Europa di progresso” (ore 11.00, Sala Convegni). Si tratta di un contributo che un folto gruppo di scienziati italiani, alcuni di loro con incarichi istituzionali rilevanti, hanno inteso dare per un concreto rilancio del sogno degli Stati Uniti d’Europa, proprio nel momento di maggior difficoltà della sua realizzazione.

Il Manifesto origina dalle preoccupazioni che gli scienziati valutano nei riguardi di un processo d’integrazione delle nazioni europee in profonda crisi. Dalla consapevolezza che la piena estensione dei confini oltre i limiti nazionali rischi d’interrompersi bruscamente a causa delle inadeguatezze strategiche di chi fino ad ora ha condotto questo progetto.

Dalla constatazione che le opportunità di reale progresso per i cittadini europei, in ambito di sviluppo civile, economico, democratico, culturale, pacifico, non possano prescindere dalla realizzazione di un’Europa dei popoli.

Scienza, sapere e nuova conoscenza tendono a svilupparsi in modo naturale e hanno da sempre oltrepassato qualunque limite geografico, artificiale o mentale che si sia provato loro ad imporre.

Gli scienziati intendono testimoniare la straordinarietà di questa “natura” che poi altro non è che la natura stessa dell’essere umano, consapevoli che lo sviluppo e la diffusione del pensiero critico, che è proprio della scienza, possa contribuire ad ampliare l’esercizio effettivo dei diritti e della partecipazione democratica.

Il riferimento esplicito va ad altri storici Manifesti, quali quello di Einstein e Nicolai; e quello di Spinelli, Colorni e Rossi. Ricordando che nella prima metà dell’Ottocento riunioni di scienziati italiani contribuirono alla realizzazione concreta dell’unità d’Italia, si propongono di dare un contributo per una realizzazione piena dell’unione politica dell’Europa, di un’Europa dei popoli.

La stesura del Manifesto ha visto per ora coinvolti, a parte pochissime eccezioni, i soli scienziati italiani. L’obiettivo è di estendere rapidamente questa iniziativa in tutta Europa, provando ad avviare un movimento che possa sollecitare l’intera società continentale.

Link per firmare il manifesto:
www.osservatorio-ricerca.it/sondaggi/foreurope2014/registrazione_survey.php

IL TESTO

Per un’Europa di progresso

Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro.

All’opposto l’Occidente, e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa, in particolare, risulta investita da gravissimi e apparentemente irresolubili problemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. A pochi anni dalla sua formale consacrazione, con la nascita ufficiale della moneta comune, l’Europa rischia di deflagrare come sogno di una comunità di cittadine e cittadini che avevano ambito ad una nuova Nazione comune: più ampia non solo geograficamente, quanto nello spazio dei diritti, dei valori e delle opportunità. Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della “fine del sogno europeo”.

Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.

Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi. Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.

Come scienziate e scienziati di questo continente – consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia – sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza -essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale- si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.

L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.

Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d’Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.

Vogliamo organizzare a Pisa la “Prima riunione degli scienziati Europei” e proporvi di firmare questo appello che è il nostro “Manifesto per un’Europa di Progresso”.

ENGLISH VERSION

Manifesto For a Europe of Progress

The world is changing rapidly. The status quo, once considered established, has been greatly redesigned by society and the economy of knowledge. Economically depressed areas have acquired, in short time, great potential of development and growth. Knowledge, culture and innovation represent today, more than ever, the push toward the future.

To the contrary, the West and some aspects of its development model, have entered into a deep crisis. In particular, Europe appears to be not only affected by serious problems, such as unemployment, crisis in productivity and substantial reduction in welfare, but it is also apparently incapable of solving them. After only a few years from the official birth of the common currency, there is now the danger that the dream of a Europe made of people devoted to the idea, not only of a new larger Nation, but one also more open to civil rights, intrinsic human values and widespread opportunities, will be shattered. Walter Laqueur, the American historian, has spoken about “the end of the European dream”.

The responsibilities for this situation are many and varied including, to be sure, the excessive timidity in facing the process of creating a European political entity. The future should be built on the basis of political, cultural and social horizons rather than adhering to the bookkeeper’s aspiration to keep “accounts in order”. Hence, we have now a Europe of merchants and bankers, of limitations and inflexibility, a sort of gendarme that imposes often-foolish rules rather than widen horizons and promote future development.

Because of this, we are witnessing, in connection with the present crisis, an alarming growth of provincial egotisms, based on narrow self-interests, if not real outright nationalism. These phenomena often are intentionally created for exploiting real unhappiness and suffering, with the risk of causing reactions that would be directly opposed to what Europe needs.

We, women and men of science of this continent, are aware of the existence of an indissoluble connection between science and democracy and we feel the necessity to take the challenge and to speak out. To emphasize that the building of the United States of Europe is the most important opportunity that History can give to us. That society and economy of knowledge – essential for the process of real civil evolution, an evolution that is peaceable, economic and cultural – that thrive on cohesive communities that work together, that share intense and productive interrelations equipped with a critical sensibility that reach ever larger segments of society.

The only possible answer to the imminent crisis is hence the building of a Europe of the people, of a Europe of Progress! Achieved on the basis of principles of freedom, democracy, knowledge and solidarity.

We harbor the same hope with which in 1914, Albert Einstein and George Friedrich Nicolai, in the “Manifesto to the Europeans”, called to reason the European people against the misfortune of the war. Later, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni and Ernest Rossi, in 1943, in their “Manifesto of Ventotene” inspired the idea of a united Europe.
Now, independently, illustrious supporters in all European countries produced the same ideas. What we want is to recapture and to extend to all Europe the spirit that in 1839 brought the Italian scientists to organize their own first assembly to inaugurate the Risorgimento — The Revival — of a divided nation.
We propose to organize in Pisa (where the first meeting of the Italian scientists was held) “The first meeting of the European scientists”, although also other European cities are possible. We ask you then to subscribe to this document, which is our “Manifesto for a Europe of Progress”.

Promotori (*) e Primi firmatari – Promoters (*) and First Signatories:

Ugo AMALDI (CERN, Ginevra)
Giovanni BACHELET (Università di Roma “La Sapienza”)
Giorgio BELLETTINI (Università di Pisa e INFN)
Carlo BERNARDINI (*) (Università di Roma “La Sapienza”)
Sergio BERTOLUCCI (Direttore di ricerca, CERN, Ginevra)
Vittorio BIDOLI (INFN, Roma)
Giovanni BIGNAMI (Presidente Istituto Nazionale di AstroFisica – INAF)
Marcello BUIATTI (Università di Firenze)
Cristiano CASTELFRANCHI (Università Luiss, Uninettuno e ISTC-CNR)
Vincenzo CAVASINNI (*) (Università di Pisa e INFN)
Remo CESERANI (Università di Bologna e Stanford University, CA)
Emilia CHIANCONE (Presidente Accademia dei Quaranta)
Paolo DARIO (Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa)
Tullio DE MAURO (Università di Roma “La Sapienza”)
Luigi DI LELLA (CERN, Ginevra)
Rino FALCONE (*) (CNR Roma, Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione)
Stefano FANTONI (Presidente Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Sergio FERRARI (già vice direttore ENEA)
Ferdinando FERRONI (Presidente Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – INFN)
Fabiola GIANOTTI (CERN, Ginevra)
Mariano GIAQUINTA (Scuola Normale Superiore, Pisa)
Pietro GRECO (*)(Giornalista e scrittore, Roma)
Angelo GUERRAGGIO (Università Bocconi)
Fiorella KOSTORIS (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Francesco LENCI (*) (CNR Pisa e Pugwash Conferences for Science and World Affairs)
Giorgio LETTA (Vice Presidente Accademia dei Quaranta)
Lucio LUZZATTO (Istituto Toscano Tumori)
Tommaso MACCACARO (INAF)
Lamberto MAFFEI (Presidente Accademia dei Lincei)
Italo MANNELLI (Scuola Normale Superiore, Pisa e accademico dei Lincei)
Giovanni MARCHESINI (Università degli studi di Padova)
Ignazio MARINO (Thomas Jefferson University, Sindaco di Roma)
Annibale MOTTANA (Università di Roma 3 e accademico dei Lincei)
Paolo NANNIPIERI (*) (Università di Firenze)
Pietro NASTASI (*) (Università di Palermo)
Luigi NICOLAIS (Presidente Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR)
Giorgio PARISI (Università di Roma “La Sapienza”, accademico dei Lincei)
Maurizio PERSICO (Università di Pisa)
Giulio PERUZZI(*) (Università degli studi di Padova)
Caterina PETRILLO (Università degli studi di Perugia)
Pascal PLAZA (CNRS e Ecole Normale Supérieure, Paris)
Claudio PUCCIANI (*) (Vice Presidente Associazione Caffè della Scienza – Livorno)
Michael PUTSCH (CNR Genova, Direttore Istituto di Biofisica)
Carlo Alberto REDI (Università di Pavia)
Giorgio SALVINI (Università di Roma “La Sapienza”, già Presidente dell’Accademia dei Lincei)
Vittorio SILVESTRINI (Presidente della Fondazione IDIS – Città della Scienza, Napoli)
Settimo TERMINI (*) (Università di Palermo)
Glauco TOCCHINI-VALENTINI (National Academy of Sciences, CNR-EMMA-Infrafrontier-IMPC, Monte Rotondo, Roma)
Guido TONELLI (CERN, Ginevra e Università di Pisa)
Enric TRILLAS (Emeritus Researcher European Centre for Soft Computing, già Presidente CSIC, Spagna)
Fiorenzo UGOLINI (Università di Firenze)
Nicla VASSALLO (Università di Genova)
Virginia VOLTERRA (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione – CNR)
Elena VOLTERRANI (*) (Provincia di Pisa e INFN)
John WALSH (INFN)

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To sign the Manifesto

"Cinque anni dopo ritorno a L'Aquila", di Walter Siti

C’ero stato a L’Aquila nell’estate del 2011 e ne avevo ricavato un’immagine tragica: in piazza del Duomo a mezzogiorno stagnava un silenzio irreale, solo il clèng di un’imposta che periodicamente batteva sul ferro d’una grondaia — mancavano i cespugli spinosi rotolati dal vento e saremmo stati in pieno western, quando il cowboy entra nel villaggio abbandonato. L’erba cresceva alla base dei portici. M’ero fatto l’idea che il centro non sarebbe rinato mai più, anzi che non avesse più voglia di rinascere; un mio ex studente, alla frase conformista «un capoluogo di regione non può morire», aveva risposto «perché no? adesso c’è internet… ci servono case, centri commerciali, strade a scorrimento veloce, ma che ce ne facciamo di una città?». Un embrione di metropoli diffusa senza metropoli: questo sembravano, arrivandoci di sera, i diciannove insediamenti periferici che avevano sostituito il primitivo progetto dell’Aquila 2 — un mare di luci con un buco nero in mezzo. Tra le “casette di Berlusconi” gli anziani si lamentavano che non ci fosse tessuto sociale, rassegnati a non vedere mai più l’Aquila a cui erano abituati («facciamo in tempo a morire dieci volte»).
Ora, a quasi tre anni di distanza, l’impressione è stata diversa e devo fare ammenda del mio pessimismo apocalittico: qualcosa si sta muovendo, nel centro si vedono finalmente le gru, qualche bar ha riaperto e a mezzogiorno c’è il pieno degli operai che si mangiano un panino. Impacchettati in varie forme, i palazzi assomigliano a un complicatissimo meccano. La sera, soprattutto nel fine settimana, centinaia di ragazzi occupano le strade e le piazzette, mangiano la frittata del Boss e si bevono un mojito da Farfarello. Alcuni adolescenti hanno preso l’abitudine di forzare le transenne per organizzare festicciole nelle case disabitate o nei negozi vuoti, come se giocassero al covo dei pirati o alla casa sull’albero. Sono stati i ragazzini (quelli che al tempo del terremoto avevano tredici-quattordici anni) a riappropriarsi per primi del centro. Poi si stancano, è ovvio, perché è comunque deprimente passeggiare tra ponteggi e saracinesche abbassate, trovarsi il passo sbarrato appena si esce dalle vie principali, vedere dovunque militari che (fortunatamente) controllano. Sul Corso c’è una grande foto con la distesa delle bare. Una copisteria sventrata ha ancora il calendario appeso col foglio di aprile 2009. Quel che c’era da prelevare dalle case è stato prelevato, con o senza autorizzazione; a spiare dalle finestre o dai portoni
socchiusi si intravedono gli interni fitti di tubature come polli farciti. Tutto è stipato ma pulito, le impalcature brillano alla luce della luna, tutto è pronto per partire; «Abbiamo perso tre anni», mi dice un docente, «così doveva essere nel 2011».
Tra il 2011 e il 2012 c’è stata la grande depressione: finita l’adrenalina dell’emergenza col naturale corollario di un patriottismo reattivo («han passato la vita a parlar male dell’Aquila, che se ne volevano andare a tutti i costi, e mo’ gli ha preso la passione di riaverla»), lo scontro permanente tra enti locali e protezione civile aveva creato una situazione di insopportabile immobilità. Chi poteva trovava soluzioni fuori: a Roma, a Pescara, dovunque pur di non assistere all’agonia. Una finanziaria pensò di sfruttare il momento speculando sul desiderio di fuga: compriamo a poco, accediamo ai fondi per la ricostruzione e vendiamo a molto. Ma non ha funzionato granché, gli aquilani alla fine si sono mostrati restii a vendere: i benestanti soprattutto, quelli delle seconde e terze case, hanno potuto permettersi di aspettare. Chi di case ne aveva una sola, invece, è rimasto strozzato dai ritardi: hanno i soldi in banca, cioè il consorzio a cui appartengono ha già i soldi stanziati ma non può spenderli. Tecnici e politici non riescono a decidere se, per le abitazioni del centro, convenga abbattere e ricostruire salvando gli elementi architettonici di pregio, oppure restaurare l’esistente, con una spesa maggiore e minore garanzia di anti-sismicità. Tutela identitaria contro sicurezza, e mentre si dibatte molti ex residenti sono arrivati all’esasperazione. Ho detto che qualcosa si sta muovendo, ma certo non senza contraddizioni e lungaggini ingiustificate.
Non c’è aquilano che non abbia un episodio di corruzione da raccontare, o una storia di ripicche, meschinità e privilegi. Scelte arbitrarie al momento dell’esproprio dei terreni agricoli, vendette consumate a spese del vicino o del concorrente; aziende amiche favorite nell’esecuzione dei ponteggi, resistenze campanilistiche e vecchie ruggini che hanno impedito agli imprenditori locali di consociarsi; le incastellature pagate un tanto a nodo, col risultato che certi portici sembrano un ricamo di oreficeria; fino agli umanissimi trucchi sullo stato di famiglia per ottenere una “casetta” più grande. Minime o organizzate illegalità che offendono di più se si ha l’impressione dell’impasse; le accuse si sommano, incontrollate, le polemiche fioriscono tanto più veementi quanto più imprecise. C’è un generale problema di comunicazione, le autorità mollano le notizie col contagocce e ognuno ci aggiunge del suo; l’ansia di chi ti parla è palpabile, il trauma non è stato riassorbito, i danni psicologici a lungo termine sono ancora da misurare. Chi ha vissuto nelle tende non riesce a tacitare del tutto il rancore per chi, “beato”, se ne stava negli alberghi della costa; le solidarietà si incrinano, nei criteri di assegnazione delle “casette” non veniva contemplata la provenienza: antichi vicini abitano a venti chilometri di distanza, mentre quello della porta accanto è uno con cui non avevi nessuna consuetudine. È dura, fra i giovani è raddoppiato il consumo di alcol, i pusher della droga considerano L’Aquila una piazza remunerativa.
Vado alla Facoltà di Lettere, tra i colleghi con cui ho lavorato per vent’anni; dopo l’esilio forzato in una sede provvisoria, ora stanno in un palazzo nuovo e centrale le cui fondamenta erano state gettate prima del terremoto. Anzi la crescita del palazzo, la dedizione di ingegneri e operai, sono state un motivo di consolazione negli anni bui, uno spiraglio di futuro. Anche qui l’umore è migliorato, pur tra le critiche: al sarcasmo nichilista si è sostituita una cauta progettualità. «In fondo», mi dice la rettrice Paola Inverardi, «rispetto a un’Italia che decresce questo è un territorio in sviluppo». Allora perché non trasformare gli studenti in costruttori, sostituendo i vecchi tirocini con attività extra-scolastiche che abbiano un rientro economico? Ti garantisco un corso di studi paragonabile in qualità agli altri atenei e in più ti offro un lavoro legato alla ricostruzione, con grandi ditte internazionali: inventa tu, culturalmente, la città che vuoi. Università, conservatorio musicale, accademia di belle arti, i fisici del Gran Sasso, coordinati per un “incubatore culturale”. Mah. Gli studenti che sostano nei corridoi non mi paiono immuni dall’inerzia, e il personale amministrativo sarà spiazzato da questo pensare in grande. Negli anni scorsi la frequenza è stata viziata dall’abolizione delle tasse universitarie; nel 2010 si sono iscritti a Lettere in 145 ma solo 45 hanno terminato il triennio; quell’anno, giustamente, gli studenti costretti a vivere altrove non pagavano i trasporti e ad alcuni operai (anch’essi deportati altrove) è convenuto iscriversi all’università per non pagare l’autobus. Molti adulti, visto che non si pagava niente, hanno tentato una prima o una seconda laurea a cui in altre circostanze non avrebbero pensato. Ma c’è anche qualche novità significativa: si cominciano a iscrivere ragazzi coi nomi veneti e friulani — figli di piccoli imprenditori, di muratori, elettricisti, idraulici, che qui si sono trasferiti perché sanno che, per quindici o vent’anni, ci sarà lavoro. Certe costruzioni nuove non sono più per gli aquilani. «Risorgerà diversa da come la immaginavamo, ma risorgerà».

La Repubblica 06.04.14

"Perché i «nativi digitali» snobbano le scienze?", di Antonella De Gregorio

I numeri sono importanti: negli Stati Uniti, tra cinque anni ci saranno due milioni e mezzo di posti da occupare, per esperti di discipline «Stem» (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). In Francia il buco, lo scorso anno, era di 130mila unità, con il 10% di scienziati e tecnici in meno rispetto al 2000. Nel Regno Unito, il calo in dieci anni è stato del 18%. Arretra anche il Giappone. E in Italia, Unioncamere e ministero del Lavoro contano in 47mila le figure professionali introvabili, principalmente tra i profili tecnici. Una tendenza contraria a quella che sembra interessare le economie «emergenti», Asia in testa, come ha sottolineato nei giorni scorsi il quotidiano Les Echos. Ma qual è il motivo per cui, nei Paesi più sviluppati (a eccezione della Germania) la «generazione Y» (i nati tra il 1981 e il 1995) e i fratellini della «generazione Z» (quelli che oggi sono alle superiori) sembrano schivare sicure opportunità di carriera?
Distanti

«Adolescenti connessi», nativi digitali che usano regolarmente smartphone, Internet e videogiochi, raramente i liceali sognano di fare il salto da utilizzatori a creatori di prodigi alfanumerici. Studi percepiti come troppo duri o troppo astratti, di cui si intravedono a fatica sbocchi e opportunità. C’è il timore di non arrivare in fondo; o di non avere, poi, opportunità diverse dall’insegnamento. «La disaffezione – dice Nicola Vittorio, ordinario di Astronomia e Astrofisica all’Università di Tor Vergata – è spesso imputabile a modalità di trasmissione del sapere scientifico troppo “tradizionali”, inadatte a farlo amare». La Fisica rinchiusa in classe, anziché in laboratorio; la Chimica relegata a formule; Matematica privata delle sue connessioni con la vita reale, stretta nell’immutabile sequenza aritmetica-algebra-geometria-trigonometria.
Iscrizioni in picchiata

È una sorta di «morbo», partito dagli Stati Uniti negli anni ‘80, arrivato in Europa nei ‘90, esploso in Italia nel 2000, con iscritti al blocco delle Scienze «dure» in caduta libera, precipitati da 10 a 4mila: le smagliature più evidenti a Matematica e Fisica. «La preoccupazione era che la mancanza di laureati nelle scienze di base anticipasse cattedre vuote e ridotta capacità innovativa (e competitiva, ndr) per il Paese», spiega Vittorio.
Il Piano

Ma all’annus horribilis, il Paese di Galileo e Volta, di Fermi e Montalcini, ha reagito schierando l’artiglieria. Nella forma di un Piano pluriennale (2005-2008, poi rinnovato per altri 4 anni, e nuovamente finanziato nel 2013/14, con fondi per due milioni di euro), per incrementare il numero di iscritti. Migliorando la conoscenza e l’orientamento, avvicinando i giovani, sensibilizzandoli durante le scuole superiori; «formando» i docenti, aumentando le attività di laboratorio (in maniera «consistente», indica il Piano lauree scientifiche-Pls: almeno 20ore di lavoro degli studenti), adottando e insegnando attività di didattica sperimentale. Il Progetto – frutto della collaborazione tra Miur, Confindustria e Presidi delle 40 facoltà scientifiche e tecnologiche – ha coinvolto 173mila studenti e duemila insegnanti, in oltre 800 scuole ogni anno, cercando di rendere più amichevole l’approccio alle scienze dure.
Aumento

Lo sforzo – insieme a una migliore informazione sui fabbisogni delle imprese – ha contribuito ad invertita la tendenza. In otto anni le matricole delle facoltà scientifiche sono aumentate del 26%, in controtendenza rispetto alla generale diminuzione delle iscrizioni all’università. Ma ancora non basta. «Siamo lontani da livelli accettabili – dice Vittorio, coordinatore del Piano – anche se abbiamo raggiunto l’obiettivo del 15% entro il 2010 di laureati in ingegneria», uno dei pochi punti dell’Agenda di Lisbona centrati. I dati sono stati presentati in dicembre a Napoli, in un grande convegno che ha raccolto e descritto le esperienze più significative portate avanti dalle scuole (e documentate sul sito www.progettolaureescientifiche.eu).
La magia del laboratorio

«Avventure che i ragazzi e i docenti vivono con curiosità e meraviglia, quando si trovano in università, a lavorare nei nostri laboratori – spiega Simona Binetti, ricercatrice del dipartimento di scienza dei materiali della Bicocca di Milano e presidente della Commissione orientamento nelle scuole superiori per il Pls -. Ma istruiamo anche i professori su come inventare esperienze con costi e dotazioni limitate». «L’attività di orientamento è volta a indagare se c’è vero interesse, a spiegare le differenze tra i corsi, a illustrare le prospettive di lavoro e carriera e i vantaggi di frequentare facoltà con classi relativamente piccole, laboratori attrezzati, molta attività sperimentale, ottimo rapporto studenti-docenti», spiega Binetti. Da qualche anno sono stati introdotti test d’accesso , perché è importante che gli studenti che entrano all’università abbiano la preparazione necessaria. Alcuni corsi sono a numero chiuso, altri prevedono obblighi formativi aggiuntivi per chi non supera la verifica iniziale.
Al lavoro

Per i laureati in materie scientifiche, il bilancio è positivo anche sul fronte occupazionale: i laureati triennali, a un anno dalla laurea, lavorano nel 42% dei casi, proseguono gli studi (20%), o sono in cerca di lavoro (31%). Mentre 85 laureati magistrali su 100, a tre anni hanno un posto stabile (contro il 69,8% della media delle altre discipline), con retribuzioni medie del 10,5% superiori a quelle dei laureati triennali. Fisica la più richiesta (85,3%); un po’ sotto alle altre Matematica (79,9%).
L’altro «spread» italiano

Intanto, la Commissione Ue, ha sottolineato lo spread negativo dell’Italia: 12 laureati in discipline «Stem» ogni mille giovani 20-29enni, contro 20 in Francia e 14 in Spagna. E ha lanciato la strategia Rethinking education , per cambiare l’impostazione dell’istruzione nel Continente: l’università deve puntare a più laureati in materie scientifiche, ha chiesto Bruxelles: da queste abilità dipende la capacità per l’Europa di incrementare la produttività.
Proposte

E c’è chi è arrivato a proporre la laurea (magari breve) obbligatoria in qualche disciplina tecnico-scientifica, com’era, nel secolo scorso, la leva. Oppure anche solo di alzare il livello di base di competenza scientifica nelle superiori, in modo da avere una consapevolezza delle questioni fondamentali: dall’inquinamento, all’Ogm, alle fonti energetiche alternative. O, addirittura, come ipotizzano Oltreoceano (dove solo 26 donne su 100, che pure sono la metà della forza lavoro – lavorano con la tecnologia o la matematica; o 7 ispanici su 100; 6 persone di colore su 100) di iniziare a coltivare la passione per le scienze fin dall’asilo, riducendo «in culla» gap dettati da stereotipi di genere, pregiudizi e svantaggio sociale

Il Corriere della Sera 06.04.14

"La paralisi strategica di Berlusconi", di Giovanni Orsina

Negli ultimi sondaggi Forza Italia sta andando male. Molto male: se le previsioni dovessero rivelarsi corrette la principale forza del centro destra andrebbe incontro a un vero e proprio tracollo. Non è affatto improbabile che le difficoltà del partito vadano collegate all’esclusione del suo leader – come lo stesso Berlusconi pare ritenere. È ben possibile, tuttavia, che ci sia pure qualcosa di più. Ossia che Forza Italia rischi di pagare anche gli errori politici, numerosi e gravi, che il suo leader ha commesso negli ultimi otto mesi, inseguendo invano un’inesistente soluzione politica ai propri problemi giudiziari.

Il primo di agosto, com’è ben noto, la Cassazione ha deciso. È cominciato allora nel Pdl un dibattito aspro e caotico sugli effetti che la sentenza avrebbe dovuto avere sul governo Letta: i falchi da un lato, le colombe dall’altro, e Berlusconi – stando alle cronache – falco o colomba a seconda dell’umore e dell’interlocutore.

L a vicenda è passata poi per il voto di fiducia del 2 ottobre, col cambio di linea deciso in extremis; la scissione di Nuovo Centro Destra; la rinascita di Forza Italia. E si è conclusa alla fine di novembre con la decadenza di Berlusconi dal Senato e il passaggio all’opposizione.

Una decisione resa inevitabile da considerazioni di dignità politica, visto che Berlusconi riteneva la sentenza un provvedimento iniquo, un colpo inferto alla democrazia? Ammettiamo pure che sia stata inevitabile. Non per questo è stata meno improvvida per Forza Italia, però. Nel momento in cui è uscito dalla maggioranza, infatti, Berlusconi già sapeva che il governo, grazie a Ncd, non sarebbe caduto. Certificava quindi la propria irrilevanza politica e si condannava a una posizione marginale. In più andava a colpire un gabinetto guidato sì da un democratico, ma non organico al Pd, nella cui nascita lui stesso aveva svolto un ruolo cruciale.

A quel punto, per uscire dall’angolo in cui si era cacciato, Berlusconi si è dovuto affidare al neo-segretario dei democratici. Renzi è stato molto criticato a sinistra quando, con l’incontro del Nazareno, a metà gennaio, ha restituito centralità politica a Berlusconi. Il che mostra una volta di più quanto miope sia certa sinistra italiana. Non vi è dubbio che Renzi stesse, e stia, puntando al superamento dell’antiberlusconismo. Diversamente da quel che tentò di fare Veltroni nel 2008, però, Renzi sta compiendo quest’operazione da una posizione di forza: non facendo finta che Berlusconi non ci sia, ma sostituendosi a lui nel centro dello spazio pubblico. Questo era il significato «storico» dell’incontro del Nazareno: per la prima volta Berlusconi era sul palcoscenico non per forza propria, ma perché qualcun altro ce lo aveva messo. Non attore protagonista, ma «spalla». E del segretario democratico, per giunta.

Nel dialogo fra Renzi e Berlusconi, dunque, a guadagnarci è il primo. Il secondo può compiacersi del fatto che quello intenda superare l’antiberlusconismo e stia perseguendo obiettivi «berlusconiani». Ma è un compiacimento, per così dire, filosofico. In termini politici Renzi per Berlusconi rappresenta senza alcun dubbio l’avversario più pericoloso. Tanto più da quando Renzi è salito alla presidenza del consiglio e la partita della riforma costituzionale si è sovrapposta a quella del governo.

Guidato dal leader del Partito democratico, il nuovo gabinetto ha un carattere ben più fortemente politico del precedente. E tuttavia Berlusconi, dichiarando di voler tenere fede al patto sulle riforme, gli si è messo a rimorchio, in posizione subordinata, su uno dei dossier più importanti e delicati. In più, la partita della riscrittura della costituzione in sostanza non la sta giocando: Forza Italia ha lasciato l’iniziativa al governo e non avanza condizioni, limitandosi a oscillare disordinatamente fra la ripetizione meccanica della promessa di rispettare gli accordi e la tentazione di far saltare il tavolo. Così che, se le riforme si faranno, sarà merito di Renzi. E se invece il meccanismo si incepperà, sarà colpa di Berlusconi. Due eventi accaduti ieri, il «fuori onda» di Giovanni Toti sull’«abbraccio mortale» di Renzi e la dichiarazione dello stesso Berlusconi contro la riforma del Senato presentata dal governo, con successiva retromarcia, danno piena testimonianza di questa paralisi strategica e del desiderio di uscirne.

Può ben darsi che Berlusconi in origine abbia deciso di partecipare alla trattativa sulle riforme anche, se non soprattutto, con l’idea che questo potesse rafforzarlo nella partita giudiziaria. Inseguendo questa chimera, però, ha smesso da mesi di far politica. Da qui il nervosismo dei vertici di Forza Italia. E da qui la fuga degli elettori. Si dirà che gli italiani non osservano la politica con così tanta attenzione, che non sono così razionali, che per loro conta solo se Berlusconi è in campo oppure no. Con ogni probabilità, questa è una convinzione erronea. Seppure in maniera istintiva, magari, gli elettori vedono benissimo chi fa politica e chi no, chi la fa bene e chi la fa male. E nelle urne si comportano di conseguenza.

La Stampa 06.04.14