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Il paese degli irriducibili “Costruiamo blindati perché siamo in guerra”, di Piero Colaprico

Custodivano il “tanko” utilizzato per l’assalto a San Marco del 1997, avevano attrezzato un vecchio escavatore con un cannoncino, meditavano di acquistare armi e propugnavano una secessione armata del Veneto. In 24 sono finiti agli arresti in Lombardia e Veneto a conclusione di un’indagine del Ros. Tra loro, ex esponenti del movimento “Serenissimi” e l’ex parlamentare leghista Franco Rocchetta. Contro il blitz insorge la Lega. Sorridono, i paesani, e tentano di minimizzare, anzi raccontano di quanto Flavio Contin sia un brav’uomo. Uno che in questa cittadina diventata depressa, canta nel «Coro Tre Cime», e ama scherzare «su tutto, ma non sulla politica, perché lui è uno che ci crede, che ha fede ». Fede nella secessione e nei compagni di lotta. Soprattutto in due. Uno è Luigi Faccia, che sta ad Agna, s’è confusamente mangiato tutto «per la causa», la ditta e la villa, e proprio l’altra sera è andato a ritirare dal tornitore la canna del cannoncino. Quando i carabinieri del Ros hanno bussato alla sua porta, ha alzato la testa, teatralmente: «Mi dichiaro prigioniero di guerra ».
Quella canna andava montata sul carrarmato che stava qui, a
Casale di Scodosia, in un capannone grigio, rettangolare, con «un fossato», che è in realtà un rigagnolo. Si trova in fondo alla zona industriale, grandissima e pianeggiante, capannoni uno in fila all’altro, ma vuoti, spenti, polverosi: «Questo, quindici anni fa, era il quarto paese per prodotto interno lordo del padovano. Adesso siamo a livelli da terzo mondo», raccontano al bar «Al Duca», che è gestito dai cinesi, e sul piazzale pedalano ragazze d’origine africana.
Gli investigatori, piuttosto preoccupati dai discorsi intercettati, dal continuo pensare ad azioni violente, non hanno mai mollato questo paesino di 5mila abitanti. Anzi, dettaglio curioso, avevano già consegnato le carte per i giudici quando, un sabato pomeriggio, hanno visto il gruppo di Flavio Contin, l’hanno seguito sino al capannone, dove i secessionisti hanno provato a sparare. «Per ora» a salve, si dicevano. Due bossoli, due esplosioni. Il secondo colpo è stato così forte da far tremare il tetto e gli stessi attempati
ma efficienti «artificieri » si sono un po’ spaventati. Nessuno ha sentito niente?
Guardare dentro Casale di Scodosia è come usare una lente d’ingrandimento sul secessionismo alla veneta. Innanzitutto, qui Flavio Contin, 72 anni, è un «personaggio positivo», inutile girare intorno alla questione: «Flavio è un ragazzo che non denega l’assalto del ‘97, portato a termine con Faccia, con il nipote e con gli altri. Anzi si era ricomprato il tanko, quello comparso sui telegiornali di tutto il mondo quando è arrivato in piazza San Marco. Lo teneva nel cortile di casa, lo mostrava a tutti, fiero». Fiero di che cosa, esattamente? «L’ha fatto con le sue mani, e quando uno fa una cosa con le sue mani, ci tiene… ».
Qualche «pacca» in galera l’ha presa, così ha raccontato, ma il capo della banda del tanko «è rimasto incrollabile e nelle settimane scorse ha raccolto anche le firme per il referendum “Veneto Libero”. E se voi pensate che Matteo Renzi governa l’Italia intera con i tre milioni di voti delle primarie del suo partito, e qui abbiamo preso due milioni in una regione soltanto…». Sono queste le parole degli amici del bar, a Casale di Scodosia, e sanno tutti che Contin è a casa sua. Vista l’età non l’hanno trascinato in cella, come gli altri: «Non posso parlare », sussurra al citofono, protetto da un veneziano Leone alato.
Poco dopo esce il fratello gemello, tuta e auto furgonata. «Sapeva che erano controllati, non puoi fare nemmeno un fischio, ormai », dice. Veramente, si parla di un carro blindato alto quattro metri, pesante tonnellate, pronto a una nuova azione clamorosa: «Scusate, ma vado. Oggi — si lamenta il gemello del secessionista — non riesco a rendere bene sul lavoro».
Lavoro come religione, questa è anche la bassa padovana, dove i fallimenti personali s’incastonano nella crisi del sistema: moltissime insegne abbandonate annunciano infatti «mobili d’antiquariato », realizzati da contemporanei. E chi li compra, oggi? Ma come cambiare produzione? A queste domande non s’è trovata risposta industriale e commerciale, non da parte della maggioranza. Lo scontento dilaga, i soldi spariscono. Sul retro di alcuni camion si legge: «La Madonnina, vanto di Milano. Il Colosseo, vanto di Roma. Tangenziale di Mestre, vergogna veneta».
Questa «vergogna» era uno dei tasti più battuti dal secondo amico fidato di Contin, il terzo pezzo grosso del secessionismo finito ieri nei guai. È un ex parlamentare della Liga, sottosegretario agli esteri del primo governo Berlusconi, Franco Rocchetta. Anni e anni fa, aveva cacciato Faccia, adesso era erano tornati «in buona», s’erano impegnati appassionatamente sul doppio livello:
quello pubblico sul referendum, quello sotterraneo, con il carrarmato casalingo. Rocchetta era andato a scovare l’ex ambasciatore della Georgia in Italia, Beglar Davit Tavartkiladze, lo usava come «osservatore» sul voto del referendum veneto. Eppure, quando sono entrati in una casa che definire disordinata è poco (la Scientifica ha realizzato qualche filmato), al momento del sequestro del computer, Rocchetta è scattato, ma non per la politica: «Attenzione, troverete del materiale porno».
Questo è il trio che rappresenta «l’anima» del complotto secessionista. Quel loro voler cannoneggiare la statua di Garibaldi, non è più un segreto. E nemmeno un sogno politico. Sembra ormai l’ultima inevitabile sconfitta della banda del tanko, gente di periferia nella periferia, troppo esperta in dialetti morenti, ignara persino delle microspie dell’antiterrorismo, eppure maniacalmente sempre pronta alla guerra.

La Repubblica 03.04.14

"Milano e Torino, i risultati migliori del mondo (occidentale)", di Gianna Fregonara e Orsola Riva

I ragazzi di Piemonte e Lombardia sono i più bravi del mondo, inteso come mondo occidentale, lasciando perdere l’Estremo Oriente scolastico che come si sa è inarrivabile. Sono a soli 3 punti dai mitici quindicenni di Shanghai, i più bravi in assoluto quando si misurano le competenze in matematica. E sono seguiti a ruota dai ragazzi del Nordest, superati soltanto dagli australiani della regione di Perth. Che cosa fa dei ragazzi di Milano e Torino i migliori quando si tratta di usare quelle capacità che per molti imprenditori e cacciatori di teste sono oggi tanto irrinunciabili quanto rare (per non dire introvabili)?

Va detto che l’Italia del Nord ottiene buoni risultati anche nelle competenze matematiche e linguistiche e dunque una buona scuola funziona anche quando è ora di usare la logica o di affrontare problemi reali e complessi.
Il curriculum variegato e i lavori di gruppo aiutano a sviluppare queste capacità

Ad avvantaggiare gli studenti italiani in generale, ma soprattutto quelli che frequentano scuole di qualità, sarebbe, a sentire gli esperti dell’Ocse, il curriculum variegato: dalla storia alla filosofia alla geografia, studiare più materie aiuta rispetto alle scuole con curriculum più ristretti e focalizzati su poche materie. Inoltre l’approccio pratico (ricerche, lavori di gruppo, progetti vari e tesine) avvicina i ragazzi ai problemi complessi che si troveranno poi ad affrontare nel mondo del lavoro.

Quanto conti la «bontà» della singola scuola nei risultati dei ragazzi lo si era già capito dai test di matematica e italiano, nei quali gli studenti degli istituti tecnici del Nord danno la birra a quelli dei licei del Sud. Non è dunque vero che i licei siano in assoluto meglio degli istituti tecnici, nemmeno nell’impartire le competenze di base, come invece sembrano pensare gli studenti del Centro-Sud che anche quest’anno hanno snobbato i tecnici per iscriversi in massa al liceo. Certo, un liceale del Nord continua ad avere risultati migliori di un vicino di casa iscritto a un istituto tecnico, sia nella lettura (dove il distacco è molto netto) che in matematica (dove la differenza non supera i trenta punti, equivalenti a un ritardo di circa 8-9 mesi). Ma la forbice fra studenti del Nord e studenti del Sud, indipendentemente dal tipo di scuola, è più ampia ancora. E allora e di nuovo: conta la singola scuola, la sua capacità – attraverso un mix di materie sufficientemente variegato (con buona pace dei teorici della specializzazione a tutti i costi) ma anche l’uso pratiche come il lavoro in gruppo e a progetto – di preparare cittadini consapevoli che siano insieme aspiranti lavoratori potenzialmente più forti sul mercato: perché le due cose non si escludono, ma (come dimostrano i test Ocse-Pisa) vanno di pari passo.

Il Corriere della Sera 02.04.14

"E’ possibile non disperdere i talenti degli studenti deboli?", di di Francesco Avvisati, ricercatore Ocse-Pisa

La complessità e il cambiamento dell’economia e della società significano che il successo nella vita e nel lavoro è sempre più determinato dalla nostra capacità di adattarci a nuove situazioni, di imparare dagli errori che commettiamo e di trovare nuove vie per affrontare problemi complessi. Sono queste le qualità che i quindicenni di oggi apprendono a scuola? Lo studio Ocse-Pisa del2012ha cercato di rispondere a questa domanda, sottoponendo gli allievi quindicenni di 44 paesi ed economie ad una serie di test volti a misurare le loro capacità nella risoluzione di problemi non scolastici (problem solving). Un ambiente virtuale – creato al computer – è stato usato per simulare situazioni di vita reale, quali un dispositivo elettronico che non funziona oppure un viaggio da pianificare. Lo studio ha permesso di osservare la capacità di misurarsi con problemi la cui soluzione non è immediata. Ai giovani studenti era richiesto di mostrarsi aperti alle novità, di accettare il dubbio e l’incertezza, e talvolta di osare una soluzione sulla base del loro intuito. Ma anche di ragionare in modo deduttivo e di imparare durante il test a navigare una situazione complessa, utilizzando le informazioni disponibili e quelle ottenute in risposta alle proprie azioni. I risultati pubblicati oggi mostrano che gli studenti di Singapore e Corea, seguiti dagli studenti giapponesi, sono i migliori in problem solving. Posti di fronte a un problema complesso, essi imparano presto, si mostrano curiosi e avidi di sapere, e sono in grado di risolverlo anche senza essere guidati verso la soluzione. Anche gli studenti italiani hanno ottenuto buoni risultati. L’Italia è sopra la media Ocse, dietro alla Finlandia ma allo stesso livello di Francia, Germania, Inghilterra e Paesi Bassi per le competenze di problem solving. In Europa, paesi come la Danimarca, la Svezia, la Polonia e la Spagna hanno tutti ottenuto risultati inferiori rispetto all’Italia.
Solo uno su dieci è eccellente nel nostro Paese

Le regioni del Nord Italia, poi, ottengono risultati ancora migliori: in queste regioni i quindicenni mostrano capacità paragonabili ai coetanei di Shanghai e Taiwan, tra i primi dieci nelle classifiche Ocse-Pisa. Il relativo successo dell’Italia, soprattutto se confrontato ai risultati ancora deludenti – ma in miglioramento – nelle competenze di matematica e lettura, è merito in gran parte degli «ultimi della classe». Gli studenti eccellenti capaci di interagire in maniera strategica con problemi complessi sono relativamente pochi in Italia, circa uno su dieci (a Singapore e in Korea più di uno su quattro raggiunge questo livello). Ma gli studenti più deboli in matematica mostrano di sapersela cavare bene quando il problema da risolvere non è l’equazione di secondo grado ma un problema della vita reale, che pure richiede applicazione e ragionamento sistematico per essere risolto (ad esempio comprendere il funzionamento del condizionatore dell’albergo, oppure scegliere il luogo più conveniente per incontrare gli amici). Questo non significa che non bisogna più insegnare le equazioni di secondo grado o la storia a scuola. Al contrario, dimostra che esistono ampi margini di miglioramento nelle competenze di matematica e lettura degli studenti più deboli, a condizione di prestare attenzione a ciò che li motiva e li incuriosisce.
Troppo spesso gli studenti in difficoltà rinunciano a studiare

Troppo spesso gli studenti in difficoltà rinunciano ad apprendere le materie scolastiche perché si sentono poco stimolati da un insegnamento astratto e scollegato dalla loro esperienza quotidiana. I risultati positivi dell’Italia mostrano anche l’importanza di avere un curriculum scolastico vario, in cui a tutti i ragazzi vengono offerte possibilità di coltivare il proprio talento. Si può infatti imparare a ragionare, a osservare e a risolvere i problemi in tutte le materie – dalla storia alla matematica, dalle scienze al disegno e alla musica. Troppo spesso, però, come ammoniva già Seneca, si impara solo ciò che conta per la scuola e non ciò che conta per la vita. I progetti interdisciplinari, legati alla vita reale, possono servire in questo senso: ridare a ragazzi e ragazze l’appetito di imparare. La condizione è che questi progetti siano strutturati come occasioni di apprendimento e che gli insegnanti siano formati a questo scopo. L’ultima rilevazione Ocse-Pisa ci invita a coltivare l’ambizione che nessun talento debba essere sprecato a scuola, e a farci sperare in un futuro migliore. «Porre la mira assai più alta che il loco destinato» – come insegna Machiavelli – ci aiuterà a raggiungere il nostro disegno, e a recuperare fiducia nella scuola italiana.

Il Corriere della Sera 02.04.14

"Le riforme per superare l’emergenza", di Stefano Lepri

Un così alto livello di disoccupazione in Italia può essere fatto risalire a tre diversi errori del recente passato. Il primo è il ritardo con cui l’Italia ha dato inizio al risanamento del bilancio, nella seconda metà del 2011. Il secondo è la cattiva gestione della crisi dell’euro, tra istituzioni comuni deboli, sfiducia reciproca tra nazioni, ritardi.

Il terzo errore lo commisero governi e istituzioni del mondo quando, a metà del 2010, si illusero che aggiustamenti di bilancio rapidi e contemporanei in molti Paesi avrebbero riportato la fiducia tra gli operatori economici, senza causare una seconda recessione. Quale sia il peso relativo di ciascuno dei fattori è materia di dibattito, e lo resterà a lungo.

È difficile evitare che i disoccupati continuino ad aumentare anche nella prima fase della ripresa, specie se è fievole come in Italia. Quello che si può fare subito è riformare il mercato del lavoro in modo che il peso non ricada tutto sui giovani, rendendoli disperati; è procedere con le riforme, anche politiche, per alzare il morale del Paese.

Ricette miracolose non ne esistono. Attendendo che la Bce si muova, la novità è che nella campagna per il voto europeo l’austerità appare senza genitori. Il candidato del centro-destra, Jean-Claude Juncker, rifiuta di lasciare al rivale socialista Martin Schulz lo slogan che innanzitutto occorre lavoro; se gli si obietta che vota per lui Angela Merkel, ribatte vantando il sostegno dei greci di Nea Dimokratia.

Le proposte politiche restano diverse, è ovvio. Un vasto numero di disoccupati in presenza – come siamo – di capitali abbondanti e inoperosi fa propendere verso soluzioni di tipo keynesiano, in cui lo Stato mobilita risorse per creare lavoro; soluzioni care alla sinistra quasi ovunque, anche alla destra nei Paesi latini e in Giappone.

Ma quando i capitali appartengono perlopiù ad alcuni Paesi (come la Germania), i disoccupati ad altri, non è facile organizzare l’incontro, specie se Stati indebitati e sistemi-Paese inefficienti non ispirano fiducia. In Europa, proprio il molto che resta di sovranità nazionale fa ostacolo; all’opposto dell’illusione di creare lavoro uscendo dall’euro.

Anche per il contrasto di interessi nazionali, nel Nord del continente la dottrina dell’austerità resta in voga. Lo prova la difficoltà dei socialdemocratici tedeschi, da cui Schulz proviene, a proporre agli elettori del loro Paese le politiche di investimento e di solidarietà che gli elettori di sinistra di altri Paesi sperano dal candidato Schulz.

A favore dell’austerità viene giocato ora l’argomento che i due Stati più inguaiati, Portogallo e Grecia, cominciano a uscire dal tunnel. Eppure, nel dirsi allo stesso tempo preoccupato di un lungo periodo di bassa inflazione, il commissario europeo Olli Rehn implicitamente riconosce che i piani di Bruxelles erano difettosi.

Ci sono poi differenze. In entrambi i Paesi, dato un forte sbilancio nei conti con l’estero come nei bilanci pubblici, un risanamento era inevitabile. La durezza è stata simile (2,2% di Pil all’anno per 5 anni in Portogallo, 2,4% in Grecia), il successo diverso: Lisbona può ora sottrarsi alla sorveglianza della «troika»; Atene, dove in mancanza di riforme le sofferenze sono ricadute sui più deboli, ha faticato ad ottenere la nuova rata di aiuti.

La politica ha fatto la differenza: misure più efficaci in Portogallo, dove gli elettori continuano a dividersi tra una coalizione di centro-destra e un partito socialista entrambi europeisti; mentre in Grecia crescono le estreme o forze del tutto nuove. Quando si è alle strette, va meglio ai governi che sanno riformare. È un esempio che può valere sia a Roma sia a Parigi.

La Stampa 02.04.14

"Stop al reato di clandestinità Via libera della Camera", da unita.it

Con 332 voti a favore e 104 contrari l’aula della Camera ha dato via libera definitivo al disegno di legge «Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili». Hanno votato contro Lega Nord, Fratelli d’Italia e Movimento Cinque Stelle. La legge prevede che per i reati punibili con una pena fino a quattro anni si ricorra – almeno per chi non è recidivo – alla cosiddetta messa alla prova, vale a dire a misure alternative al carcere, concordando con lo Stato un percorso di riabilitazione e di lavori socialmente utili.

«Non è una legge svuota-carceri, ma una riforma del sistema sanzionatorio» ha sottolineato nel suo intervento in aula la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti. Vani i tentativi di ostruzionismo dei deputati leghisti, fortemente contrari al provvedimento che depenalizza, tra le altre cose, il reato di immigrazione clandestina nato nel 2009 quando Roberto Maroni era ministro dell’Interno.

Durante le dichiarazioni di voto, il presidente di turno, il grillino Luigi Di Maio, ha espulso dall’aula il leghista Massimiliano Fedriga per aver, durante l’intervento del collega Nicola Molteni, occupato i banchi del governo e mostrato un cartello con la scritta «Ministro Alfano, clandestino è reato». «Vergogna, vergogna», hanno urlato in aula i deputati del Carroccio dopo la lettura dell’esito del voto.

Domiciliari come pena principale, depenalizzazione anche di reati amministrativa, messa alla prova. Sono le linee guida della riforma del sistema sanzionatorio approvata oggi in via definitiva dalla Camera. La legge sulle pene detentive non carcerarie ridisciplina con due deleghe al Governo anche il procedimento nei confronti degli irreperibili abolendo l’istituto della contumacia.

Non tutte le norme però saranno immediatamente applicabili: all’attuazione della depenalizzazione e dei domiciliari dovrà infatti provvedere l’Esecutivo attraverso appositi decreti legislativi. Tra le novità principali figura l’inserimento nel codice penale, a pieno titolo, della pena detentiva non carceraria, ossia reclusione o arresto presso l’abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza (‘domicilio’).

Secondo la delega, i domiciliari dovranno diventare pena principale da applicare in automatico a tutte le contravvenzioni attualmente colpite da arresto e a tutti i delitti il cui massimo edittale è fino a 3 anni. Se invece la reclusione va da tre a cinque anni, sarà il giudice a decidere tenendo conto della gravità del reato e della capacità a delinquere.

www.unita.it

“Nei campi 12 ore senza paga” i 100mila prigionieri dei caporali, di Valeria Teodonio

Il sole è appena tramontato e Kumar può tornare a casa. Da 12 ore è chinato sui campi per seminare. Ha le mani sporche di terra e la pelle già cotta dal sole. Per ogni ora passata piegato in due ha guadagnato meno di tre euro. Abita cinque chilometri più in là, vicino al Circeo, in 30 metri quadrati fatiscenti. Che divide con altri ragazzi indiani di etnia sikh come lui. Quanti, non lo dice.
È partito dieci anni fa, Kumar. Appena diciottenne ha lasciato il Punjab, regione nel nord-ovest dell’India. Ha salutato i genitori e la giovanissima moglie. Per arrivare in Italia ha dato seimila euro ai trafficanti di uomini. Seimila euro per diventare schiavo. Sfruttato dalle aziende che lo pagano una manciata di euro al giorno, sfruttato da chi gli affitta una casa squallida a un prezzo esagerato. E la storia di Kumar non è la peggiore che possiamo raccontare. Ci sono altri braccianti indiani nel Lazio che non guadagnano neanche quei pochi euro a giornata.
Lavorano gratis per mesi, a volte anni: devono risarcire un debito inventato da chi li usa. Quando il permesso stagionale scade, i loro ‘padroni’ (così li chiamano) pretendono altri soldi. La scusa è che servono per pagare il permesso di soggiorno, che in realtà è gratuito. Chi non ha quei soldi è costretto a lavorare senza stipendio. Schiavo in piena regola. Lo sfruttamento riguarda Latina e altre decine di località italiane. Sono 22 le province in cui si registrano condizioni di paraschiavismo. In tutto 12 regioni, da nord a sud. A dirlo è il rapporto della Flai Cgil sulle agromafie curato dall’osservatorio Placido Rizzotto. «Nel nostro Paese si può azzardare una stima di 100mila braccianti gravemente sfruttati, in 5mila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio — spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma — Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati dai caporali, che prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati ».
Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un milione e 200mila. Un quarto sono stranieri, dicono i dati di Coldiretti. L’Istat parla del 43 per cento di lavoro sommerso. Dunque i lavoratori a rischio sfruttamento nel nostro Paese sono almeno 400mila. Di certo a migliaia restano sui campi anche 12, 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l’ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60. «È una partita molto ricca — aggiunge Carchedi — un raccolto delle angurie fatto con gli indiani sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di italiani, costerebbe almeno 70 euro e durerebbe un mese e mezzo ». Il giro d’affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all’anno. L’evasione contributiva legata al caporalato vale 600 milioni di euro.
I braccianti indiani non arrivano come clandestini. Alle organizzazioni che trafficano esseri umani danno fino a 8mila euro. In cambio hanno un biglietto aereo e un permesso di tre mesi per lavorare come stagionali. Per pagare questi viaggi le loro famiglie si indebitano. Poi vengono ingaggiati da caporali, a Latina come nelle altre zone: all’alba li caricano sui furgoni e li portano sui campi. Dai lavoratori pretendono anche personali tasse giornaliere: 5 euro per il trasporto, 3,50 per il panino, 1,5 euro per ogni bottiglia d’acqua. Ma il caporale è solo l’ultimo anello di questa catena dello sfruttamento. Sopra di lui – quasi sempre un italiano – c’è un faccendiere, un avvocato o un commercialista. Che gestisce il giro degli affitti e dei permessi di soggiorno. Al di sopra c’è il capo dell’organizzazione, un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini. Campania, Puglia e Sicilia le regioni più colpite dal fenomeno: a Rignano Garganico (Foggia), esiste un enorme ghetto, un villaggio di baracche. Ci abitano 1.500 persone, quasi tutti africani, impiegati nell’industria del pomodoro.
Le campagne del Piemonte, invece, sono popolate soprattutto da braccianti dell’est Europa. A Saluzzo (Cuneo), e a Canelli (Asti), raccolgono le uve pregiate per produrre spumanti. Ma anche i tartufi. I braccianti vengono reclutati in Romania, Bulgaria e Macedonia, lo stipendio non supera i 300-400 euro al mese. Nel Lazio molti dormono nelle serre dove lavorano. Oppure nei templi dove pregano. Altri affittano appartamenti a prezzi esagerati dove vivono anche in 10. Kumar paga 500 euro per 30 metri quadrati: soffitti neri per l’umidità, materassi ammuffiti, mosche. Sopra il letto Kumar ha appeso la foto del suo matrimonio. Con l’abito tipico e il turbante rosso. «Il mio padrone di casa — racconta Kumar — mi ha portato una bolletta della luce da 575 euro. Poi ha detto: se non la paghi ti sparo ». Eppure, Kumar resta convinto che il suo datore di lavoro sia una brava persona. «Perché mi paga», spiega. E abbassa lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi. «Ma sai che dovrebbe darti il triplo?», gli chiediamo. «Non ho alternativa», risponde con la voce che trema. Fermare questo sfruttamento non è semplice. La Flai, insieme agli altri sindacati di categoria di Cisl e Uil, ha presentato una proposta di legge per rendere trasparente il mercato del lavoro in agricoltura. In tutto, le persone arrestate o denunciate negli ultimi due anni per caporalato (reato introdotto solo nel 2011) sono 360. Ma resta difficile da provare, e non è scontato che si arrivi a una condanna.
Il sole è tramontato. Kumar sta tornando a casa. In sella alla bicicletta, forse, pensa a sua moglie. Ma in Italia non può, non vuole farla venire. Perché? Gli chiediamo. Ci risponde a labbra strette: ‘Cosa le farei mangiare?’

La Repubblica 02.04.14

"Gli idealisti con il broncio", di Massimo Adinolfi

L’appello promosso da Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Roberta De Monticelli e altri illustri professori contro il disegno di legge costituzionale approvato dal governo è stato subito adottato dal Movimento 5 Stelle: che cosa significa questa così repentina adesione?Che Grillo e Casaleggio sono i migliori custodi dei valori della Carta? È alquanto improbabile.
Nell’intervista televisiva di qualche giorno fa Beppe Grillo ha detto a chiare lettere che lui è a favore del vincolo di mandato per i deputati eletti, ed è difficile trovare un altro punto che più confligge con l’ispirazione parlamentare della nostra Costituzione. Dunque non si tratta di sacro rispetto per la Costituzione: almeno non da parte di Grillo. Allora cosa vuol dire questa così vistosa convergenza di vedute? Che i Cinque Stelle condividono l’allarme lanciato dai firmatari: la riforma proposta da Renzi rappresenta una minaccia per la democrazia, delinea una deriva di tipo plebiscitario, contiene i germi di un nuovo autoritarismo, assegna «poteri padronali» al premier.

Se i firmatari avessero provato a dire un’altra cosa: che cioè il progetto licenziato dal governo si inserisce nel solco di quell’interpretazione degli istituti della democrazia rappresentativa che punta a esaltare il momento della decisione rispetto a quel- la della mediazione – se avessero detto qualcosa del genere, senza gridare alla dittatura incombente, avrebbero offerto un più utile contributo alla discussione. Più o meno condivisibile ma sicuramente più utile. In una discussione del genere, vi può trovare senza difficoltà spazio una riflessione sul bicameralismo, o sulla composizione del nuovo Senato delle Autonomie, sul rapporto fra legge elettorale e natura e funzione delle Ca- mere, e spazio anche l’apprezzamento di punti meno controversi, su cui anzi c’è già un largo consenso: la soppressione del Cnel, la riforma del Titolo V sulle competenze degli enti locali. Inve- ce no: si è preferito indicare un pericolo, anzi: «quod periculosum maxime», il più grande dei pericoli, quello di un colpo mortale inferto alla democrazia. Il disegno di legge è divenuto così non una riforma, ma il principio della sovversione dell’ordine costituzionale.

Sul piano politico, le conseguenze sono persino più significative, perché l’appello ha, di fatto, la pre- tesa di bollare come di destra (anzi, autoritario, anzi plebiscitario, anzi padronale) un simile progetto di riforma, rivendicando per sé la rappresentanza della sinistra. Ma l’adesione grillina dimostra inoppugnabilmente tutt’altra cosa, e cioè che l’appello non fa che dividere una certa sinistra «ideale», o «morale» (posto che l’espressione abbia un senso, ed il fatto che pretenda di averlo è probabilmente parte della crisi della sinistra) dalla sinistra politica reale, quella che si trova ad essere rappresentata in Parlamento e nel governo, e che prova piuttosto a sconfiggere, che non ad allearsi con il populismo antiparlamentare dei Cinque Stelle. Sinistra ideale contro sinistra reale, dunque. Con un corollario hegeliano, però: che razza di ideali sono questi, che non vogliono mai saperne di realizzarsi, ma esisto-o solo per disprezzare quello che c’è?

È vero che le cose mutano. Fino agli anni Settanta, il discorso prevalente in tema di Costituzione, a sinistra e nel dibattito pubblico, era quello relativa alla mancata sua integrale attuazione. Dagli anni Ottanta, si impone invece la retorica della Grande Riforma, e si susseguono tentativi, spesso inconcludenti, di cambiare la Carta. Il carattere incoativo di questi tentativi non fa che alimentare la virulenta polemica contro il ceto politico. Polemica che dunque si nutre non del successo, ma del fallimento di quei tentativi.

Può non piacere, ma gli appelli a la Zagrebelsky non battono affatto in breccia quella retorica, che nel frattempo si è fatta senso comune e terreno effettivo di confronto politico; si limitano invece a perpetuare la polemica, scommettendo non su eventuali riuscite ma su ennesimi fallimenti. Come se intanto non fossero passati trenta, quarant’anni, e diverse legislature, come se non fosse cambiato l’intero panorama politico, come se lo stesso assetto costituzionale, elettorale, regolamentare fossero rimasto sempre uguale a se stesso, e come se non si imponesse ormai come indifferibile un compito di ricostruzione dei rapporti politici, primo fra tutti il rapporto di fiducia con i cittadini. Non si può mette- re il broncio ai propri tempi senza riportarne danno, diceva Robert Musil. Invece di accettare il terre- no del confronto, quelli dell’appello hanno messo il broncio.

Speriamo che non sia la sinistra nel suo complesso a riportarne il danno maggiore.

L’Unità 02.04.14