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"Il male del Veneto", di Ilvo Diamanti

L’inchiesta dei magistrati di Brescia contro gli indipendentisti veneti può avere effetti pericolosi. Almeno quanto le iniziative e i comportamenti perseguiti. Perché, al di là del merito delle indagini, rischia di ridurre a caricatura un fenomeno complesso e fondato, che supera i confini della regione. È il “male del Veneto”. Una questione che va presa sul serio. Perché il Veneto ha costituito, negli ultimi trent’anni, il sismografo dei cambiamenti e delle crisi, in Italia. A partire dai primi anni Ottanta, quando, appunto, emerse la Liga. «Madre di tutte le leghe», la definì il fondatore, Franco Rocchetta. Uno dei cospiratori, secondo i magistrati. Ora costretto agli arresti domiciliari. (Anche se non mi riesce di immaginarlo nei panni del para-terrorista.) L’insorgenza della Liga, anticipò la diffusione e l’affermazione della Lega in tutto il Nord. Ma annunciò anche la crisi della Prima Repubblica. Perché erose e, in seguito, sgretolò le fondamenta del partito che aveva governato, da sempre. La Democrazia Cristiata
na. La geografia della Liga ricalca, infatti, quella della DC. E segna, dunque, il passaggio di questa società dal governo all’opposizione. Anzi: all’antagonismo. Contro Roma e contro lo Stato Centrale. Sinonimi, nel linguaggio veneto e, in seguito, nordista e padano. Al tempo stesso, il Veneto interpreta, in modo aperto, l’affermarsi dei nuovi ceti medi “privati”. I piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi. La Lega, prima e più ancora di Berlusconi, dà loro voce. Ne amplifica il risentimento e la protesta. Come hanno mostrato, efficacemente, Giorgio Lago e Francesco Jori, descrivendo e, in parte, amplificando la “voglia di indipendenza” espressa da quest’area. Riassunta nella formula geopolitica del Nordest. Ma in realtà sempre, saldamente impianta-
sul Veneto centrale. Sul triangolo Vicenza-Padova-Treviso. Indipendenza, non secessione. Una rivendicazione che, qui, non ha mai attecchito. Neppure negli anni Novanta, quando la Lega Nord di Bossi ne aveva fatto una bandiera. Anche perché Il Nord e ancor più la Padania sono contesti poco o nulla condivisi, in Veneto. Territori immaginari: la Padania. O, comunque, relativi e “dipendenti”: il Nord. Il cui significato “dipende”, appunto, geograficamente e geo-politicamente, da Roma. Per questo è rischioso, oltre che superficiale, svalutare le tensioni indipendentiste espresse dal Veneto. Perché vengono da lontano e hanno ragioni condivise. Che, negli ultimi anni, sono esplose. Basti vedere quel che è avvenuto alle ultime elezioni, nel febbraio 2013, quando il M5S ha ottenuto, proprio in Veneto, un grande risultato. Soprattutto nelle aree dove era più forte la Lega e, prima, la Liga. Il M5S: ha sfondato soprattutto le basi sociali di quest’area e dei suoi rappresentanti politici — vecchi e nuovi. Ha, cioè, conquistato il voto dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori. Primo partito fra gli artigiani veneti con, circa, il 30% (sondaggio di Demetra per Confartigianato Imprese Veneto). Per questo, l’immagine pubblica proiettata dalle inchieste giudiziarie, oltre che dal profilo approssimativo e improbabile dei presunti cospiratori, banalizza le tensioni e le rivendicazioni che covano nella società veneta. Le riduce all’alternativa, errata e pericolosa, fra la criminalizzazione e il ridicolo. In entrambi i casi, riassume il “male del Veneto” in un vizio folcloristico e “periferico”. Come il Veneto, in fondo, appare a molti italiani (ma anche a molti veneti, soprattutto alla Sinistra, che, non per caso, qui è sempre stata minoritaria).
Meglio non illudersi. Anzitutto perché, come ha mostrato il sondaggio di Demos condotto su un campione rappresentativo, oltre la metà degli elettori veneti (55%) si dicono d’accordo con l’obiettivo (sollevato dal referendum) dell’indipendenza veneta. Anche se è concepita, soprattutto, come maggiore “autonomia”, maggiore capacità rivendicativa nei confronti di Roma. In parte, nella maggiore qualità dei parlamentari e della classe politica. Tuttavia, le ragioni dell’indipendenza vanno oltre. Basta scorrere i dati dei sondaggi dell’Osservatorio sul Nordest, condotti da Demos e pubblicati ogni settimana sul Gazzettino, da quasi vent’anni, per cogliere la misura della frattura con le istituzioni. Visto che il 71% dei veneti è convinto che «i cittadini di questa regione lavorano e danno molto più di quel che lo Stato restituisce loro» (Demos, aprile 2013). Mentre il 75% dei veneti intervistati (Demos, Novembre 2013) si dice d’accordo con l’idea, sicuramente inquietante, che oggi sia «necessario proclamare uno sciopero fiscale perché le tasse sono insopportabili».
È, dunque, meglio non liquidare l’indipendenza veneta con qualche battuta. Lasciando che la giustizia faccia il suo corso e risolva il problema. Il “male del Veneto” ha radici profonde e diffuse, nella società e nel territorio. Ma non va neppure confinato, come una questione locale. Sollevata dai “soliti” veneti. Abituati a lamentarsi. Il “male del Veneto”, come è avvenuto altre volte in passato, è il sintomo di un male più ampio. Riflette il disorientamento geopolitico europeo, sottolineato dalle crescenti tensioni autonomiste — in Spagna, Belgio, Gran Bretagna… Ma denuncia, soprattutto, il “male nazionale”. La frattura tra gli italiani, la politica e lo Stato, rivelata, in modo esplicito, da un sondaggio recente, condotto in ambito nazionale (Demos, gennaio 2013). Il quale mostra come oltre metà degli italiani (52%, per la precisione) si dica d’accordo con la protesta dei Forconi. Un orientamento che appare particolarmente condiviso — non a caso — nel Nordest (61%). D’altronde, tra gli arrestati c’è un leader dei Forconi. Ma il sostegno alle ragioni dei Forconi risulta elevato anche nel Mezzogiorno. Dove, peraltro, è nato il movimento (in Sicilia, per la precisione).
L’indipendenza del Veneto, dunque, ha ragioni di lunga durata. Che non possono essere spiegate, in modo consolatorio, come un “vizio locale”. Perché evocano una “questione nazionale” dai contorni netti. L’indipendenza dei cittadini rispetto allo Stato e alle istituzioni.

La Repubblica 04.04.14

Approvata la riforma delle Province

Un nuovo patto nel paese per migliori servizi. “Fra i molti importanti passaggi del disegno di legge Delrio mi preme sottolinearne due. Il primo è la creazione delle città metropolitane . Se ne parla dal testo unico sugli Enti Locali del 2000, ma fino ad ora si è fatto un elenco di nomi e basta. Oggi prendono finalmente forma dopo 14 anni di parole. A differenza di quanto detto in modo volutamente sbagliato non si tratta di creare nuovi enti, nuove poltrone. Si tratta invece di una nuova collaborazione, un nuovo patto tra sindaci di comuni vicini per un miglior funzionamento dei servizi a favore dei cittadini”.

Lo ha detto fra le altre cose nella dichiarazione di voto in Aula Silvia Fregolent, della presidenza del Gruppo Pd.

“Il secondo elemento di novità è la trasformazione delle province in Enti di secondo livello –ha aggiunto Fregolent-. Non si tratta di contenere i costi, ma di dare un nuovo slancio al Paese una nuova energia. Né si tratta di mandare a casa 3000 amministratori, di avere paura delle elezioni o di togliere un ente per far rimanere tutto uguale. Al contrario si tratta di un intero sistema che va rivisto, dal Parlamento ai comuni passando per l’organizzazione degli organi periferici dello Stato. Questa onda riformatrice non si fermerà anche se molti resistenze conservatrici si vedono all’orizzonte”.

“Al M5s – ha concluso l’esponente democratica – lasciamo gli show e le urla ed i battimani in aula, noi andiamo avanti con le riforme. Per questo il partito democratico voterà favorevolmente a questo disegno di legge che non è altro che il primo tassello di un lungo cammino”.

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"Una seria democrazia per i beni culturali", di Pierluigi Panza

La cultura della conservazione sta riscoprendo gli abecedari. Ne sta pubblicando uno, a puntate, la rivista «Ananke» (edizioni Alinea) nei suoi numeri del 2014 e ne pubblica un’altro lo sorico dell’arte Tomaso Montanari per minimum fax (Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà , pp. 128 e 9). Segno che si vogliono fissare dei paletti nel settore.
I lemmi dell’abecedario di Montanari declinano le sue posizioni: difesa dell’articolo 9 della Costituzione, affidare allo Stato la tutela dei beni, sottrarre il patrimonio dalla sfera del turismo e contenere l’intervento privatistico. Una visione che Montanari ritiene controcorrente, perché in un arco costituzionale che va da Forza Italia a Matteo Renzi l’Italia punta sulla «petrolizzazione» dei beni e sulle slot-machine come veltroniana zecca per finanziarne la custodia (salvo poi costruire macchine mangiasoldi tipo il Maxxi). Forse controcorrente, ma certo non isolata, visto che Montanari è sodale a quell’élite intellettuale (Settis, Zagrebelsky) ostile al cambiamento stigmatizzata sul «Corriere» di domenica scorsa da Ernesto Galli della Loggia.
Credo si debba condividere il richiamo centrale del libro: i beni storico-culturali hanno come valore principale quello educativo e non quello intrattenitivo; tanto che, all’inizio degli anni Settanta facevano capo al ministero della Pubblica istruzione e non a quello del Turismo. Successivamente, la perdita d’importanza dello studio delle arti nella scuola è andato di pari passo con la cementificazione, la corruzione nella gestione dei beni e, aggiungiamo, l’iperprotezione sindacalizzata dei lavoratori del settore e un consumo culturale oscillante tra banalizzazione e snobismo radical-chic.
Ma per capire fino in fondo il rapporto tra Costituzione (che fissa un condivisibile principio sul patrimonio) e sua applicabilità oggi, bisogna fare i conti, fino in fondo, con alcuni dati. Cinquant’anni prima della nascita della Costituzione, quando da circa un secolo si era andata imponendo la cultura della conservazione, la popolazione mondiale era un miliardo e mezzo e l’Europa, con 400 milioni di abitanti, controllava circa il 90% dei commerci e stava conferendo identità alle proprie nazioni anche ampliando i musei statali. Quasi settant’anni dopo la Costituzione, la popolazione mondiale si aggira sui 7 miliardi (solo un decimo in Europa), nuove potenze controllano il mercato globale, le maggiori concentrazioni finanziarie non sono in Europa e favoriscono la destrutturazione delle identità nazionali in favore di sovranazionalità (Europa, Nazioni Unite). E l’Italia ha messo in valigia oltre duemila miliardi di debiti. La critica militante fa bene a ribadire i principi, ma la politica non può eludere questi scenari.
Credo pertanto che il nuovo abecedario dei Beni culturali debba ribadire che il modo d’essere che l’Italia propone al mondo è quello di continuare a vivere in un territorio della bellezza e della memoria, di volerlo custodire e comprenderne il senso, che non è riducibile alla sua digitalizzazione (archivi digitali, musei digitali…). Comprendere dunque che gli Uffizi non sono il Louvre, che il nostro è un patrimonio diffuso, ma anche che una buona nuova architettura può sorgere nei centri antichi — aspetto che agli storici dell’arte continua a rimanere troppo «postmoderno».
Per ottenere ciò, c’è bisogno di una rinascita civile che parta dagli individui — che poi si fanno comunità e anche Stato —, di un aiuto extranazionale, dell’appoggio alle sovrintendenze che sono enti utili e con validi combattenti (Montanari cita il caso di Gino Famiglietti). Ben vengano il crowdfunding e il taglio alle spese militari, anche se l’amico Obama ha visitato il Colosseo e poi chiesto di acquistare gli F35. Utile anche l’invito ai media di trattare l’argomento con serietà e specificità, non come orpello di moda o camera di compensazione di interessi lobbistici. È giusto richiamare a mostre di ricerca; tuttavia anche l’intrattenimento è un gradino di avvicinamento all’educazione e pure le fiction sull’arte sono utili. A meno che vogliamo epurare anche Shakespeare e Verdi e fare della filologia la misura di tutte le cose. Salvo poi scoprire imbarazzanti letture waburghiane o paradossali attribuzioni da parte di insigni storici d’arte.

Il Corriere della Sera 03.04.14

"Lavoro, Poletti ascolta ma il decreto cambia poco", di Massimo Franchi

Un incontro interlocutorio. Che ha confermato l’apertura del governo su piccole modifiche – calo da 8 a 6 del numero di rinnovi nel contratto a tempo determinato e il ritorno ad una limitata formazione pubblica obbligatoria per il praticantato – e la chiusura totale sullo stravolgimento degli altri punti del decreto. «Non vuol dire però prendere o lasciare – ha detto Poletti – che non possiamo presentare proposte». Così molto è lasciato al gioco degli emendamenti e delle possibili alleanze trasversali. Sul decreto Lavoro ieri sera si è tenuto l’atteso faccia a faccia fra il ministro Giuliano Poletti e i parlamentari del Pd.
La disponibilità all’ascolto da parte di Poletti non si è comunque tramutata in una definizione compiuta e precisa delle possibili modifiche al testo, mentre da parte del partito le varie posizioni – molto critica da parte della minoranza (che però è largamente maggioritaria in commissione Lavoro, 17 componenti su 21 del Pd) e positiva da parte della maggioranza renziana – si tradurranno negli emendamenti che verranno presentati. Il cammino però è ancora molto lungo. Ieri il presidente della commissione Cesare Damiano ha chiesto alla presidenza della Camera l’allungamento dei tempi per le audizioni delle parti sociali. Se la richiesta verrà accettata, la scadenza per la presentazione degli emendamenti sarà l’11 aprile. Nel merito la linea ribadita anche ieri dallo stesso Damiano è quella maggioritaria nella commissione: «Noi non accettiamo la logica del “prendere o lasciare” perché un decreto non è un dogma e, al tempo stesso, non ci proponiamo di stravolgere il testo».
Da parte dei Giovani turchi ieri è invece arrivata una sfida al ministro: «Gli chiederemo riaprire lo scheletro del decreto con il contratto unico progressivo. Altrimenti il contratto a termine rischia di diventare un elemento di debolezza rispetto alle norme che prevedrà il jobs act». Una proposta che però vede contrario lo stesso Damiano e lo stesso ministro Poletti. Quando fu presentato il decreto, Poletti spiegò che la scelta di fare un decreto solo su contratto a termine e apprendistato era stata fatta per dare «una scossa immediata all’occupazione », mentre il contratto a tutele crescenti sarebbe arrivato nel disegno di legge delega – che dovrebbe essere depositato al Senato in questi giorni – assieme ad una riduzione della giungla contrattuale -45 tipologie – attuale. I Giovani turchi comunque escludono di rompere l’unità del Pd in commissione votando emendamenti con M5s e Sel, assai critici con il provvedimento.
Se a sinistra ci sono critiche, il decreto continua ad essere difeso a spada tratta sia da Ncd che da Forza Italia. Ieri il governo si è fatto sentire anche per bocca del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi (Ndc): «Il decreto non si tocca, non si fa alcun passo indietro: abbiamo fatto un patto di governo e lo abbiamo fatto seriamente. Il presidente Renzi è stato su questo non solo coerente ma sul fattore tempo sta giocando la sua partita vera».
«I PREPENSIONAMENTI COSTANO»
Un’altra delle novità più grandi di queste prime settimane di governo – l’idea del ministro Madia di usare i prepensionamenti per riaprire il turn over nel settore pubblico – ieri ha registrato una frenata. La Ragioneria generale dello Stato si è fatta sentire per rimarcare come il piano avrebbe costi elevati. «Se prevedo un ricambio, ho da pagare una pensione in più e uno stipendio e poi ci sono gli effetti sull’anticipo dell’età pensionabile e quello della buona uscita, c’è un impatto». Così si espresso il capo dell’Ispettorato generale per la spesa sociale della Ragioneria generale dello Stato, Francesco Massicci parlando alla commissione di controllo sull’attività degli enti previdenziali. Secondo Massicci, infatti, l’operazione sarebbe a costo zero «se si manda via una figura diventata obsoleta che non si deve rimpiazzare, ma la condizione viene meno se la figura deve essere sostituita».
Ma Madia non pare intenzionata a fare marcia indietro. Illustrando le linee programmatiche presso le commissioni riunite Affari costituzionali e Lavoro della Camera, ha spiegato: la cosiddetta staffetta generazionale è una necessità perché «se non si fa, non ci può essere il rinnovamento della pubblica amministrazione, ma la sua agonia, con il rischio di alimentare un scontro generazionale.

L’Unità 03.04.14

"Il viaggio nel tempo del Colosseo", di Paolo Conti

«Noi che lavoriamo nel Colosseo e per il Colosseo siamo abituati a convivere con il monumento probabilmente più famoso del mondo. E il mondo si stupirà scoprendo il suo vero colore. Ma sono sicura che quando le impalcature verranno smontate, entro qualche settimana e comunque prima dell’estate, il Colosseo sarà capace di sorprendere anche noi». La voce di Rossella Rea, che dirige il Colosseo dal 2008, tradisce una forte emozione.
Il cantiere per il restauro dell’Anfiteatro Flavio, aperto nel settembre scorso intorno alle prime dieci arcate Nord, sta lentamente svelando l’antico e insieme nuovissimo colore del travertino. Un timbro complessivamente chiaro ma variegato, che spazia dal miele al giallo ocra, fino al castagno, e si alterna nello spazio di pochi centimetri, restituendo una coloritura intensa, dorata, sorprendente.
L’architetto Gisella Capponi, direttore dei lavori di restauro del Colosseo e responsabile dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (suoi il progetto e i lavori di ripristino della Torre di Pisa) parla di «un colore che definirei ambrato. Una tonalità derivata da quella “patina del tempo”, rigorosamente preservata durante le operazioni di pulizia, frutto dell’ossalato di calcio che si forma naturalmente negli anni. Sparirà completamente la copertura nera dovuta al traffico e all’inquinamento». Gisella Capponi spiega che la porzione di Colosseo sottoposta al primo intervento di restauro è in assoluto la più scurita dagli agenti chimici contemporanei: «È l’area più vicina al traffico, dove il particolato si è deposto con maggiore intensità».
Ed eccoci nel cuore del cantiere. Ed ecco il sistema di pulizia. Una ragnatela di tubi che alimentano centinaia di ugelli spruzzatori a intensità regolabile, ciascuno con un proprio rubinetto. Nulla di chimico o di intrusivo: semplice acqua romana pubblica, ma diretta, con maggiore o minore intensità a distanza di pochi centimetri, verso un travertino per natura molto «alveolato», pieno di rientranze e fessure di diversa forma, adatte a contenere lo sporco. Nel cantiere lavorano dieci restauratori laureati e specializzati, indirizzati nei minimi dettagli dalla direzione scientifica del cantiere. Ancora Gisella Capponi: «Certamente non abbiamo usato le sabbiatrici, strumenti ben più potenti e adatti ad altri casi. Qui l’acqua va usata con attenzione proprio perché deve sciogliere le impurità, ma non abradere la superficie né intaccare la preziosa patina del tempo». Altra incognita deriva dalla solfatazione, cioè dalla trasformazione — sempre e comunque a causa dell’inquinamento — del carbonato di calcio (quindi il travertino) in gesso. Infine c’è da fare i conti con gli inserimenti di cemento armato tra un lastrone e l’altro, che risalgono agli interventi di consolidamento di fine ‘900 nelle prime due arcate, ma che ora appaiono nel complesso fortunatamente poco invadenti.
Quello del Colosseo è un intervento di manutenzione straordinaria. Ma la cultura della Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma retta da Mariarosaria Barbera è basata sulla manutenzione ordinaria: «Fondi economici magari moderati ma costanti, che assicurano una buona conservazione ai monumenti. Ma il Colosseo ha richiesto un intervento, appunto, straordinario. I danni prodotti dall’inquinamento dal Dopoguerra a oggi non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli registrati in diciannove secoli. La fine del riscaldamento a carbone, vietato in Italia dal settembre 2005, ha migliorato la situazione. Però traffico e vibrazioni meccaniche sono peggiorati».
Il cantiere per la pulizia esterna del Colosseo andrà avanti per altri due anni. Seguirà la realizzazione del Centro servizi («che resterà rigorosamente di proprietà della Soprintendenza», avverte Barbera) e infine gli interventi per i sotterranei, le gallerie coperte del primo e del secondo ordine, l’impiantistica. In tutto cinque anni. Come si sa, il restauro è stato finanziato con 25 milioni di euro dal gruppo Tod’s di Diego Della Valle che così commenta: «Considero la sponsorizzazione del restauro del Colosseo un onore. Un impegno che ci rende orgogliosi di essere italiani. Mi piacerebbe continuare a vedere aziende private di successo che dedicano parte delle loro risorse a questo genere di attività. Dobbiamo dare un esempio positivo di questo Paese valorizzando la nostra cultura che è la risorsa fondamentale per la ripresa economica».
Ma la soprintendente Barbera non teme un’invasione della mano privata? «Io lavoro per lo Stato e nello Stato, sono più che convinta che la mano pubblica abbia il dovere di garantire la tutela, la valorizzazione, la fruizione del nostro patrimonio. Ma perché mai l’interazione con un privato, basata su regole precise, ben governata, destinata a finalità di pubblico interesse, andrebbe demonizzata?».
Fuori, sul piazzale, regnano incontrastati i centurioni, i camion bar, i tavolini di souvenir, stuoli di guide turistiche non autorizzate che fermano gli stranieri. Rossella Rea sospira: «Ormai non commento più questo desolante panorama. Più aumentano le promesse di decoro dal Campidoglio, e più crescono loro. Gli irregolari». Chissà che affari, col Colosseo color oro sotto il sole di Roma.

Il Corriere della Sera 03.04.14

"Coperture incerte per gli sconti fiscali deficit al 3% a rischio", di Federico Fubini

Proprio oggi i tecnici del Tesoro e di Palazzo Chigi sono al lavoro per stringere i bulloni, martellare le escrescenze, coprire le crepe: martedì prossimo il governo presenta il Documento di economia e finanza. E c’è ancora molto da fare. Perchè da ciò che è dato sapere dalle slide di Matteo Renzi, i conti faticano a tornare. In totale le misure che sono state promesse aprono un buco per 18 miliardi di euro, ma molte delle coperture si presentano incerte: le una tantum o le misure friabili pesano per più di 10 dei 18 miliardi da trovare. Quasi due terzi della manovra.
Da Palazzo Chigi al ministero dell’Economia, tutti hanno presenti i problemi. Che per ora non presentano sintomi, è vero. L’onda lunga dei capitali internazionali a caccia di rendimenti è arrivata anche in Italia, in uno degli ultimi party prima che la Federal Reserve fra un anno chiuda il bar del denaro facile. Ma nel frattempo il deficit e il debito minacciano di salire: mentre si lavora al Def, nel governo cresce la convinzione che, a un certo punto, andranno prese decisioni per garantire la rotta.
Renzi vuole risollevare il morale depresso degli italiani e mettere in cassaforte il consenso, ma capisce che operazioni del genere presentano un costo. In primo luogo, c’è quello degli impegni che avranno effetti permanenti sul bilancio. Gli sgravi ai redditi bassi per esempio costeranno 6,6 miliardi di euro quest’anno e dieci miliardi in ciascuno dei prossimi. Il taglio del 10% dell’Irap, la tassa regionale sulle imprese, costerà due miliardi. E la riduzione della bolletta energetica per le piccole imprese sottrarrà alle entrate 1,4 miliardi. Insomma, dalle slide di Renzi si evincono minori entrate in pianta stabile per 10 miliardi quest’anno e 13,4 dal 2015. Già così, senza contromisure, il deficit si avvicinerebbe al 4% del Pil.
Ci sono poi spese non ricorrenti: 3,5 miliardi per rimettere
a posto le sedi delle scuole – ormai un’urgenza – e 1,5 miliardi per la tutela del territorio da frane, smottamenti, alluvioni. Infine, se saranno liquidati gli arretrati dello Stato alle imprese, il deficit salirà di altri 3-5 miliardi a causa delle uscite legate a spese per investimenti.
Semplicemente sulla base di ciò che ha detto Renzi, una stima cauta mostra che servono 18 miliardi di coperture. Ma tre mesi dell’anno sono già trascorsi, ne restano solo 9 per farle funzionare e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a Repubblica ha osservato: «È mia convinzione che tagli fiscali permanenti debbano essere finanziati da coperture permanenti, cioè da tagli di spesa». Non è chiaro se si tratti di un’opinione o di un impegno; ma ancora meno chiaro è se – e quando – sia possibile trovare 10 miliardi di tagli permanenti alla spesa e 18 di coperture in tempi brevi. Dal governo su questo sono uscite indiscrezioni ma anche indicazioni che sollevano altre domande.
Certo per esempio è che gli sgravi all’Irap avranno come
controparte un aumento del prelievo sui guadagni da capitale investito. È una scelta che contiene un messaggio di programma perché si detassano le attività che creano lavoro e si tassano le rendite, il contrario di ciò che l’Italia ha fatto per decenni. Se però si guarda solo ai numeri, l’impianto del governo vacilla perché con tassi bassi come oggi è difficile che i redditi da capitale generino due miliardi di gettito solo alzando l’aliquota di uno 0,6%.
C’è poi il piatto forte delle coperture, la spending review del
commissario Carlo Cottarelli. Anche qui non sarà possibile fare molto nel 2014: forse fino a cinque o, secondo lo stesso Cottarelli, tre miliardi di risparmi. Mezzo miliardo arriverebbe tagliando i compensi ai grand commis pubblici e molto di ciò che resta da una sforbiciata sugli acquisti di forniture dello Stato. È un’area in cui c’è spazio per intervenire, anche se la vendita di beni e servizi alle amministrazioni è un’attività vitale per decine di migliaia di imprese: la crescita ne risentirà.
Le coperture solide per ora finiscono qua, a quota 5-7 miliardi su 18. Il resto ha caratteri diversi: il rientro dei capitali nascosti al Fisco in Svizzera resta arduo da misurare e dal 2015 non si ripeterà; il maggior gettito Iva prodotto dai pagamenti degli arretrati alle imprese è stimato in 5 miliardi, ma non è una risorsa in più: è un’entrata anticipata a questo dai prossimi anni, quando si aprirà un buco corrispondente; e il risparmio da minori interessi sul debito sarà valutabile solo tra un anno: nessuno fonda una manovra su una voce del genere, anche perché l’anno prossimo probabilmente i rendimenti dei titoli di Stato torneranno a salire con l’aumento previsto dei tassi internazionali. Insomma l’operazione per riportare ottimismo in Italia costa, ma coperture da 18 miliardi si trovano solo compiendo lo sforzo eroico di crederci. Beato quel bilancio pubblico che non ne ha bisogno.

La Repubblica 03.04.14

"Finisce a Brescia l’era di Stamina", di Adriana Bazzi e Mario Pappagallo

I medici degli Spedali Civili di Brescia, dove il metodo Stamina (pensato per risolvere una miriade di problemi, ma rivolto in particolare contro le malattie genetiche dei muscoli che colpiscono persone giovani) veniva richiesto, per imposizione dei giudici, hanno deciso di sospendere i trattamenti. In attesa che la nuova commissione del ministero della Salute si esprima sull’intricatissima vicenda.
Stop al metodo Stamina nell’ospedale di Brescia. Con una lettera, inviata alla direzione generale e al commissario straordinario degli Spedali civili, i medici della struttura sanitaria hanno comunicato l’intenzione di interrompere la loro collaborazione per la somministrazione del trattamento con il «metodo» di Davide Vannoni. Lo ha annunciato ieri il commissario straordinario, Ezio Belleri, in audizione presso la commissione Igiene e sanità del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla vicenda Stamina. Stop a data da definirsi, in attesa che si pronunci il nuovo Comitato scientifico. A parte i medici, peraltro, l’unica biologa di Stamina (metodo segreto nessuno può metterci le mani se non persona di fiducia di Vannoni) è assente per «motivi personali».
Medici e biologa tutti prossimi a ricevere «avvisi di chiusura indagine» dalla Procura di Torino, dove il procuratore Raffaele Guariniello sta stilando i capi di imputazione. Entro pochi giorni la firma e il passaggio alla segreteria che li trasmetterà ai 19 indagati, tra il periodo Stamina Foundation-Cognition e quello della «convenzione» con gli Spedali civili bresciani. Davide Vannoni e Marino Andolina, presidente e vice della Fondazione, sono ovviamente tra i 19. Oggi, inoltre, si apre il primo degli appuntamenti con la giustizia che vedono Vannoni coinvolto. In tribunale, sempre a Torino, dovrà rispondere di tentata truffa alla Regione Piemonte per la richiesta di un finanziamento di 500 mila euro. Per l’occasione il fondatore di Stamina ha cambiato avvocato e ha scelto Liborio Cataliotti, di Reggio Emilia, noto per aver difeso la regina delle televendite Vanna Marchi.
Dopo l’annuncio dello stop ai trattamenti, la mamma di Sofia (una delle pazienti sottoposta ai cicli Stamina) protesta e annuncia una valanga di querele da parte delle famiglie: «Chi ha cominciato la cura, e allo stato attuale sono 34 pazienti, è tutelato dalla legge numero 57, scaturita dall’ex decreto Balduzzi, che riguarda le cure compassionevoli». Sono 36 i pazienti in trattamento con il «metodo» Stamina agli Spedali civili, due deceduti ed uno ritirato. I dati li ha forniti il commissario straordinario Belleri al Senato: «147 sono i pazienti in lista di attesa. I ricorsi sono in totale 519: 160 respinti e 68 in attesa di decisione». Il commissario si è poi dichiarato preoccupato: «Siamo stati più volte minacciati di essere chiamati in giudizio qualora dovessero morire malati in lista d’attesa».
«Quello deciso dai medici è uno stop di grandissimo coraggio», commenta invece la presidente della commissione Sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi, che aggiunge: «Precedentemente i sedicenti trattamenti sono stati interrotti per l’assenza della biologa non iscritta all’ordine, ora c’è un dato nuovo: la decisione dei medici bresciani». Duro Vannoni: «Uno stop contro la legge, contro il diritto e contro gli ordini dei giudici. Una decisione inapplicabile». E parla di «14 decessi delle persone in attesa, con una malata di Sla morta proprio ieri».
Affermazioni che avranno risposta anche dalle carte in mano al procuratore Guariniello che ha fatto esaminare sessanta cartelle cliniche di pazienti trattati con le infusioni Stamina, tra prima e dopo Brescia. Diciannove indagati nell’inchiesta penale: undici nel primo filone, formalmente chiuso già ad agosto 2012, e otto nella coda bresciana. Tutto accorpato. Al centro, naturalmente, lo psicologo Vannoni, «padre» della nuova metodica, e il suo vice Marino Andolina. Due biologi russi, un architetto, un neurologo, altri due medici, un economista, un imprenditore. Poi Brescia. Otto indagati, tra i quali il dirigente della Regione Lombardia Luca Merlino (primo a essere trattato da Stamina a spese dello Stato), la direttrice sanitaria Ermanna Derelli (un suo parente è un altro dei pazienti trattati a Brescia, ieri non si è presentata in Senato), la responsabile del laboratorio Arnalda Lanfranchi, la segretaria scientifica del comitato etico Carmen Terraroli, l’anestesista Gabriele Tomasoni, l’oncologo pediatra Fulvio Porta. Figura chiave, la biologa di Stamina Erica Molino. I capi d’accusa, a vario titolo: associazione per delinquere, truffa, somministrazione di medicinali imperfetti o «in specie e qualità diverse da quella dichiarata o pattuita».
Forse è arrivato il momento della chiarezza su un «grande pasticcio» all’italiana.

Il Corriere della Sera 03.04.14